

Nel cuore della National Gallery of Australia, una mostra racconta la forza dell’arte nei momenti più oscuri della storia. Cézanne to Giacometti: Highlights from Museum Berggruen/Neue Nationalgalerie, aperta fino al 21 settembre 2025, ripercorre l’evoluzione del modernismo attraverso le opere di grandi maestri del XX secolo, ma soprattutto attraverso la straordinaria vicenda personale e culturale di Heinz Berggruen, il mercante d’arte ebreo che trasformò l’esilio in una dichiarazione di libertà estetica e morale.
Una fuga, una rinascita
Nel 1936, a soli 25 anni, Heinz Berggruen fu costretto a lasciare la Germania nazista. Uscì dal paese con in tasca appena dieci marchi e un’identità mutilata, costretto fino ad allora a firmare gli articoli da giornalista con le sole iniziali “hb” per sfuggire all’antisemitismo dilagante. Trovò rifugio negli Stati Uniti, dove la sua vita prese una direzione inaspettata: da profugo a collezionista raffinato, da anonimo emigrato a protagonista del mondo dell’arte moderna. Ma all’epoca della fuga, un simile destino sembrava del tutto impensabile.
Solo un anno dopo la sua partenza, il regime nazista dava il via alla campagna più aggressiva contro la cultura moderna. La mostra Entartete Kunst (“Arte degenerata”), allestita a Monaco nel 1937, fu il culmine di questa offensiva. Oltre 16.000 opere furono confiscate dai musei tedeschi; alcune furono ridicolizzate pubblicamente, altre distrutte. Paul Klee, Kandinsky, Chagall, Picasso: gli artisti moderni venivano bollati come nemici della nazione, simboli di un decadimento da estirpare.
La collezione come testimonianza e riscatto
In questo contesto, l’impresa di Berggruen assume i tratti di una contro-narrazione potente. La sua prima acquisizione – un acquerello di Paul Klee acquistato a Chicago nel 1940 per 100 dollari – non fu soltanto un investimento, ma un gesto carico di significato personale e politico. Klee, anch’egli costretto a lasciare la Germania, rappresentava per Berggruen un’identificazione profonda, una memoria condivisa. L’opera, che egli considerava un “talismano”, lo accompagnò persino durante il servizio militare nell’esercito statunitense. “Un promemoria di una casa perduta, e di una Germania che non esisteva più”, osserva Natalie Zimmer, curatrice del Museum Berggruen a Berlino.
La raccolta di opere moderniste divenne negli anni una delle più vaste e raffinate collezioni private mai costituite. Ma soprattutto, fu un’opera di memoria e resistenza. Ogni acquisizione – dai ritratti frammentati di Picasso alle sculture filiformi di Giacometti, dagli acquerelli di Klee ai disegni di Matisse – era anche una sfida implicita all’estetica ufficiale del Terzo Reich. In un’epoca in cui l’arte era arma ideologica, Berggruen costruiva, tassello dopo tassello, un archivio dell’inaccettabile, dell’espulso, del vietato.
Dal Bauhaus all’Australia
La mostra della NGA non si limita a celebrare i grandi nomi dell’avanguardia europea, ma ne racconta anche la diaspora, il radicarsi in nuovi territori. Paul Cézanne, “il padre di tutti noi”, secondo Picasso, apre simbolicamente il percorso: la sua visione strutturale e innovativa della pittura prefigura le rivoluzioni formali di cubismo e fauvismo, influenzando profondamente artisti di generazioni successive. Anche laddove il legame non è immediato, l’eredità si fa sentire. Le sculture essenziali e svuotate di Alberto Giacometti, per esempio, “sono costruite particella per particella, come le pennellate costruttive di Cézanne”, sottolinea David Greenhalgh, curatore della NGA.
Ma la mostra dà spazio anche a figure spesso trascurate nella narrativa dominante. Dora Maar, nota ai più come musa di Picasso, viene qui riscoperta come artista autonoma e provocatoria. Nel suo Ritratto di Pablo Picasso del 1938, Maar ribalta i ruoli tradizionali: il genio maschile diventa oggetto dello sguardo, ritratto in forme disturbanti e con occhi vuoti, quasi alienati. Ancora più eloquenti sono le sue fotografie in bianco e nero: frammenti urbani e volti anonimi, documenti di un mondo osservato con lucidità e compassione.
Un altro snodo cruciale della mostra riguarda Ludwig Hirschfeld-Mack, artista formatosi al Bauhaus e costretto all’esilio. Fuggito in Inghilterra, fu poi deportato in Australia come “straniero nemico”. Internato nei campi di Hay, Orange e Tatura, trasformò la prigionia in produzione artistica. La sua xilografia Desolazione: campo di internamento, Orange, Nuovo Galles del Sud (1941) è una testimonianza visiva toccante dell’alienazione e della resistenza interiore, capace di innestare il linguaggio dell’avanguardia europea nella realtà austera del paesaggio australiano.
Un’eredità riconciliata
Nel 2000, Heinz Berggruen compì un gesto che chiuse simbolicamente il cerchio della sua vicenda. Vendette l’intera collezione allo Stato tedesco a condizioni favorevoli, rifiutando offerte più vantaggiose provenienti da Londra o Ginevra. “Fu un grande atto di riconciliazione”, osserva Gabriel Montua, direttore del Museum Berggruen, “da parte di qualcuno che era stato cacciato dalla Germania e che, sessant’anni dopo, scelse di restituire tutto a Berlino”.
La collezione, ora parte integrante della Neue Nationalgalerie, non è soltanto una galleria di capolavori. È un monumento alla capacità dell’arte di attraversare le catastrofi, un archivio del dissenso, un elogio dell’alterità. La mostra di Canberra – che raccoglie i vertici di questa raccolta – rende accessibile a un nuovo pubblico l’eredità di un uomo che fece della bellezza una risposta alla barbarie, e della memoria un gesto di fiducia nel futuro.
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