
In un’epoca in cui la comunicazione è onnipresente, paradossalmente cresce il numero di persone che faticano a comprendere e produrre testi scritti anche solo di media complessità. È il fenomeno, tutt’altro che marginale, dell’analfabetismo di ritorno: una forma di regressione culturale che non risparmia neppure professionisti altamente qualificati – medici, ingegneri, avvocati – e che si manifesta in scritture mal costruite, sgrammaticate, spesso prive di nesso logico.
Il linguista Tullio De Mauro, negli ultimi anni della sua vita, lanciava l’allarme con crescente urgenza: l’incapacità diffusa di leggere e scrivere correttamente indebolisce il pensiero critico e razionale, rendendo la società più vulnerabile alla manipolazione, più reattiva emotivamente che riflessiva. In altre parole, meno democratica. Laddove viene meno la competenza linguistica, si affievoliscono anche gli strumenti del cittadino per vigilare sul potere, per comprenderlo e metterlo in discussione.
Secondo De Mauro, il problema non è casuale. In Italia, osservava, le classi dirigenti hanno spesso guardato con sospetto all’estensione del sapere: un popolo istruito, in grado di argomentare e dissentire, è più difficile da governare. Il sogno orwelliano della distopia linguistica, raccontato in 1984, non sarebbe più soltanto un’avvertenza letteraria, ma una realtà silenziosamente in atto.
In questo scenario si inserisce un’opera che ha già suscitato attenzione e simpatia tra lettori di tutte le età: La lingua verde di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota (edito da Rizzoli). Non un semplice prontuario grammaticale, ma un vero e proprio strumento di orientamento nella giungla dell’italiano contemporaneo. Ordinato alfabeticamente, il volume risponde a centinaia di dubbi frequenti – dall’uso corretto degli accenti alla distinzione tra apostrofo ed elisione, dai trabocchetti della coniugazione ai casi più comuni di scivolamento sintattico.
Ma ciò che distingue il libro è l’approccio: mai punitivo, sempre costruttivo. Gli autori, entrambi linguisti di lungo corso, non si limitano a indicare gli errori, ma spiegano perché si sbaglia e come correggersi, con esercizi, esempi, giochi. Non si scagliano contro i neologismi o gli anglismi – spesso frutto di puro esibizionismo – e non si scandalizzano di fronte a forme ormai comuni come l’uso del presente al posto del futuro (“domani prenotiamo l’albergo”). L’invito è semmai a distinguere tra evoluzione naturale della lingua e impoverimento pericoloso.
Il vero rischio, sostengono Della Valle e Patota, è la marginalizzazione dell’italiano nei luoghi dove dovrebbe essere custodito e trasmesso: la scuola e l’università. Ridurre l’insegnamento della lingua nazionale o sostituirlo con l’inglese – senza una riflessione seria sul bilinguismo e sul ruolo della lingua madre – significa indebolire non solo una competenza tecnica, ma una struttura profonda del pensiero.
Non è mai troppo tardi per riavvicinarsi alla propria lingua, ricordava il celebre maestro Alberto Manzi. La lingua verde nasce proprio con questo spirito: non per colpevolizzare, ma per accompagnare. È una guida, ma anche una dichiarazione d’amore per una lingua che, lungi dall’essere antiquata o in declino, è viva, complessa, affascinante. E, come ogni organismo vivo, ha bisogno di cura, attenzione, rispetto.
In un momento storico in cui la chiarezza espressiva è un atto politico, riscoprire la ricchezza dell’italiano non è solo un esercizio di stile: è molto di più.
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