
Nel 1906, mentre il Giappone si affacciava con decisione sulla modernità e l’Occidente scopriva con stupore le arti orientali, Kakuzo Okakura pubblicava Il Libro del Tè, un saggio che è insieme riflessione filosofica, racconto di costume e manifesto estetico. A distanza di oltre un secolo, le sue parole conservano un’intatta capacità di affascinare. Non tanto perché parlano del tè in sé – una bevanda universale – ma perché, attraverso la cerimonia che lo accompagna, svelano una concezione del vivere improntata alla bellezza, alla misura e all’imperfezione consapevole.
Nel Giappone tradizionale, scrive Okakura, il tè è molto più che una semplice abitudine conviviale. È un “culto della purezza e della raffinatezza”, un esercizio spirituale che ha trasformato un gesto quotidiano in una vera e propria liturgia dell’armonia. La sala da tè non è soltanto un luogo: è un’oasi simbolica nella quale chi vi accede si spoglia delle convenzioni mondane per entrare in una dimensione altra, sospesa tra l’arte e la meditazione.
Tutto, nella cerimonia, concorre a creare un microcosmo ordinato e fragile, pensato per esaltare la bellezza nel suo stato più effimero. L’arredamento è ridotto all’essenziale; i colori, tenui e sobri; il silenzio, pressoché assoluto, interrotto solo dal suono dell’acqua che sobbolle nel bollitore di ferro – un canto modulato ad arte dai maestri affinché evochi una cascata lontana o il vento tra le fronde.
L’accesso stesso alla sala è concepito come un atto iniziatico. Gli ospiti, a prescindere dal loro rango, devono abbassarsi per entrare da una piccola porta. Un gesto umile, che richiama l’uguaglianza dei partecipanti e l’abbandono dell’ego. Perfino i samurai, portatori della casta guerriera, sono tenuti a deporre la spada prima di varcare la soglia: il tè, dopotutto, è la bevanda della pace.
Ma la preparazione comincia prima, lungo il roji, il sentiero che collega il machiai, l’area d’attesa, alla sala. Il giardino, con le sue pietre disposte irregolarmente, le lanterne coperte di muschio e gli aghi di pino sul terreno, non è solo uno spazio decorativo. È parte integrante dell’esperienza. Camminarvi significa allontanarsi simbolicamente dal rumore del mondo e predisporre lo spirito alla concentrazione e all’ascolto interiore.
Questa estetica, però, non si limita alla contemplazione passiva. L’ospite non è uno spettatore, ma parte dell’opera. Nulla è simmetrico, nulla è ripetuto: l’asimmetria è un valore estetico e morale, espressione della vita stessa, che non si lascia ingabbiare in schemi rigidi. Una tazza nera non si abbina a un contenitore di tè anch’esso nero. Se c’è un fiore vero, non ci sarà un dipinto floreale. Se si usa un vaso rotondo, l’altro oggetto sarà spigoloso. Ogni elemento è scelto per suggerire contrasto e per evitare la noia della ripetizione.
Questa ricerca di equilibrio nella dissonanza si riflette anche nell’arte della pulizia. Il maestro del tè è prima di tutto un esperto nel rimuovere la polvere, ma senza cancellare i segni del tempo. Celebre è l’episodio che Okakura riporta a proposito di Rikiu, il leggendario maestro del XVI secolo: al figlio che aveva spazzato perfettamente il sentiero, Rikiu rimprovera la mancanza di spontaneità. Solo dopo aver scosso i rami di un albero, lasciando cadere foglie dorate e cremisi sul terreno, il maestro dichiara il lavoro compiuto. La pulizia, infatti, non è sterile ordine, ma evocazione poetica.
Alla base di tutto questo vi è un’idea di bellezza come allusione, mai come dichiarazione. L’arte della sala da tè rifiuta la completezza e invita l’osservatore a completare mentalmente ciò che non è mostrato. È lo spirito dello Zen, che predilige il vuoto, la sospensione, l’incompiuto. La figura umana è quasi assente nelle decorazioni, perché la presenza dell’uomo è già sufficiente a riempire lo spazio. L’osservatore è l’ultimo frammento del quadro.
Non stupisce, dunque, che i fiori siano trattati come protagonisti di un teatro silenzioso. Un ramo di ciliegio accostato a una camelia, nel cuore dell’inverno, suggerisce la fine della stagione fredda e l’attesa della primavera. Un giglio solitario, in una sala ombrosa durante l’afa estiva, diventa una promessa di freschezza. I fiori non sono mai scelti a caso, ma secondo un’intenzione poetica che ne moltiplica il significato.
Un esempio celebre è quello che vede ancora protagonista Rikiu, il quale, dopo aver coltivato un intero giardino di ipomee, decide di sacrificare tutte le piante alla vigilia della visita del potente Taiko, lasciandone solo una. Il giardino spianato, cosparso di sabbia bianca, conduce l’ospite a una sala dove, in un raro vaso cinese, spicca il solo fiore sopravvissuto. È un atto di sintesi estrema, che concentra tutta la bellezza in un’unica visione: l’emozione della mancanza, il valore del sacrificio.
Okakura parla di questo gesto come del “sacrificio dei fiori”. Ma suggerisce che forse i fiori stessi ne comprendono il senso meglio degli uomini. Alcuni sembrano quasi orgogliosi di morire – come i ciliegi giapponesi che si lasciano cadere al vento in una pioggia di petali, simbolo struggente della bellezza effimera. “Addio, o primavera! Siamo diretti all’eternità”, sembra dicano mentre si allontanano sulle acque chiare.
Nel Libro del Tè, ogni dettaglio – dal gesto con cui si versa l’acqua al colore del tovagliolo – diventa metafora di una più ampia visione dell’esistenza. Una visione dove la sobrietà è ricchezza, il silenzio è eloquenza e l’assenza è pienezza. Rileggerlo oggi significa immergersi in una civiltà che ha fatto della delicatezza una disciplina, dell’imperfezione una via e dell’arte una forma di spiritualità quotidiana.
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