L’arte come atto di resistenza: da Cézanne a Giacometti

Nel cuore della National Gallery of Australia, una mostra racconta la forza dell’arte nei momenti più oscuri della storia. Cézanne to Giacometti: Highlights from Museum Berggruen/Neue Nationalgalerie, aperta fino al 21 settembre 2025, ripercorre l’evoluzione del modernismo attraverso le opere di grandi maestri del XX secolo, ma soprattutto attraverso la straordinaria vicenda personale e culturale di Heinz Berggruen, il mercante d’arte ebreo che trasformò l’esilio in una dichiarazione di libertà estetica e morale.

Una fuga, una rinascita

Nel 1936, a soli 25 anni, Heinz Berggruen fu costretto a lasciare la Germania nazista. Uscì dal paese con in tasca appena dieci marchi e un’identità mutilata, costretto fino ad allora a firmare gli articoli da giornalista con le sole iniziali “hb” per sfuggire all’antisemitismo dilagante. Trovò rifugio negli Stati Uniti, dove la sua vita prese una direzione inaspettata: da profugo a collezionista raffinato, da anonimo emigrato a protagonista del mondo dell’arte moderna. Ma all’epoca della fuga, un simile destino sembrava del tutto impensabile.

Solo un anno dopo la sua partenza, il regime nazista dava il via alla campagna più aggressiva contro la cultura moderna. La mostra Entartete Kunst (“Arte degenerata”), allestita a Monaco nel 1937, fu il culmine di questa offensiva. Oltre 16.000 opere furono confiscate dai musei tedeschi; alcune furono ridicolizzate pubblicamente, altre distrutte. Paul Klee, Kandinsky, Chagall, Picasso: gli artisti moderni venivano bollati come nemici della nazione, simboli di un decadimento da estirpare.

La collezione come testimonianza e riscatto

In questo contesto, l’impresa di Berggruen assume i tratti di una contro-narrazione potente. La sua prima acquisizione – un acquerello di Paul Klee acquistato a Chicago nel 1940 per 100 dollari – non fu soltanto un investimento, ma un gesto carico di significato personale e politico. Klee, anch’egli costretto a lasciare la Germania, rappresentava per Berggruen un’identificazione profonda, una memoria condivisa. L’opera, che egli considerava un “talismano”, lo accompagnò persino durante il servizio militare nell’esercito statunitense. “Un promemoria di una casa perduta, e di una Germania che non esisteva più”, osserva Natalie Zimmer, curatrice del Museum Berggruen a Berlino.

La raccolta di opere moderniste divenne negli anni una delle più vaste e raffinate collezioni private mai costituite. Ma soprattutto, fu un’opera di memoria e resistenza. Ogni acquisizione – dai ritratti frammentati di Picasso alle sculture filiformi di Giacometti, dagli acquerelli di Klee ai disegni di Matisse – era anche una sfida implicita all’estetica ufficiale del Terzo Reich. In un’epoca in cui l’arte era arma ideologica, Berggruen costruiva, tassello dopo tassello, un archivio dell’inaccettabile, dell’espulso, del vietato.

Dal Bauhaus all’Australia

La mostra della NGA non si limita a celebrare i grandi nomi dell’avanguardia europea, ma ne racconta anche la diaspora, il radicarsi in nuovi territori. Paul Cézanne, “il padre di tutti noi”, secondo Picasso, apre simbolicamente il percorso: la sua visione strutturale e innovativa della pittura prefigura le rivoluzioni formali di cubismo e fauvismo, influenzando profondamente artisti di generazioni successive. Anche laddove il legame non è immediato, l’eredità si fa sentire. Le sculture essenziali e svuotate di Alberto Giacometti, per esempio, “sono costruite particella per particella, come le pennellate costruttive di Cézanne”, sottolinea David Greenhalgh, curatore della NGA.

