
Nato tra i bacari del Veneto e le piazze dell’Impero asburgico, lo spritz è oggi un simbolo globale dell’aperitivo all’italiana. Dietro il suo colore brillante e il suo sapore frizzante si nasconde una storia fatta di contaminazioni linguistiche, mutazioni sociali e rivoluzioni mediatiche che ne hanno fatto un’icona pop del nostro tempo.
In Italia, “bere uno spritz” è diventato un gesto identitario. Dalla prima metà del Novecento il termine si è progressivamente emancipato dal bicchiere per entrare nella lingua viva e nei media, generando una costellazione di derivati: spritzare, spritzzeria, spritz-mania, spritz-dipendente. Dal 2017 compare ufficialmente nel Vocabolario Treccani: «s. m. inv. Aperitivo a base di vino bianco, acqua frizzante o seltz e bitter o vermut».
Non più semplice sostantivo, dunque, ma parola-simbolo che racconta un costume, un modo di stare insieme, una leggerezza collettiva che si è fatta linguaggio.
La sua origine, come spesso accade nei processi culturali italiani, è un racconto di scambi e adattamenti. “Spritz” deriva dal verbo tedesco spritzen, che significa “spruzzare”: una parola importata nel Triveneto durante la dominazione austro-ungarica e adattata alla pronuncia locale. La bevanda che oggi conosciamo è figlia di quell’incontro linguistico, oltre che di una pratica conviviale sedimentata nei secoli.
Dai bacari veneti ai media nazionali
L’aperitivo “spruzzato” nasce probabilmente tra Venezia e Padova nell’Ottocento, dove gli ufficiali austriaci ammorbidivano il vino locale con un po’ d’acqua frizzante. Dopo la Seconda guerra mondiale lo spritz diventa l’abitudine serale dei giovani veneti, bevuto nei bacari e nei bar del centro, preparato con bitter locali come il Select o con liquori più amari come il Cynar.
Il nome inizia a circolare fuori regione negli anni Cinquanta, complice la pubblicità televisiva del Carosello e l’ascesa di marchi come Aperol, fondato a Padova nel 1919. Ma è solo all’inizio del nuovo millennio, con la campagna internazionale dell’“Aperol Spritz”, che la bevanda assume la dimensione di fenomeno globale: il rito dell’aperitivo all’italiana conquista le capitali europee, poi New York e Tokyo.
Da gesto quotidiano diventa segno culturale, e il suo lessico si espande: happy hour, spritz-time, apericena entrano stabilmente nel linguaggio dei media e dei consumi.
Un caso mediatico e politico
A partire dagli anni Duemila lo spritz si trasforma in un cliché giornalistico, usato per descrivere tutto ciò che è giovane, spensierato o mondano. Nel 2004 il Corriere della Sera titola “Padova mette il bavaglio ai ragazzi dello spritz”: è l’inizio di un lessico nazionale. Negli anni successivi proliferano gli articoli sull’“estate spritzzante”, sui “militanti dello spritz”, persino su preti di strada soprannominati “don Spritz”.
La parola si presta a ogni contesto: politico, mondano, economico. Da Draghi che scherza sullo “spritz al Campari” a Giorgia Meloni fotografata “con uno spritz in jeans”, fino al presidente del Veneto Luca Zaia che ne spiega la ricetta in un video virale. Lo spritz diventa un terreno comune, un codice ironico che accomuna piazze e palazzi del potere, simbolo di un’Italia che ama prendersi sul serio solo dopo l’aperitivo.
Letteratura, cinema e costume
La popolarità del termine ha generato un piccolo filone editoriale. Dai romanzi sentimentali (Avrei voluto solo uno spritz di Claudia Profera, Aspettami con uno spritz di Silvia Mazzocchi) ai noir (Uno spritz per il commissario Mezzasalma di Antonio Vasselli), fino a titoli di saggistica che ne ricostruiscono il percorso storico e simbolico.
Il più recente, Storia dello spritz di Gianni Moriani (Cierre Edizioni, 2025), collega la bevanda alla lunga tradizione conviviale che va dai simposi greci ai banchetti romani, fino allo Spritz Day, celebrato dal 2023 ogni 1° agosto.
Il bicchiere arancione diventa così oggetto narrativo, metafora di amicizia e nostalgia, emblema di un’Italia capace di auto-ironizzarsi. Nelle pagine e sullo schermo, lo spritz rappresenta l’istante sospeso tra lavoro e tempo libero, un gesto che ha sostituito l’espresso come simbolo di socialità urbana.
Dalle origini mitteleuropee al rito pop
Se l’etimologia rinvia al mondo germanico, la storia della bevanda attraversa il cuore dell’Europa di metà Ottocento. Nel 1857, in un giornale ungherese pubblicato a Budapest, appare per la prima volta il termine spritzer, riferito a un “vino mescolato con acqua frizzante” servito… a Venezia.
Sessant’anni più tardi, nel 1928, il giornalista Elio Zorzi racconta nelle sue Osterie veneziane di un “bismark o spritz” servito con una scorzetta di limone: una bevanda delicata e “innocente”, di cui già allora si riconosceva la vocazione nobiliare.
Nel 1979, la veneziana Mariù Salvatori de Zuliani ne consegna la ricetta definitiva: vino bianco, bitter, scorza di limone e un tocco di gin per “darghe a sto aperitivo modesto una çerta qual aria de nobiltà”.
Quell’“aria di nobiltà” si è oggi trasformata in un’icona pop: un bicchiere che unisce lingue, territori e generazioni diverse, specchio di un’Italia liquida e colorata, capace di trasformare una spruzzata d’acqua e vino in simbolo universale di convivialità.
Per concludere. Dallo spruzzo di seltz dei soldati austriaci allo skyline di New York, lo spritz ha percorso quasi due secoli di storia, linguaggio e costume. È la dimostrazione che anche un gesto quotidiano può farsi rito collettivo, e che le parole – come le bevande – sanno viaggiare, mutare, reinventarsi. In fondo, dentro ogni calice arancione c’è la leggerezza dell’Italia contemporanea: un Paese che ama raccontarsi con un sorriso, possibilmente al tramonto, davanti a un bicchiere frizzante.
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