
Il concetto di “mostro” non appartiene solo al mondo della fantasia: per secoli ha costituito uno strumento culturale per escludere individui e intere comunità dalla “famiglia umana”. L’analisi storica e filosofica di Aeon evidenzia come processi di “mostrificazione” continuino oggi a influenzare diritti, cultura e politica.
Origine e definizione della mostrificazione
L’articolo su Aeon di Surekha Davies — storica della scienza — parte dall’osservazione che il termine “mostro” ha avuto storicamente una duplice funzione: accogliere ciò che appare sovrannaturale e al contempo marcare ciò che viene percepito come altro rispetto all’umano standard.
In quest’ottica, la “mostrificazione” — o “monster-making” — non si limita a individuare esseri fantastici o ibridi, ma rappresenta una vera e propria pratica sociale che stabilisce chi viene riconosciuto come pienamente umano e chi no. Ad esempio, Davies mostra come nell’Europa rinascimentale fossero raccolte in musei-camera le figure umane considerate “anormali”: nani, persone iper-pigmentate, corpi con malformazioni, tutti collocati nella categoria del prodigio o del mostruoso.
Il confine mobile tra umano e “mostro”
La prospettiva storica mette in luce che il confine tra umano e “mostro” è sempre stato fluido, variabile a seconda del contesto culturale, sociale e scientifico. Nel mondo antico, ad esempio, la presenza di un’anomalia fisica poteva essere interpretata come segno divino, manifestazione del caos o del disordine.
Nel corso del Medioevo e della modernità, l’ideale della Great Chain of Being (Grande scala dell’essere) collocava gli esseri umani in una catena che, in basso, sfumava in animali e in creature “inferiori” o “irregolari”. Questo rendeva più agevole il processo di esclusione di chi non rientrava nei canoni normativi di fisicità, comportamento o appartenenza etnica.
Monster-making, razza e potere
La mostra pratica della monstrificazione ha assunto anche forme strutturate e violente: la costruzione di “razze” al di fuori dell’umanità, la segregazione degli “altro”, la giustificazione del colonialismo, della schiavitù e delle discriminazioni. Davies riporta, ad esempio, che l’astronomo e tassonomo Carl Linnaeus, nel suo System of Nature del 1735, introdusse la categoria di Homo monstrosus per alcuni “popoli” che si trovavano al margine dell’umanità secondo i parametri europei del tempo.
Nel XX secolo, queste logiche sono riemerse con maggiore chiarezza nelle teorie razziali, nella propaganda nazista che definì intere comunità come “sub-umane”, e nella costruzione giuridica e culturale di categorie non-umane, da cui derivarono esclusione e violenza.
La contemporaneità: nuovi margini e nuove forme
Davies sottolinea come la monstrificazione non sia un fenomeno relegato al passato, ma attivo e mutevole nel presente. Le soglie del riconoscimento umano vengono continuamente rinegoziate — verso transessuali, persone neurodivergenti, migranti, ibridi uomo-macchina, intelligenze artificiali.
Ad esempio, con lo sviluppo delle tecnologie genetiche, dei cyborg e dell’intelligenza artificiale, si ridefiniscono i confini del corpo, dell’identità e dell’umano: chi è considerato “umano” può cambiare, e con esso chi viene escluso dall’umanità.
Perché è importante riconoscere la monstrificazione
Comprendere la logica della monstrificazione è cruciale per due motivi principali:
- Permette di individuare come le strutture culturali creino “altro” da sé — e come questa alterità venga stigmatizzata o esclusa.
- Aiuta a promuovere un’etica della riconoscenza che non si basi sul “normale”, ma sull’inclusione delle differenze. Davies propone la nozione di monstrofuturism: una visione etica che accoglie la pluralità, la transizione, le forme ibride di essere, e rifiuta la gerarchia fra “umani” e “non-umani”.
Implicazioni per arte, cultura e società
Il discorso assume implicazioni dirette nel campo dell’arte, della fotografia, dei media e della cultura visiva: l’immagine del “mostro” è stata da sempre una proiezione simbolica delle paure, delle differenze, del potere. Identificare come si costruiscono queste immagini – e come vengono veicolate nei musei, nei racconti, nei media – diventa un atto di critica estetica e politica.
Nella società contemporanea, le tecnologie digitali, i social network, la realtà aumentata e la biotecnologia creano nuovi “margini” dell’umano e dunque nuove condizioni di esclusione. L’articolo di Davies invita a non restare spettatori, ma a esercitare uno sguardo consapevole verso i modi in cui definiamo l’umanità stessa.
La storia del “mostro”, dunque, rivela che l’umanità non è un dato statico, bensì una conquista culturale e politica che richiede vigilanza e inclusione. Riconoscere e decostruire i processi di monstrificazione significa ridefinire chi è incluso nella “famiglia umana” — e dunque costruire una società più equa e pluralista. Come osserva Davies: la linea tra umano e “mostro” non fissa chi siamo, ma riflette chi scegliamo di escludere.
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