Ma la mostra dà spazio anche a figure spesso trascurate nella narrativa dominante. Dora Maar, nota ai più come musa di Picasso, viene qui riscoperta come artista autonoma e provocatoria. Nel suo Ritratto di Pablo Picasso del 1938, Maar ribalta i ruoli tradizionali: il genio maschile diventa oggetto dello sguardo, ritratto in forme disturbanti e con occhi vuoti, quasi alienati. Ancora più eloquenti sono le sue fotografie in bianco e nero: frammenti urbani e volti anonimi, documenti di un mondo osservato con lucidità e compassione.

Un altro snodo cruciale della mostra riguarda Ludwig Hirschfeld-Mack, artista formatosi al Bauhaus e costretto all’esilio. Fuggito in Inghilterra, fu poi deportato in Australia come “straniero nemico”. Internato nei campi di Hay, Orange e Tatura, trasformò la prigionia in produzione artistica. La sua xilografia Desolazione: campo di internamento, Orange, Nuovo Galles del Sud (1941) è una testimonianza visiva toccante dell’alienazione e della resistenza interiore, capace di innestare il linguaggio dell’avanguardia europea nella realtà austera del paesaggio australiano.

Un’eredità riconciliata

Nel 2000, Heinz Berggruen compì un gesto che chiuse simbolicamente il cerchio della sua vicenda. Vendette l’intera collezione allo Stato tedesco a condizioni favorevoli, rifiutando offerte più vantaggiose provenienti da Londra o Ginevra. “Fu un grande atto di riconciliazione”, osserva Gabriel Montua, direttore del Museum Berggruen, “da parte di qualcuno che era stato cacciato dalla Germania e che, sessant’anni dopo, scelse di restituire tutto a Berlino”.

La collezione, ora parte integrante della Neue Nationalgalerie, non è soltanto una galleria di capolavori. È un monumento alla capacità dell’arte di attraversare le catastrofi, un archivio del dissenso, un elogio dell’alterità. La mostra di Canberra – che raccoglie i vertici di questa raccolta – rende accessibile a un nuovo pubblico l’eredità di un uomo che fece della bellezza una risposta alla barbarie, e della memoria un gesto di fiducia nel futuro.


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Tra marketing di massa e nostalgia della semplicità

C’è una scena sempre più familiare a chiunque abbia messo piede in un supermercato negli ultimi anni. Una donna, ferma davanti al banco frigorifero, scruta le confezioni di mozzarella con lo sguardo di chi sta valutando un acquisto esistenziale. Sfiora l’involucro, legge le etichette, confronta ingredienti, origini e certificazioni. Intorno a lei, il flusso dei clienti scorre veloce: pochi secondi per ciascuna decisione, un gesto meccanico, un compromesso tra convenienza e consuetudine.

Il suo è un gesto raro, quasi anacronistico, in un contesto in cui il “good enough” – il “va bene così” – è diventato l’approccio dominante alla spesa. La proliferazione dei prodotti sugli scaffali – decine di varianti dello stesso bene, differenze minime spacciate per innovazioni decisive – ha trasformato ogni scelta in un rompicapo. L’illusione della varietà ha prodotto l’effetto opposto: saturazione, confusione, rinuncia.

Questa è la trappola della troppa scelta, un paradosso che il marketing contemporaneo ha alimentato per decenni, nel tentativo di differenziare prodotti che, sotto la superficie, sono straordinariamente simili.

Il miraggio della differenziazione

Youngme Moon, docente ad Harvard e autrice del saggio Different, descrive con precisione questo fenomeno. Nel suo racconto, lo scaffale del supermercato diventa il simbolo di una tendenza più ampia: quando un marchio introduce una novità – uno yogurt con un nuovo probiotico, uno shampoo “tonificante” – gli altri lo seguono a ruota. È la legge del branco applicata al marketing. Il risultato è un’omogeneità eterogenea: tutto appare diverso, ma in realtà è tutto uguale.

