Roy Lichtenstein “Golf Ball”, 1962

Nel 1962 Roy Lichtenstein espone per la prima volta alla Galleria Leo Castelli di New York. L’attesa è tale che i biglietti per l’inaugurazione si esauriscono ancor prima dell’apertura. Tra le opere in mostra spicca una tela destinata a diventare un emblema della sua prima adesione alla Pop Art: Golf Ball. Un’opera solo in apparenza semplice, che nasconde invece una sofisticata riflessione sul linguaggio visivo moderno, sulla percezione e sul ruolo dell’oggetto nel contesto artistico.

Golf Ball raffigura, letteralmente, una pallina da golf. Ma la rappresentazione è tutt’altro che banale. Lichtenstein isola il soggetto in uno spazio grigio e neutro, privato di qualsiasi riferimento ambientale o paesaggistico. La sfera è costruita attraverso una trama di archi bianchi e neri che si intersecano con regolarità matematica, modellando una tridimensionalità illusoria su una superficie rigorosamente bidimensionale. Il chiaroscuro è assente, così come la prospettiva: resta solo la superficie, e con essa il gioco percettivo che lo spettatore è chiamato a decifrare.

L’effetto è ambiguo, volutamente straniante. Come ha osservato la storica dell’arte Diane Waldman, la pallina di Lichtenstein assume un’autonomia formale, una “forma indipendente” che sembra oscillare tra l’oggetto e il segno grafico. La tensione tra volume e piattezza, tra illusione e astrazione, diventa così il vero soggetto dell’opera. La Golf Ball è una provocazione che sfida la tradizionale idea di rappresentazione, ribaltandone le regole in modo tanto radicale quanto ironico.

Lichtenstein stesso descrisse l’opera come “l’antitesi di ciò che si pensava avesse un ‘significato artistico’”. E in effetti, con la sua frontalità assoluta, con la mancanza di profondità e il rifiuto di qualsiasi elemento emozionale o narrativo, Golf Ball appare come un oggetto puro, una sorta di icona impersonale e al tempo stesso carica di tensione. Non è un caso che alcuni critici abbiano paragonato la sua presenza nel quadro alla solidità della Rocca di Gibilterra: un’immagine immobile, definitiva, imperturbabile.

Nel lessico visivo dell’opera si avverte l’eco delle composizioni in bianco e nero di Piet Mondrian – in particolare Composizione in bianco e nero del 1917 – ma anche dei suoi ovali astratti pre-bellici come Pier and Ocean (1915). Lichtenstein stesso parlava, non a caso, di “Mondrian Plus e Minus” per definire certe sue fonti di ispirazione. La scelta cromatica sobria e l’impostazione grafica sembrano infatti un tributo ironico e insieme devoto a quella linea di astrazione geometrica radicale. Tuttavia, mentre Mondrian inseguiva l’armonia universale attraverso la riduzione, Lichtenstein piega l’astrazione al servizio della cultura di massa.

In quegli stessi mesi del 1962, l’artista realizzò una serie di opere simili per soggetto e approccio: oggetti quotidiani isolati, privati del loro contesto e ricodificati attraverso un linguaggio visivo mutuato dalla pubblicità e dal fumetto. La “regolarità ripetitiva” delle superfici, come è stata definita, diventa una cifra stilistica. Ma a differenza delle immagini pubblicitarie, sempre più seduttive e sofisticate, Lichtenstein sceglie una frontalità disarmante, che priva l’oggetto di qualunque glamour. Il suo approccio è insieme analitico e ludico, minimalista ma non privo di senso dell’umorismo.

La Golf Ball è tornata più volte nel lavoro di Lichtenstein. La si ritrova, ad esempio, in Still Life with Goldfish Bowl (1972) e in Go for Baroque (1979), a testimonianza di come quel primo esperimento conteneva già in sé molte delle tensioni che avrebbero attraversato l’intera produzione dell’artista: la dialettica tra figurazione e astrazione, la sfida ai codici visivi dominanti, la riflessione sul ruolo dell’immagine nella società dei consumi.

L’opera rappresenta un punto di svolta anche sotto il profilo formale. I contorni sono netti, standardizzati, privi di incertezze: un segno del controllo che Lichtenstein andava affinando nel suo lavoro, lontano anni luce dalle gestualità esasperate degli espressionisti astratti. Eppure, in quell’apparente freddezza si cela un’attenzione puntuale alle dinamiche percettive. L’artista gioca con le attese del pubblico, ne manipola la percezione, lo costringe a interrogarsi sul modo in cui costruisce mentalmente lo spazio.

Con Golf Ball, Lichtenstein non si limita a raffigurare un oggetto: ne fa il campo di battaglia su cui si misurano astrazione e realismo, profondità e superficie, significato e insignificanza. In questo senso, l’opera va ben oltre l’aneddoto o la curiosità pop. È un manifesto di metodo, un esercizio visivo e teorico travestito da immagine elementare. Un classico esempio di come, nella Pop Art, l’apparente semplicità possa rivelare una complessità sottile e persistente.

A oltre sessant’anni dalla sua realizzazione, Golf Ball resta un’opera di grande attualità. Non solo perché anticipa molti dei temi che oggi alimentano la riflessione sull’immagine, ma perché testimonia con forza la capacità di un artista di trasformare un oggetto ordinario in un potente dispositivo critico. Lichtenstein ci invita a guardare, ma soprattutto a pensare a ciò che guardiamo. Anche – e forse soprattutto – quando ciò che vediamo è solo una pallina da golf.


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