Emil Nolde, l’artista controverso: tra mito, propaganda e verità storica

Copertina del libro “Lezione di tedesco (Deutschstunde)”
pubblicato nel 1968 di Siegfried Lenz

Per decenni Emil Nolde è stato celebrato come una delle principali vittime artistiche del regime nazista: un genio solitario, perseguitato per la sua arte libera e visionaria, difensore della bellezza contro la barbarie ideologica del Terzo Reich. Ma a più di settant’anni dalla caduta del nazismo, quel ritratto eroico inizia a mostrare crepe profonde. Le ricerche storiche condotte negli ultimi anni hanno restituito un’immagine ben diversa di Nolde: non un oppositore, bensì un sostenitore del regime, un uomo animato da idee profondamente antisemite e nazionaliste. Un artista che tentò fino all’ultimo di farsi accettare dal potere che lo aveva bandito.

Nato nel 1867 nel villaggio di Nolde, nello Schleswig-Holstein, allora parte dell’Impero tedesco, Emil Hansen – che in seguito assunse il nome d’arte Nolde – si avvicinò alla pittura relativamente tardi, a trentun anni. Dopo aver studiato presso la scuola di Adolph Hoelzel a Dachau e all’Académie Julian di Parigi, mosse i primi passi nel solco dell’impressionismo, affascinato dai maestri francesi. Ma presto se ne discostò: la sua cifra espressiva divenne via via più audace, fatta di colori violenti, segni nervosi, spiritualità primitiva. La sua adesione al gruppo Die Brücke nel 1906 segnò l’ingresso nella stagione dell’espressionismo tedesco, di cui sarebbe diventato uno dei principali esponenti.

Nolde esplorò tecniche diverse – olio, acquerello, xilografia – e si avventurò anche in tematiche religiose, con opere visionarie come la serie Leben Christi. L’intensità della sua pittura e il radicalismo formale ne fecero un innovatore dirompente, ammirato dalla giovane avanguardia. Eppure, accanto alla sperimentazione artistica, conviveva in lui una visione politica altrettanto radicale.

Già nel 1934, l’artista si iscrisse al Partito Nazionalsocialista. Condivideva le ambizioni del regime di dar vita a una nuova “arte germanica”, radicata nell’anima del popolo, libera dalle influenze internazionali e, soprattutto, da quelle ebraiche. Nolde non solo simpatizzava per l’ideologia nazista, ma ne condivideva profondamente le premesse razziste. Non esitò a diffamare colleghi e mercanti d’arte ebrei, cercando di affermarsi come interprete autentico dello “spirito tedesco”.

In un paradosso che ancora oggi colpisce, proprio lui fu tuttavia tra gli artisti più duramente colpiti dalla campagna del regime contro quella che veniva definita Entartete Kunst, l’”arte degenerata”. Oltre mille sue opere vennero confiscate nel 1937, molte delle quali esposte nella famigerata mostra itinerante voluta da Goebbels per denunciare la presunta decadenza estetica e morale dell’avanguardia. Nolde fu estromesso dall’Accademia delle Arti e, nel 1941, gli fu proibito di esporre, vendere e persino dipingere.

Da quel momento, si ritirò nella sua casa di Seebüll, nel nord della Germania, dove continuò a lavorare in segreto, realizzando una serie di acquerelli che battezzò Ungemalten Bilder (“quadri non dipinti”). A lungo considerati come atti eroici di resistenza artistica, questi lavori vennero presentati nel dopoguerra come la testimonianza di un artista perseguitato ma non domo, capace di continuare a creare nonostante il divieto imposto dal regime.

È da qui che nasce il mito di Emil Nolde martire del nazismo. Un mito alimentato dallo stesso pittore, che nelle sue memorie raffigurò se stesso come un dissidente silenzioso, e consolidato da uno dei più noti romanzi tedeschi del dopoguerra: Lezione di tedesco (Deutschstunde), pubblicato nel 1968 da Siegfried Lenz.