L’innovazione si riduce spesso a modifiche cosmetiche: un nuovo colore, un’etichetta rivisitata, un claim più o meno credibile (“naturalmente ricco di calcio”, “senza olio di palma”, “dalla fattoria alla tavola”). La competizione si gioca sul terreno delle micro-varianti, e raramente sfocia in una vera rottura di paradigma. I prodotti si moltiplicano senza cambiare davvero, mentre i consumatori si ritrovano sopraffatti, costretti a scegliere tra decine di opzioni tutte ugualmente intercambiabili.

L’esempio dei biscotti Oreo negli Stati Uniti è emblematico: così tante varianti che nemmeno Wikipedia riesce a censirle tutte. E non è un caso isolato. Le penne Bic nere? Introvabili, sommerse da alternative “fluide”, “ergonomiche”, “a scorrimento veloce”. La personalizzazione estrema ha lasciato il posto a una frammentazione sterile.

In uno dei supermercati di Bologna

Consumatori disillusi

In questo scenario, il consumatore medio reagisce con pragmatismo. Secondo Moon, si può dividere in almeno tre categorie: il connoisseur, attento, curioso, spesso appassionato; l’opportunista saggio, che fa scelte sensate ma senza entusiasmo; e il pragmatico disilluso, che agisce per inerzia, delegando alle promozioni o al posizionamento sullo scaffale.

Queste categorie coesistono dentro ciascuno di noi. Possiamo essere cultori della birra artigianale e allo stesso tempo acquirenti svogliati di carta igienica in promozione. A seconda del tempo, dell’interesse o del budget, oscilliamo tra coinvolgimento e indifferenza. E quando la spesa diventa un’impresa, la semplificazione torna ad avere un valore.

I consumatori si stancano. Anche il più appassionato esperto, dopo anni passati a riconoscere impercettibili note fruttate in un vino piemontese di nicchia, può finire per rifornirsi di bottiglie in offerta al discount. Il tempo, non la qualità, diventa la risorsa scarsa.

E così, la figura del connoisseur, prima celebrata come emblema di raffinatezza e competenza, inizia a essere percepita con sospetto. Chi si appassiona troppo a mozzarelle o acque minerali rischia l’etichetta del bizzarro. Le differenze sono troppo lievi per giustificare tanto impegno.

La standardizzazione come rifugio

I produttori lo sanno, e adeguano le strategie. È più sicuro aggiungere una nuova variante di shampoo che lanciare un prodotto realmente diverso. I manager preferiscono soluzioni a basso rischio e risultati misurabili nel breve periodo. Le innovazioni radicali – come quelle che un tempo hanno permesso a Google o IKEA di emergere – sono rare, e soprattutto costose, rischiose, non garantiscono il successo né premiano chi ci prova.

In Italia, un mercato storicamente avverso al fallimento, chi rischia è penalizzato. Meglio un 5% in più di vendite trimestrali che un’idea dirompente da coltivare per tre anni. I manuali di marketing predicano differenziazione, ma nella pratica si premia la sopravvivenza.

Dove finisce la scelta

Eppure, non tutto è perduto. Il digitale offre nuovi spazi di espressione, e una riconciliazione possibile tra i mondi contrapposti del consumo: quello del connoisseur e quello del pragmatico. Online si trovano sia piattaforme con pochi prodotti selezionati (come Brandless, che vende articoli a prezzo unico e in numero limitato), sia store iperspecializzati in nicchie microscopiche, dove i cultori del gusto possono scambiarsi recensioni e scoperte.

Un esempio? Le recensioni di acque minerali su Amazon, dove alcuni utenti giudicano la qualità sulla base del residuo fisso, consigli medici, persino ipotesi sulla conservazione in magazzino. È l’iper-competenza traslata nel regno dell’ordinario, dove anche un’acqua da supermercato può diventare oggetto di culto.

Ma la vera svolta sarà tecnologica. Intelligenza artificiale e comandi vocali stanno già cambiando il nostro rapporto con la spesa. Dire “Alexa, aggiungi la mozzarella e la birra alla lista” significa abbandonare il processo decisionale. È l’algoritmo a conoscere le nostre preferenze, a filtrare le opzioni, a liberarci dal peso della scelta. Il connoisseur sopravvive nei forum, il pragmatico trionfa nel machine learning.

