
Tra denuncia e speranza, il fotografo brasiliano scomparso nel 2025 ha trasformato la macchina fotografica in uno strumento di militanza visiva. Testimone dei drammi dell’umanità, ha restituito dignità alle sue ferite e bellezza alle sue sopravvivenze.
Quando Sebastião Salgado affermava di «sentire il bisogno di essere parte di ciò che stava fotografando», non parlava solo del proprio metodo di lavoro. Descriveva, in realtà, una vocazione totalizzante, quasi sacrale, a cui ha consacrato l’intera esistenza. Nato ad Aimorés, nello Stato brasiliano del Minas Gerais, nel 1944, ed entrato in contatto con la fotografia solo dopo una prima formazione da economista, Salgado ha attraversato decenni di conflitti, migrazioni e collassi ecologici con uno sguardo che non si è mai limitato a registrare, ma che ha sempre voluto comprendere, farsi carne del mondo che documentava.
Scomparso il 23 maggio 2025 a Parigi, la città dove aveva scelto di vivere, Salgado lascia un’eredità che va ben oltre l’opera fotografica. Le sue immagini – dense, severe, ma anche capaci di una bellezza primordiale – raccontano l’umanità nei suoi estremi: la crudeltà e la grazia, la devastazione e la resilienza. E lo fanno con una cifra stilistica inconfondibile: il bianco e nero non come scelta estetica, ma come necessità etica. «Il colore distrae», diceva. Nella dicotomia fra luce e ombra, Salgado trovava la verità.
L’economista diventato testimone
Il percorso che lo ha condotto alla fotografia è già di per sé singolare. Laureato in economia e statistica, Salgado approda al fotogiornalismo dopo una missione in Africa come consulente della Banca Mondiale. Ma le cifre non gli bastano: è l’esperienza concreta dei luoghi e delle persone che lo spinge a impugnare per la prima volta una macchina fotografica. Il reportage sulla siccità del Sahel, realizzato nel 1973, è la sua prima grande inchiesta visiva, seguita da un’indagine sulle condizioni dei migranti in Europa.
Inizia così una carriera che lo porterà, negli anni successivi, a entrare in alcune tra le più importanti agenzie fotografiche del mondo. Prima Sygma, poi Gamma e infine, nel 1979, la leggendaria cooperativa Magnum Photos, simbolo della fotografia d’autore e del reportage di impianto umanistico. Salgado ne esce nel 1994 per fondare, insieme alla moglie e collaboratrice Lélia Wanick Salgado, la propria agenzia indipendente: Amazonas Images, interamente dedicata alla produzione e alla diffusione del suo lavoro.
Un atlante della condizione umana
I progetti di Salgado non si sono mai limitati al gesto dello scatto. Erano vere e proprie esplorazioni tematiche, sviluppate lungo archi temporali estesi, con uno scrupolo da antropologo e la radicalità di un attivista. Per sei anni viaggia attraverso l’America Latina per documentare le condizioni dei contadini e delle popolazioni indigene. Il risultato è Other Americas, pubblicazione densa e potente, seguita da un’opera ancor più ambiziosa: La mano dell’uomo (1993), un monumentale reportage sul lavoro nei settori produttivi di base, che ha fatto il giro dei più importanti musei del mondo.
Nel decennio successivo, Salgado concentra il suo sguardo sulle migrazioni umane. Ne racconta le cause e gli effetti, la sofferenza e l’ostinazione a vivere, nei volumi In cammino e Ritratti di bambini in cammino. Le immagini che scaturiscono da questi anni sono un pugno nello stomaco: masse in fuga, volti scavati dalla fame, mani tese, piedi nudi che calpestano terre ostili. «Ho visto cose che un uomo non dovrebbe mai vedere», dirà anni dopo nel documentario Il sale della terra, diretto da Wim Wenders insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado.
Il film, candidato all’Oscar nel 2015, è una testimonianza struggente della sua visione. Salgado non guarda mai dall’alto. Si immerge, si sporca, diventa parte di ciò che fotografa. Il suo è un viaggio senza retorica nell’umanità dolente, condotto con la pietas di chi sa che ogni vita merita di essere raccontata, ma anche con la rabbia di chi non accetta l’ingiustizia come destino.
Dal disincanto alla rinascita
Eppure, nemmeno un testimone come Salgado è rimasto indenne alla brutalità che ha osservato. Il punto di rottura arriva dopo il genocidio in Ruanda. Sconvolto da ciò che ha visto, smette di fotografare. Torna nella fattoria di famiglia nel Minas Gerais e trova la terra secca, disboscata, irriconoscibile. È il momento di un nuovo inizio: insieme a Lélia decide di riforestare quell’area devastata. Nasce così l’Instituto Terra, un progetto di riforestazione che nel tempo porterà alla piantumazione di milioni di alberi e alla rinascita di un intero ecosistema.
Da quel gesto germoglierà anche la sua opera forse più visionaria: Genesis. È l’altra faccia della medaglia, il controcanto necessario alle sue precedenti testimonianze. Dopo aver raccontato il collasso, Salgado cerca la purezza, l’origine, l’intatto. Viaggia nelle zone meno contaminate del pianeta: le Galápagos, l’Antartide, le foreste dell’Amazzonia, le tribù isolate, gli animali selvatici. È un inno all’Eden, un promemoria visivo che qualcosa di incontaminato ancora esiste, e che vale la pena salvarlo.
Fotografia come scelta morale
Tutta l’opera di Salgado è pervasa da una coerenza rara. Il suo bianco e nero, incisivo e drammatico, non è mai un artificio. È la rappresentazione di una visione del mondo dove l’ombra e la luce non sono semplici valori tonali, ma categorie morali. Fotografare non significa solo osservare: è un atto di partecipazione, di militanza, di assunzione di responsabilità. In questo senso, Salgado è stato molto più di un fotografo: è stato un interprete del nostro tempo, un custode delle sue contraddizioni, un poeta del dolore e della speranza.
Tra le sue immagini più celebri, restano impresse nella memoria collettiva il cratere umano di Serra Pelada, dove migliaia di minatori scalano pareti fangose in cerca di oro; il volto scheletrico di un bambino sopravvissuto nel Sahel; i profughi del Congo travolti dal panico; e, in Genesis, due leoni marini che si sfiorano con dolcezza sulle coste delle Galápagos. Ogni scatto è una soglia: ci chiama a guardare dove non vorremmo guardare, ad ascoltare ciò che preferiremmo ignorare.
Un’eredità viva
Nel 2013, Salgado sostiene pubblicamente la campagna di Survival International per la tutela degli Awá, la tribù più minacciata del Brasile. Le sue fotografie diventano strumento politico, veicolo di pressione internazionale, amplificatore di diritti negati. È l’ennesima conferma di un approccio che ha sempre messo l’umanità al centro, senza compromessi.
Alla fine del Sale della terra, Salgado riflette: «La fotografia è stata la mia vita. Ma la vita è qualcosa di molto più grande». È una frase che racchiude tutto il suo percorso. Le sue fotografie non sono solo documenti: sono tracce di una visione, frammenti di un’etica, testimonianze di un amore profondo – e a volte ferito – per l’essere umano.
Oggi che Sebastião Salgado non è più tra noi, resta la sua opera a guidarci. Le sue immagini continuano a parlarci, a interrogarci, a ferirci e consolarci. Ci ha lasciato un patrimonio visivo, ma anche – e forse soprattutto – un modo di guardare. Di non voltarsi dall’altra parte. Di credere che, anche nell’oscurità più fitta, possa ancora esserci una luce da custodire.
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