
In Italia i musei sembrano vivere in una sospensione quasi rituale, incapaci di rinnovarsi al passo con i tempi. A lanciare un severo monito è Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, una delle istituzioni culturali più prestigiose del Paese. Durante il primo incontro della rassegna “Dialoghi al quarto di luna – Torino e la vocazione all’eccellenza come ponte verso il futuro”, organizzata da La Stampa e dalla libreria L’Ibrida Bottega, Greco ha affrontato con franchezza il tema della gestione museale italiana, sottolineando una cifra che lascia poco spazio all’interpretazione: nel nostro Paese, gli allestimenti museali vengono rinnovati, in media, ogni 83,5 anni.
Un dato sconcertante se confrontato con quanto avviene altrove, in particolare nei Paesi scandinavi, dove i musei ripensano le proprie collezioni ogni dieci anni. Il paragone è impietoso e rivela un problema che non è, come spesso si tende a credere, una mera questione di risorse economiche. È, prima di tutto, una questione di idee e di visione culturale.
Greco denuncia un vizio strutturale tutto italiano: quello di concepire i musei secondo una logica puramente aziendale, come società for profit governate da direttori-assimilabili ad amministratori delegati, talvolta privi delle competenze storico-artistiche necessarie per guidare istituzioni culturali così delicate. L’efficienza gestionale, la corsa al numero dei visitatori, il fundraising diventano obiettivi in sé, relegando in secondo piano la missione scientifica e culturale che dovrebbe animare ogni museo.
Un museo vivo non è semplicemente un luogo di conservazione ed esposizione. È, nelle parole di Greco, una “centrale elettrica sempre in movimento”, capace di interrogare sé stessa, di intrecciare tutela, ricerca e valorizzazione, e di riscrivere continuamente il proprio patrimonio alla luce di nuovi studi e nuove sensibilità. Ripensare una collezione non significa indulgere in esercizi di nostalgia, ma piuttosto aprire varchi verso il futuro, difendendo la memoria attraverso l’innovazione.
Nel corso del dibattito, Greco ha proposto un’immagine forte: immobilizzare un museo senza aggiornamenti sarebbe come obbligare gli studenti a studiare su manuali di ottant’anni fa, privi di aggiornamenti e commenti. Una pratica che negherebbe la vitalità stessa del sapere, condannandolo a una sterile ripetizione.
La riflessione va oltre la gestione museale e tocca il concetto stesso di museo come “macchina del tempo”: uno spazio in cui il passato non viene solo preservato, ma reinterpretato, riattualizzato, messo in scena in modo da suscitare domande e immaginare possibilità. Ogni riallestimento, ogni nuova lettura delle opere, non è un capriccio o una forzatura, ma una necessità vitale che consente ai musei di restare fedeli alla loro essenza più profonda.
Il caso dell’Egizio di Torino è emblematico: sotto la guida di Greco, il museo ha avviato un percorso di ripensamento e innovazione che lo ha reso uno dei modelli più apprezzati a livello internazionale. Ma il cambiamento, ammonisce il direttore, deve diventare un principio diffuso, non un’eccezione. Perché senza il coraggio di interrogarsi e rinnovarsi, anche le istituzioni più gloriose rischiano di trasformarsi in mausolei, luoghi inerti destinati a custodire non la memoria viva, ma un passato imbalsamato.
In un Paese come l’Italia, dove il patrimonio culturale rappresenta una delle risorse più straordinarie e riconosciute a livello mondiale, questa riflessione appare quanto mai urgente. Serve una nuova consapevolezza: i musei non sono templi immobili, ma laboratori di idee, ponti tra la storia e il futuro, generatori inesauribili di significato. Se sapremo ripensarli così, torneranno a essere ciò che sono sempre stati nelle loro migliori espressioni: prodigiose macchine del tempo capaci di parlare a ogni generazione.
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