Verso una nuova sobrietà?

Il futuro potrebbe dunque non essere una guerra tra eccesso e semplificazione, ma una convivenza digitale tra stili di consumo. Ognuno di noi potrà oscillare, a seconda dei momenti e delle piattaforme, tra esplorazione e automatismo, tra passione e pigrizia. L’identità del consumatore si fa fluida, come la sua presenza sugli scaffali – reali o virtuali che siano.

E se la varietà continuerà a crescere, lo farà in silenzio, nascosta dietro un’interfaccia più semplice, in grado di proteggerci da quell’abbondanza che, per molti, è ormai solo un fastidio. La mozzarella giusta, alla fine, la troverà l’intelligenza artificiale. Purché non sia quella al cetriolo.


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Quando l’ordinario racconta l’invisibile

Latte, Uova, Vodka: liste della spesa come oggetti smarriti e ritrovati

C’è chi, tra le corsie del supermercato, vede solo carrelli e promozioni. E poi c’è Bill Keaggy, artista e scrittore americano, che nelle liste della spesa smarrite trova racconti umani, indizi culturali e inaspettate scintille poetiche. Da oltre vent’anni, Keaggy raccoglie e archivia biglietti dimenticati, frammenti cartacei che la maggior parte di noi getterebbe senza esitazione. Il suo progetto, The Grocery List Collection, è diventato un sito web e un libro – Milk Eggs Vodka: Grocery Lists Lost and Found – che esplora il potere narrativo dell’infinitamente banale.

Nato e residente a St. Louis, Missouri, Keaggy è fondatore di un’agenzia di comunicazione visiva strategica chiamata Tremendousness. Ma è soprattutto un collezionista atipico, mosso da un interesse quasi antropologico per ciò che di solito resta invisibile. “Ogni lista è unica, ma anche universale”, afferma. In poche righe storte e sbilenche, spesso scritte in fretta, si intravedono esistenze, desideri, abitudini, dimenticanze. Un nome barrato, un prodotto insolito, un commento marginale: tutto può diventare narrazione.

Le liste raccolte da Keaggy spaziano dal prevedibile – latte, uova, pane – al surreale: “un abbraccio”, “niente panico”, “polpette + pazienza”. Ce ne sono di concise, altre piene di correzioni e riscritture, alcune scarabocchiate su scontrini o pezzi di cartone. Ma ciò che le unisce è la capacità di evocare un universo personale e anonimo al tempo stesso. “È come guardare per un attimo dalla finestra di qualcun altro”, dice Keaggy, sottolineando quanto anche gli oggetti più prosaici possano rivelare un’intimità inaspettata.

Nel suo archivio digitale, ogni lista è un invito implicito all’immaginazione. Un frammento della quotidianità che, decontestualizzato, diventa stimolo narrativo. Per Keaggy, la parte più interessante non è ciò che è scritto nero su bianco, ma ciò che manca: le assenze, le lacune, i vuoti da riempire. “Le liste ci raccontano una storia incompleta”, spiega, “e ci invitano a completarla”.

Il progetto ha trovato eco anche in episodi che, seppur casuali, ne confermano la forza simbolica. Nel 2017, ad esempio, l’ex calciatore del Real Madrid Manolo Sanchís ha scatenato un piccolo terremoto sui social network dopo aver pubblicato su Twitter, per errore, una fotografia in cui si intravedeva la sua lista della spesa. Ma non si trattava di una lista qualunque: accanto a voci comuni come “cacao per la mamma”, figuravano annotazioni degne di un noir, tra cui “proiettili per la 300”, “paradenti”, “due cani”. Un dettaglio curioso, comparso in un selfie scattato nella cabina di regia dello stadio Bernabéu, rimosso in fretta, ma non prima di aver alimentato una valanga di ipotesi ironiche e congetture più o meno fantasiose.

