Il bicchiere da Martini: geometria della modernità

Nel panorama dei cocktail classici, nessun altro riesce a evocare con tanta forza l’eleganza senza tempo, la raffinatezza e l’immaginario cinematografico quanto il Martini. Dietro la trasparenza tagliente del drink e la silhouette impeccabile del bicchiere, si cela una storia ricca di intrecci tra scienza, medicina, costume e design. Un racconto che attraversa secoli, nazioni e stili di vita, fino a condensarsi in un gesto: il tintinnio sottile di un calice triangolare, impugnato con due dita, tra un brindisi e una battuta di spirito.

L’identità alcolica del Martini affonda le radici nel XVII secolo, quando un professore olandese di medicina, Francois de Boe Sylvius, mise a punto una miscela di alcol di cereali e bacche di ginepro per curare i disturbi renali e purificare il sangue. Era il genever, precursore del moderno gin. Il successo fu immediato: la bevanda non solo era economica e facilmente producibile, ma suscitava un’euforia piacevole. Il suo consumo si diffuse ben oltre le intenzioni terapeutiche, diventando parte integrante della cultura del bere in Europa.

Il secondo ingrediente del Martini, il vermouth, nasce in Italia nel Settecento come infuso di vino bianco, spezie ed erbe medicinali. Il nome stesso – vermouth – deriva dal tedesco wermut, cioè assenzio, pianta utilizzata per combattere i parassiti intestinali. A lungo, il vermouth fu consumato come digestivo, in alternativa all’acqua potabile spesso contaminata. Le prime versioni erano scure, dolci, ricche di aromi: l’attuale formulazione, più secca e chiara, si sarebbe affermata solo nel corso del Novecento.

Il matrimonio tra gin e vermouth diede vita al Martini, un cocktail il cui nome stesso è oggetto di innumerevoli leggende. C’è chi lo attribuisce a Jerry Thomas, pioniere della mixology americana, che avrebbe creato un Martinez per un cercatore d’oro diretto a Martinez, in California. C’è chi indica invece un barista del Knickerbocker Hotel di New York, Martini di Arma di Taggia, che lo avrebbe servito nel 1911 a John D. Rockefeller. C’è infine chi riconduce il nome alla ditta italiana Martini & Rossi, che già nel 1871 esportava il suo vermouth negli Stati Uniti. Tutte ipotesi plausibili, nessuna definitiva.

Se il Martini è diventato una leggenda, è anche grazie al suo contenitore. Il bicchiere da Martini – trasparente, affilato, essenziale – è una delle forme più iconiche del design del Novecento. La sua comparsa ufficiale risale agli anni Venti, in un periodo in cui il gusto estetico si andava rapidamente evolvendo verso linee pulite, minimaliste, geometriche.

Alla base del successo di questo oggetto c’è una precisa esigenza funzionale: i cocktail come il Martini vanno serviti freddi, senza ghiaccio. Lo stelo lungo consente quindi di tenere il bicchiere senza riscaldare il contenuto con il calore della mano. La coppa ampia, che si apre in un angolo netto, avvicina la superficie del liquido al naso, favorendo la percezione degli aromi, soprattutto quelli del gin. I lati inclinati impediscono la separazione dei componenti del drink e sostengono con grazia le classiche guarnizioni: un’oliva verde, una scorza di limone, o uno spiedino da cocktail.

Dal punto di vista estetico, il bicchiere da Martini rappresenta l’incarnazione del modernismo applicato agli oggetti quotidiani. Non a caso, fu formalmente introdotto all’Esposizione di Parigi del 1925 come rielaborazione modernista della coppa da champagne, allora simbolo di raffinatezza e mondanità. La forma, derivata dall’Art Deco, rifletteva le tendenze dell’epoca anche nell’architettura e nell’arredamento: linee spezzate, angoli decisi, funzionalismo elegante.

Esistono versioni più pittoresche sulla nascita del bicchiere, come quella che lo vuole ideato durante il proibizionismo americano per consentire di svuotare velocemente il contenuto in caso di raid della polizia nei bar clandestini. Se pure apocrifa, questa storia contribuisce al fascino misterioso che circonda l’oggetto.

Negli anni Trenta, il bicchiere da Martini si impose nella cultura visiva occidentale. Appariva nei film, sulle riviste patinate, nei salotti dell’alta società tra New York e Hollywood. Con la diffusione dei servizi da cocktail per uso domestico, diventò accessibile anche al ceto medio, incarnando il sogno di una sofisticazione a portata di mano. Gli shaker in acciaio lucido, i cucchiai curvi, i colini, le pinze per olive: tutto contribuiva a creare un immaginario fatto di glamour, ritmo jazz e conversazioni scintillanti.

Attrici come Katharine Hepburn, nei film quanto nella vita reale, seppero farne un accessorio di stile. Il Martini – e con lui il suo bicchiere – entrò nel linguaggio del cinema, diventando emblema di personaggi affascinanti, indipendenti, sofisticati. Divenne il drink preferito di James Bond (“shaken, not stirred”), il protagonista di brunch letterari e il compagno immancabile nei pomeriggi oziosi delle commedie sofisticate.

Oggi, il bicchiere da Martini non ha subito modifiche sostanziali. La sua silhouette è rimasta intatta, riverita da designer, illustratori, registi. Ogni tentativo di aggiornarla si è scontrato con la perfezione di una forma ormai archetipica, capace di coniugare bellezza e funzionalità in un equilibrio che sfida il tempo.

Il Martini non è soltanto un cocktail: è un’icona culturale. È il distillato di una lunga tradizione che unisce l’arte della miscelazione alla storia del design. È un gesto, uno stile, un’immagine sedimentata nell’immaginario collettivo. Ed è soprattutto una prova di come, nella semplicità apparente di un bicchiere e due ingredienti, possa vivere una complessità fatta di storie, invenzioni, influenze e aspirazioni. Una complessità che, proprio come un buon Martini, va gustata lentamente.


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