
È una storia che ha il passo della commedia e il respiro del dramma storico quella raccontata da Il quadro rubato, il nuovo film di Pascal Bonitzer in uscita l’8 maggio nei cinema italiani. Un racconto ispirato a fatti reali, che affonda le sue radici nel cuore oscuro del Novecento europeo e si apre, con ritmo serrato e intelligenza narrativa, su un presente che interroga il senso stesso del valore artistico, del denaro e della giustizia. La vicenda ruota attorno al ritrovamento de I girasoli, un quadro del pittore austriaco Egon Schiele, scomparso nel 1939 nel turbine delle spoliazioni naziste e delle campagne contro l’“arte degenerata”. A scoprire per caso il dipinto è Martin Keller, giovane operaio che vive con la madre nella cittadina di Mulhouse, in Alsazia. Il quadro, dai toni spenti e dai soggetti ossuti – dei girasoli lontani dalle esplosioni solari di Van Gogh – campeggia da tempo sulla parete spoglia della sua abitazione, acquistata anni prima completa di arredi modesti e logori. Accanto alla tela, con l’innocenza inconsapevole di chi non ne conosce il valore, Martin ha appeso persino un bersaglio per le freccette.
A scuotere questa quotidianità arriva la visita imprevista di due eleganti emissari della casa d’aste parigina Scottie’s: il banditore André Masson (interpretato da Alex Lutz) e la collega esperta d’arte Bertina (Léa Drucker), che è anche la sua ex moglie. Convinti inizialmente di trovarsi di fronte a un falso, reagiscono con una risata nervosa quando si rendono conto che quel dipinto polveroso è davvero un autentico Schiele, dato per disperso da decenni. Un’opera rarissima, trafugata durante l’occupazione nazista a un collezionista ebreo, Walhberg, la cui famiglia – non appena venuta a conoscenza del ritrovamento – ne reclama immediatamente la restituzione.
Una partita tra estetica e avidità
La scoperta accende le dinamiche di una vicenda che è tanto una caccia al tesoro quanto un confronto tra etiche e visioni del mondo. Da un lato c’è Masson, spregiudicato ma affascinante, animato da un’autentica passione per l’arte ma spinto dalla brama del colpo della vita, del guadagno straordinario che potrebbe cambiarne le sorti. Dall’altro c’è Martin, figura dimessa e tenace, che non si lascia travolgere dalla prospettiva di una fortuna improvvisa.
A dare spessore morale alla storia è proprio la scelta del protagonista di non rivendicare diritti sull’opera: riconosce la tragedia da cui proviene, ne onora la memoria restituendola agli eredi legittimi, accontentandosi di una modesta quota. Non è miseria, è consapevolezza. «Martin è l’eroe della mia storia – ha dichiarato il regista Bonitzer –. Non vuole diventare ricco, non intende rinnegare la propria storia o abbandonare il suo mondo. È una figura morale in un ambiente cinico, un segno di speranza: si può resistere alla tentazione del denaro».
Arte, potere e memoria
Il quadro rubato si muove con grazia e intelligenza dentro un mondo raramente rappresentato al cinema: quello delle case d’asta, dei mercanti d’arte, dei collezionisti e degli interessi che ruotano attorno a un settore dove bellezza e denaro si sfiorano, si intrecciano, spesso si confondono. Bonitzer, regista e sceneggiatore di lungo corso, non cerca il sensazionalismo, ma costruisce un racconto stratificato dove i personaggi si muovono tra slanci ideali e compromessi materiali.
Il film getta anche uno sguardo lucido e inquieto sulla mercificazione dell’arte, oggi più che mai protagonista di valutazioni vertiginose e spesso slegate dal contesto artistico. «L’arte ha sempre avuto un prezzo, ma non spetta agli artisti stabilirlo», riflette il regista. «Negli ultimi due secoli la compravendita artistica è diventata frenetica, affidata a figure spietate, talvolta corrotte, perfino mafiose. Il caso del Salvator Mundi, attribuito a Leonardo e passato da un acquisto per 1.500 dollari a una vendita di 350 milioni, dice molto sul nostro tempo».
Una narrazione tra ironia e tragedia
Attraverso una sceneggiatura che mescola con abilità toni da commedia e suggestioni da thriller morale, Bonitzer costruisce una storia che intrattiene e fa riflettere. Il ritrovamento fortuito, la tensione tra legittimità storica e diritto legale, il contrasto tra il lusso parigino delle aste milionarie e la semplicità di un appartamento alsaziano diventano il terreno di un racconto in cui nulla è scontato, nemmeno il valore di un dipinto. Anche il caso – come ha raccontato il regista, che ammette di amare la casualità tanto quanto il gioco d’azzardo – gioca un ruolo chiave.
La giovane stagista Aurore (Louise Chevillotte), che accompagna Masson e Bertina nella vicenda, è forse la carta imprevista: quella che può ribaltare la partita, o almeno rinegoziare i suoi termini. Il suo ruolo si carica del senso di una nuova generazione chiamata a rimettere ordine in un sistema che ha smarrito il senso delle proporzioni.
Un film che parla di ieri, ma guarda a oggi
Con Il quadro rubato, il cinema europeo si misura con uno dei nodi più complessi della memoria del Novecento: la spoliazione culturale perpetrata dai regimi totalitari. Ma lo fa con il passo lieve di una storia individuale, dove le scelte dei singoli contano quanto i destini delle opere.
In un’epoca in cui l’arte è costantemente contesa tra museo e mercato, tra valore simbolico e prezzo commerciale, il film di Bonitzer si interroga con finezza sul senso ultimo del possesso. Chi è il vero proprietario di un’opera d’arte? Chi ne ha pagato il prezzo? Chi la conserva, chi la scopre, chi la desidera?
In questa dialettica, Il quadro rubato trova la propria forza, raccontando con misura, ironia e profondità una vicenda che è insieme personale e collettiva. Un’opera che restituisce alla cultura un volto umano, e ci ricorda che, anche nei giochi più spietati del potere e del denaro, esiste ancora spazio per la bellezza, la giustizia e, sorprendentemente, la gentilezza.
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