Tra marketing di massa e nostalgia della semplicità

C’è una scena sempre più familiare a chiunque abbia messo piede in un supermercato negli ultimi anni. Una donna, ferma davanti al banco frigorifero, scruta le confezioni di mozzarella con lo sguardo di chi sta valutando un acquisto esistenziale. Sfiora l’involucro, legge le etichette, confronta ingredienti, origini e certificazioni. Intorno a lei, il flusso dei clienti scorre veloce: pochi secondi per ciascuna decisione, un gesto meccanico, un compromesso tra convenienza e consuetudine.

Il suo è un gesto raro, quasi anacronistico, in un contesto in cui il “good enough” – il “va bene così” – è diventato l’approccio dominante alla spesa. La proliferazione dei prodotti sugli scaffali – decine di varianti dello stesso bene, differenze minime spacciate per innovazioni decisive – ha trasformato ogni scelta in un rompicapo. L’illusione della varietà ha prodotto l’effetto opposto: saturazione, confusione, rinuncia.

Questa è la trappola della troppa scelta, un paradosso che il marketing contemporaneo ha alimentato per decenni, nel tentativo di differenziare prodotti che, sotto la superficie, sono straordinariamente simili.

Il miraggio della differenziazione

Youngme Moon, docente ad Harvard e autrice del saggio Different, descrive con precisione questo fenomeno. Nel suo racconto, lo scaffale del supermercato diventa il simbolo di una tendenza più ampia: quando un marchio introduce una novità – uno yogurt con un nuovo probiotico, uno shampoo “tonificante” – gli altri lo seguono a ruota. È la legge del branco applicata al marketing. Il risultato è un’omogeneità eterogenea: tutto appare diverso, ma in realtà è tutto uguale.

L’innovazione si riduce spesso a modifiche cosmetiche: un nuovo colore, un’etichetta rivisitata, un claim più o meno credibile (“naturalmente ricco di calcio”, “senza olio di palma”, “dalla fattoria alla tavola”). La competizione si gioca sul terreno delle micro-varianti, e raramente sfocia in una vera rottura di paradigma. I prodotti si moltiplicano senza cambiare davvero, mentre i consumatori si ritrovano sopraffatti, costretti a scegliere tra decine di opzioni tutte ugualmente intercambiabili.

L’esempio dei biscotti Oreo negli Stati Uniti è emblematico: così tante varianti che nemmeno Wikipedia riesce a censirle tutte. E non è un caso isolato. Le penne Bic nere? Introvabili, sommerse da alternative “fluide”, “ergonomiche”, “a scorrimento veloce”. La personalizzazione estrema ha lasciato il posto a una frammentazione sterile.

In uno dei supermercati di Bologna

Consumatori disillusi

In questo scenario, il consumatore medio reagisce con pragmatismo. Secondo Moon, si può dividere in almeno tre categorie: il connoisseur, attento, curioso, spesso appassionato; l’opportunista saggio, che fa scelte sensate ma senza entusiasmo; e il pragmatico disilluso, che agisce per inerzia, delegando alle promozioni o al posizionamento sullo scaffale.

Queste categorie coesistono dentro ciascuno di noi. Possiamo essere cultori della birra artigianale e allo stesso tempo acquirenti svogliati di carta igienica in promozione. A seconda del tempo, dell’interesse o del budget, oscilliamo tra coinvolgimento e indifferenza. E quando la spesa diventa un’impresa, la semplificazione torna ad avere un valore.

I consumatori si stancano. Anche il più appassionato esperto, dopo anni passati a riconoscere impercettibili note fruttate in un vino piemontese di nicchia, può finire per rifornirsi di bottiglie in offerta al discount. Il tempo, non la qualità, diventa la risorsa scarsa.

E così, la figura del connoisseur, prima celebrata come emblema di raffinatezza e competenza, inizia a essere percepita con sospetto. Chi si appassiona troppo a mozzarelle o acque minerali rischia l’etichetta del bizzarro. Le differenze sono troppo lievi per giustificare tanto impegno.

La standardizzazione come rifugio

I produttori lo sanno, e adeguano le strategie. È più sicuro aggiungere una nuova variante di shampoo che lanciare un prodotto realmente diverso. I manager preferiscono soluzioni a basso rischio e risultati misurabili nel breve periodo. Le innovazioni radicali – come quelle che un tempo hanno permesso a Google o IKEA di emergere – sono rare, e soprattutto costose, rischiose, non garantiscono il successo né premiano chi ci prova.

In Italia, un mercato storicamente avverso al fallimento, chi rischia è penalizzato. Meglio un 5% in più di vendite trimestrali che un’idea dirompente da coltivare per tre anni. I manuali di marketing predicano differenziazione, ma nella pratica si premia la sopravvivenza.

Dove finisce la scelta

Eppure, non tutto è perduto. Il digitale offre nuovi spazi di espressione, e una riconciliazione possibile tra i mondi contrapposti del consumo: quello del connoisseur e quello del pragmatico. Online si trovano sia piattaforme con pochi prodotti selezionati (come Brandless, che vende articoli a prezzo unico e in numero limitato), sia store iperspecializzati in nicchie microscopiche, dove i cultori del gusto possono scambiarsi recensioni e scoperte.

Un esempio? Le recensioni di acque minerali su Amazon, dove alcuni utenti giudicano la qualità sulla base del residuo fisso, consigli medici, persino ipotesi sulla conservazione in magazzino. È l’iper-competenza traslata nel regno dell’ordinario, dove anche un’acqua da supermercato può diventare oggetto di culto.

Ma la vera svolta sarà tecnologica. Intelligenza artificiale e comandi vocali stanno già cambiando il nostro rapporto con la spesa. Dire “Alexa, aggiungi la mozzarella e la birra alla lista” significa abbandonare il processo decisionale. È l’algoritmo a conoscere le nostre preferenze, a filtrare le opzioni, a liberarci dal peso della scelta. Il connoisseur sopravvive nei forum, il pragmatico trionfa nel machine learning.

Verso una nuova sobrietà?

Il futuro potrebbe dunque non essere una guerra tra eccesso e semplificazione, ma una convivenza digitale tra stili di consumo. Ognuno di noi potrà oscillare, a seconda dei momenti e delle piattaforme, tra esplorazione e automatismo, tra passione e pigrizia. L’identità del consumatore si fa fluida, come la sua presenza sugli scaffali – reali o virtuali che siano.

E se la varietà continuerà a crescere, lo farà in silenzio, nascosta dietro un’interfaccia più semplice, in grado di proteggerci da quell’abbondanza che, per molti, è ormai solo un fastidio. La mozzarella giusta, alla fine, la troverà l’intelligenza artificiale. Purché non sia quella al cetriolo.


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