
Per Hadley Freeman, l’anoressia non è stata solo una malattia, ma una lunga parentesi esistenziale, durata vent’anni, in cui il cibo, o meglio il suo rifiuto, ha rappresentato l’unico linguaggio possibile per esprimere dolore, rabbia e paura. Oggi giornalista del Sunday Times, Freeman racconta quella discesa negli abissi in un libro intenso e crudo, Good Girls: A Story and Study of Anorexia, ora pubblicato anche in Italia da 66thand2nd con il titolo Brave ragazze. Una storia di anoressia, nella traduzione di Milena Sanfilippo. Il volume, a metà tra memoir e saggio, esplora le radici intime, storiche e culturali del disturbo alimentare che l’ha accompagnata dall’adolescenza all’età adulta.
L’identità anoressica: quando la malattia diventa una maschera
Nel libro, Freeman non si sottrae a una scelta linguistica precisa: chiama sé stessa e le altre semplicemente “anoressiche”. Non per mancanza di delicatezza, ma perché, come spiega, in certi momenti della malattia si è solo quello. Non esiste più la persona, ma solo la patologia. Il corpo, il controllo, il digiuno diventano l’unico centro gravitazionale. Per questo motivo, il termine neutro “persona con anoressia” risulta per lei inadeguato: la ragazza anoressica vive un’identificazione totale con la malattia. L’anoressia, infatti, è egosintonica: non si percepisce come un problema, ma come un punto di forza, una conquista. È la fame stessa a diventare una forma di potere, una prova della propria capacità di dominarsi.
Lo aveva scritto già nel 1978 la psichiatra Hilde Bruch in La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale: alcune pazienti non solo negano la fame, ma ne traggono piacere. Lo stomaco vuoto, la sensazione di leggerezza, diventano una fonte di euforia e gratificazione.
Il commento che accende l’incendio
Hadley Freeman nasce a New York nel 1978 in una famiglia ebrea benestante, si trasferisce a Londra a undici anni e frequenta scuole private. Brava e obbediente, trova rifugio nelle regole, che divengono per lei un sistema di sicurezza. È proprio in quell’ambiente apparentemente ordinato che si consuma la frattura. Durante un’ora di educazione fisica, una compagna, notoriamente la più magra della classe, le sussurra all’orecchio: “Magari fossi normale come te”. È la parola “normale” ad accendere la miccia. Non vuole essere normale, vuole essere speciale. E da quel giorno, tutto cambia.
Come spiegano i clinici, l’anoressia non ha un’unica causa: si tratta di un disturbo multifattoriale, in cui genetica, ambiente, personalità e storia personale si intrecciano. Ma spesso esiste un evento scatenante, un momento preciso che apre la voragine.
Una fame che è paura
L’etimologia stessa del termine “anoressia” – dal greco an- (senza) e orexis (appetito) – è fuorviante. Nessuna come un’anoressica è affamata. Ma è proprio il terrore della fame, del desiderio, del bisogno, a generare il rifiuto. Si tratta, come ha osservato Massimo Recalcati nel recente L’ultima cena. Anoressia e bulimia (2024), di una patologia del rifiuto: non solo del cibo, ma dell’Altro, della relazione, dell’essere al mondo.
Freeman si chiude in se stessa, diventa ostile, incomprensibile. Corre, salta, si allena fino allo sfinimento, si chiude in bagno per fare esercizi, evita i pasti in famiglia. “La solitudine è il ricordo più vivido”, scrive. Non capiva quello che le stava succedendo e nessuno intorno a lei sapeva come aiutarla.
Contro il mito delle passerelle
Ridurre l’anoressia a una conseguenza dell’industria della moda o dei social media è non solo semplicistico, ma anche pericolosamente fuorviante. L’anoressia è un disturbo complesso, legato a dinamiche storiche e culturali molto profonde. La pressione a essere perfette, docili, silenziose, accomuna generazioni di ragazze. “Sii la brava ragazza che devi essere sempre” canta Elsa in Frozen, il film Disney del 2013. Come lei, molte adolescenti imparano fin da piccole a reprimere ogni desiderio.
Ma come ribellarsi a un modello di perfezione irraggiungibile? Come sottrarsi alla sessualizzazione dell’adolescenza, alla perdita dell’infanzia, al caos della crescita? Per molte, l’unico modo sembra passare dal corpo: affamarlo, controllarlo, cancellarlo.

