

C’è stato un tempo in cui scrivere era un gesto raro, quasi ascetico. Apparteneva a pochi. Si scriveva per vocazione, o per una necessità interiore che sfiorava la condanna. Era un mestiere solitario, faticoso, spesso vissuto ai margini della società, in un altrove psicologico e materiale. Oggi non è più così. O meglio: non è più solo così. La scrittura si è estesa, democratizzata, diluita. È diventata una pratica quotidiana, un comportamento diffuso, una forma espressiva condivisa. Non più soltanto opera, ma esperienza. Non più solo pagina stampata, ma gesto comunicativo continuo.
Nel suo saggio, Arnaldo Greco osserva con lucidità e una punta di inquietudine questo cambiamento epocale: viviamo in un tempo in cui tutti scrivono, e in cui sempre più persone sentono di essere scrittori. I social network, le recensioni online, le chat private, i blog e le newsletter personali hanno modificato profondamente il nostro rapporto con la scrittura. La distinzione tra chi scrive per mestiere e chi scrive per vivere (o per essere visto vivere) si è assottigliata fino a scomparire.
Scrivere (di sé) come condizione esistenziale
La scrittura, oggi, non è più l’approdo faticoso di un lungo processo di elaborazione ma è diventata una modalità di presenza nel mondo. Non si scrive più soltanto per creare opere, ma per raccontare se stessi, condividere impressioni, formulare giudizi, documentare emozioni. In breve, per esistere. Ogni gesto, ogni pensiero, ogni micro-esperienza quotidiana può essere trasformata in un racconto. La scrittura ha smesso di essere un punto d’arrivo per diventare uno specchio in cui ci riflettiamo di continuo.
Come in un’esperienza ucronica, Greco immagina un attacco informatico capace di rivelare, all’improvviso, tutto ciò che abbiamo scritto nel privato: messaggi, email, chat, confessioni. Sarebbe il caos. Eppure, forse, sarebbe anche una rivelazione. Perché, suggerisce, siamo ormai talmente assorbiti dal nostro narcisismo digitale, così presi dal bisogno di raccontarci, che perfino lo scandalo universale delle nostre parole più intime ci troverebbe più preoccupati per ciò che gli altri penseranno di noi che non per ciò che scopriranno degli altri.
Il tracollo dell’autocritica e la nascita del “nuovo scrittore”
Greco individua uno dei passaggi più significativi di questa trasformazione nella scomparsa dell’imbarazzo. Un tempo chi scriveva doveva confrontarsi con il dubbio, con la soglia tra l’urgenza di esprimersi e la legittimità di farlo pubblicamente. Oggi no. È caduto quello che l’autore definisce il “tappo dell’autocritica”: la risposta immediata del pubblico – un “like”, un commento, una condivisione – ha sostituito la riflessione interiore. Basta emozionare qualcuno per sentirsi legittimati a scrivere per tutti. E il fatto stesso di scrivere è già un’autolegittimazione.
Non siamo scrittori perché produciamo testi significativi, ma perché produciamo testi e li concludiamo. L’idea stessa che il testo abbia una conclusione, che si presenti al pubblico con un inizio e una fine, lo rende – almeno potenzialmente – “letteratura”. Anche se è un post su Facebook, anche se è un messaggio su WhatsApp.
L’ossessione di raccontare
Il tratto più distintivo della nuova scrittura diffusa è l’ossessione narrativa. Non solo si scrive sempre, ma si vive pensando a come scrivere. Greco descrive questo fenomeno con uno sguardo disincantato ma non privo di empatia: tutti, ormai, osservano il mondo pensando a come trasformarlo in un racconto. Ogni evento – dal trancio di pizza al guasto del treno, dalla frase sentita al bar alla mostra vista in galleria – è potenzialmente un aneddoto, un tweet, una riflessione da condividere.
Non è più necessario cercare la materia narrativa: la vita quotidiana, in quanto tale, è già racconto. Non c’è più distanza tra l’esperienza e la sua trasposizione: la realtà è vissuta in funzione della sua futura narrazione.
Il trionfo dell’io e la nuova fede nel memoir
A incarnare perfettamente questo spirito è il successo di forme letterarie come il memoir, l’autofiction, il romanzo confessionale. Il soggetto della narrazione coincide sempre più spesso con l’autore. Non si teme più di dire “io soffro”, anzi, si crede fermamente che quell’“io” possa generare emozione. Non solo tra parenti o amici, ma tra sconosciuti. Perché quell’“io” ha ormai acquisito una corporeità nuova, alimentata dalla nostra presenza continua e visibile online: foto, video, aggiornamenti, geolocalizzazioni. Chi scrive non è più solo un nome sulla carta, ma un corpo riconoscibile, osservabile, empaticamente accessibile.
In questo senso, l’“io” letterario si è fuso con l’“io” reale. Scrivere in prima persona ha assunto una forza espressiva inedita, perché oggi il lettore conosce – o crede di conoscere – l’autore. Sa chi frequenta, dove va in vacanza, cosa lo fa ridere. L’identificazione è immediata, l’emozione diretta.
Il tramonto dell’antilirismo e l’illusione della trasparenza
Greco, richiamando una celebre lettura di Milan Kundera su Flaubert, propone una riflessione sul ruolo del lirismo nella scrittura contemporanea. Kundera osserva come il protagonista dell’Educazione sentimentale, Frédéric, resti impalato davanti allo specchio per un minuto intero, compiaciuto di sé. Un momento che Flaubert carica di sottile ironia: il personaggio è perso nella sua percezione lirica del sé, ignaro della luce comica che lo avvolge.
Oggi, sostiene Greco, quel tipo di distanza ironica sembra venuta meno. L’urgenza di raccontarsi ha preso il sopravvento sulla capacità di guardarsi da fuori. La conversione “antilirica”, che per i grandi romanzieri del passato era una tappa obbligata della maturità narrativa, non è più ritenuta necessaria. Al contrario, il lirismo è percepito come autentico, efficace, commovente. È ciò che genera engagement. Si scrive per far piangere, ridere, emozionare. Per smuovere, non per osservare.
L’uomo che scrive tutto
Nel finale del suo saggio, Greco cita una tribù ugandese secondo cui Dio è onnipotente perché “scrive tutto”. L’uomo moderno, in una certa misura, ambisce allo stesso potere. Scrive tutto, archivia tutto, racconta tutto. Non per tracciare una verità oggettiva, ma per affermare la propria presenza nel mondo. È una nuova forma di hybris, forse la più pervasiva: l’illusione che tutto ciò che viviamo possa e debba essere raccontato. Che ogni cosa abbia valore nella misura in cui viene scritta.
In questo scenario, l’autore si interroga – senza concludere con un giudizio definitivo – se questa bulimia narrativa sia davvero un segno di vitalità culturale o se non nasconda, piuttosto, una crisi della distinzione, del silenzio, del tempo lungo dell’elaborazione.
Scrittura come specchio collettivo
Greco non rimpiange nostalgicamente un’epoca in cui scrivere era per pochi. Piuttosto, mette in evidenza le ambivalenze di un’epoca in cui scrivere è per tutti. Una trasformazione che ha reso la scrittura più democratica, più inclusiva, ma anche più fragile. Perché se tutti scrivono, e se tutto può essere scritto, cosa distingue ancora un’opera da una testimonianza? Un romanzo da una confessione? Un pensiero da una reazione?
La risposta non è semplice, ma forse sta proprio nello spazio che sapremo ancora riservare al dubbio, all’ironia, alla distanza. E nella capacità di guardarsi allo specchio senza rimanere impalati, come Frédéric, per un minuto intero.
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