Il libro, oggi considerato un classico della letteratura tedesca del dopoguerra, venduto in oltre due milioni di copie e tradotto in più di venti lingue, contribuì in modo decisivo a fissare l’immagine di Nolde come simbolo della repressione artistica nazista. Ambientato nella Germania degli anni Cinquanta, il romanzo racconta la storia di Siggi, giovane detenuto che ricorda la propria infanzia durante il Terzo Reich. Suo padre, un agente di polizia, aveva ricevuto l’ordine di impedire a un pittore – Max Ludwig Nansen, alter ego trasparente di Nolde – di continuare a dipingere. Nansen, in risposta, aveva iniziato a produrre in segreto una serie di “quadri invisibili”.

Nel racconto, il giovane Siggi si trova diviso tra l’autoritarismo del padre e l’integrità del pittore, che considera un eroe. Il nazismo non viene mai nominato esplicitamente, ma è costantemente evocato: la Gestapo è riconoscibile nei “cappotti di pelle”, il divieto di dipingere rimanda chiaramente alle politiche sull’arte degenerata. La figura di Nansen si impone come quella di un artista puro, perseguitato per la sua libertà creativa. Il fatto che questo personaggio sia ispirato a Nolde, conferì all’artista un’aura di martirio che l’opinione pubblica tedesca, ancora alle prese con la propria memoria storica, accolse senza troppe domande.

Così, mentre i suoi dipinti tornavano a essere esposti in musei e gallerie, Emil Nolde fu assunto simbolicamente come figura di riscatto: un esponente dell’avanguardia capace di resistere alla censura del totalitarismo. Le sue opere arrivarono persino negli uffici dei cancellieri tedeschi: Helmut Schmidt, e più tardi Angela Merkel, scelsero suoi dipinti per decorare le pareti degli spazi istituzionali.

Eppure, la verità era ben diversa. Le mostre retrospettive di Nolde organizzate nel 2014 a Francoforte e nel 2019 alla Galleria Nazionale di Berlino hanno ricostruito con rigore documentale il reale atteggiamento dell’artista nei confronti del regime. I quadri non dipinti, presentati come frutto di una resistenza clandestina, furono in realtà realizzati dopo la guerra. E il divieto imposto a Nolde non riguardava l’atto stesso del dipingere, ma solo l’esposizione e la vendita pubblica. Inoltre, i suoi scritti e le lettere private testimoniano un antisemitismo viscerale e reiterato, accompagnato da tentativi ossessivi di convincere Hitler e Goebbels che la sua arte non era “degenerata” ma profondamente “tedesca”.

Perché allora la verità è emersa con così tanto ritardo? Perché la Germania ha atteso oltre mezzo secolo prima di mettere in discussione un mito così radicato?

Una risposta sta forse nella funzione catartica che Nolde ha incarnato per l’immaginario tedesco del dopoguerra. In un paese devastato dalla colpa e dalla rimozione, c’era bisogno di figure simboliche che permettessero di raccontare una Germania diversa, capace di bellezza e libertà anche sotto il giogo del nazismo. Nolde – o meglio, il Nolde reinventato da Lenz – offriva questo conforto. Era l’artista che aveva sofferto, ma non si era piegato. Un simbolo attraverso cui la Germania poteva iniziare a venire a patti con il proprio passato senza confrontarsi troppo direttamente con la complicità diffusa nel nazionalsocialismo.

Oggi, questo racconto semplificato non regge più. Il caso Nolde è diventato emblematico di un problema più vasto: la difficoltà di distinguere tra realtà storica e costruzione memoriale, tra biografia e mito. Come scrive Lenz nel suo romanzo, “inizierai a vedere correttamente solo quando inizierai a creare ciò che devi vedere”. Per decenni, la Germania ha “creato” in Nolde ciò che aveva bisogno di vedere. Ma ora è tempo di vedere anche ciò che preferiva ignorare.


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