Una storia lunga un millennio
Il digiuno femminile come forma di ribellione ha una lunga storia. Già tra l’VIII e il X secolo, la principessa portoghese Vilgefortis, promessa sposa al re di Sicilia, rifiutò il matrimonio imposto e, dopo essersi convertita al cristianesimo, fece voto di castità e smise di mangiare. Morì crocifissa per mano del padre, ma fu venerata per secoli in Europa come santa Liberata. Il suo corpo, affamato e ricoperto di peluria – come spesso accade nei casi di malnutrizione estrema – fu immortalato in numerose opere d’arte, tra cui il Trittico di santa Liberata di Hieronymus Bosch.
Lo storico Rudolph M. Bell, nel saggio La santa anoressia (1998), ha analizzato il fenomeno del digiuno mistico tra il XII e il XVII secolo, mettendo in parallelo la mortificazione corporale di sante come Caterina da Siena o Veronica Giuliani con i comportamenti autodistruttivi delle anoressiche moderne. Cambia il contesto, ma non la dinamica: la fame diventa linguaggio, strumento di potere, gesto estremo per affermare un’identità. Come se il corpo fosse l’unico mezzo per esprimere un rifiuto radicale.
Il piatto come campo di battaglia
Nella sua riflessione Il piatto. Una storia di donne, di appetiti e di emancipazione in un oggetto quotidiano (2025), la giornalista Annabelle Hirsch racconta come la tavola sia stata, per secoli, uno dei luoghi dove si è giocata la battaglia per l’emancipazione femminile. Lo sciopero della fame fu un’arma di lotta per le suffragette inglesi guidate da Emmeline Pankhurst, che ottennero il diritto di voto nel 1918. Quando le parole non bastavano più, fu il corpo stesso a farsi veicolo politico.
In questa prospettiva, l’anoressia contemporanea appare come l’estremizzazione di una tensione antica: un tentativo disperato di ritagliarsi uno spazio di controllo, di potere, di significato.
Il corpo come linguaggio muto
L’anoressica non vuole essere vista, ma nel contempo vuole che il suo dolore venga riconosciuto. Vuole sparire e al tempo stesso gridare. Per questo motivo, il corpo diventa una sorta di manifesto vivente. “L’anoressia è una patologia afona”, scrive Freeman. Non si urla, non si piange, non si spiegano i propri stati d’animo: li si scrive addosso, osso dopo osso.
Il corpo asessuato, spogliato dei suoi attributi femminili, è un modo per sottrarsi allo sguardo altrui, ma anche per fermare il tempo, evitare la crescita, la maternità, la sessualità.
Un’uscita senza trionfo
Freeman è sopravvissuta, ma non trionfante. Dopo nove ricoveri, una lunga terapia e una vita riconquistata centimetro per centimetro, la parola “guarigione” le appare comunque ambigua. C’è sempre una parte di sé che rimane là, nel corridoio dell’ospedale, con i biscotti sbriciolati e i passi lenti. Le capita ancora oggi di incrociare per strada ragazze magrissime che le fanno scattare dentro un riconoscimento immediato e doloroso. Sono spettri, apparizioni, richiami.
Non esiste una fine netta, ma un equilibrio da mantenere. “Essere malate è una rogna, per sé e per gli altri”, scrive. E aggiunge: “Non bisogna arrivare a distruggersi per sentirsi autorizzate alla rabbia”.Una possibilità di ritorno
L’anoressia è un percorso che lascia cicatrici. Ma, come racconta Freeman, arriva a volte un momento – piccolo, silenzioso – in cui qualcosa cambia. Si insinua un pensiero: non voglio più che la mia vita sia questa. Se nel Medioevo l’unico esito possibile era la crocifissione o il rogo, oggi – almeno in parte – è possibile trovare nuove vie. L’identità anoressica, così seducente nella sua assolutezza, può essere sostituita da qualcosa di più imperfetto ma più umano: il desiderio, il legame, il ritorno alla vita.
Perché la fame che brucia dentro – quella vera – è fame di riconoscimento, di ascolto, di senso. E non può essere colmata da una ciotola vuota.
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