Un episodio come quello – apparentemente insignificante – è perfettamente in linea con la filosofia di Keaggy. “È affascinante come qualcosa di così piccolo possa provocare una reazione così grande”, osserva. Proprio perché non sono pensate per essere condivise, queste liste esercitano una forza comunicativa potente, spesso involontaria. Rivelano più di quanto immaginiamo: ciò che vogliamo, ciò che dimentichiamo, e anche come lo esprimiamo.

Nel suo libro Milk Eggs Vodka, Keaggy ha selezionato le liste più memorabili del suo archivio, componendo un ritratto collettivo di un’umanità che si rivela proprio nel gesto più quotidiano: fare la spesa. Alcune fanno sorridere, altre commuovono, altre ancora inquietano. Ma tutte, a modo loro, parlano di noi. Delle nostre priorità, delle urgenze del momento, del modo in cui pensiamo e annotiamo. Di come anche il linguaggio più semplice – quello della necessità – finisca per raccontare il nostro tempo.

È un paradosso curioso: in un’epoca dominata da immagini curate e messaggi costruiti, sono proprio questi fogli dimenticati a dirci qualcosa di autentico. Forse perché non sono filtrati, forse perché contengono errori, cancellature, esitazioni. O forse perché, come sostiene Keaggy, “ciò che compriamo, ciò che dimentichiamo, ciò che annotiamo frettolosamente… tutto dice più di noi di quanto potremmo immaginare”.

L’arte di raccogliere e guardare le liste della spesa non sta dunque nel trasformarle in cimeli, ma nel restituire loro una voce. Una voce che parla senza clamore, ma con insospettabile precisione. Che ci fa ridere, pensare o semplicemente ci ricorda che ogni giorno – anche tra i banchi del supermercato – è pieno di storie che vale la pena ascoltare.


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Parigi e il banh mi: panino vietnamita dalle tante storie

Parigi e il banh mi: il panino vietnamita che racconta una storia di colonie, cultura e croccantezza

Sto tornando da Parigi dove ho scoperto qualcosa che solo io al mondo non conoscevo. A prima vista potrebbe sembrare un semplice panino, ma il banh mi è molto di più: un concentrato di storia, identità culturale e gastronomia globale racchiuso in una baguette croccante. Nato dal dialogo – forzato, ma innegabile – tra la tradizione culinaria vietnamita e l’eredità coloniale francese, questo sandwich si è conquistato un posto d’onore anche a Parigi, città dove la cucina asiatica gode oggi di uno spazio sempre più rilevante e creativo. Ecco come un cibo di strada si è trasformato in un’icona del gusto metropolitano.

Un panino coloniale diventato simbolo di fusione culturale

Il banh mi nasce in Vietnam verso la fine dell’Ottocento, quando i coloni francesi introdussero il pane bianco nel Sud-est asiatico. I fornai locali ne adattarono la preparazione, rendendolo più leggero e croccante, perfetto per le condizioni climatiche locali. La baguette francese – da cui il nome banh mi, letteralmente “pane di frumento” – venne così reinterpretata dai vietnamiti, che iniziarono a farcirla con ingredienti locali: carni speziate, erbe aromatiche, sottaceti agrodolci, maionese, peperoncino, salsa Maggi. Il risultato è un panino che coniuga la struttura e la croccantezza europee con il profumo, la freschezza e il calore della cucina vietnamita.

Oggi il banh mi è uno dei simboli gastronomici più riconoscibili del Vietnam e ha conquistato le capitali del mondo, Parigi in primis, dove la comunità vietnamita è presente e radicata. La capitale francese, complice la sua naturale apertura alla sperimentazione culinaria e il continuo flusso migratorio postcoloniale, è diventata negli ultimi anni un piccolo paradiso per chi cerca banh mi autentici, creativi, golosi.

Una mappa golosa del banh mi a Parigi

La mappa gastronomica parigina si arricchisce ogni anno di nuove insegne dedicate a questo panino irresistibile, capace di soddisfare tanto il bisogno di un pasto veloce quanto il desiderio di autenticità. Dai locali di quartiere alle nuove aperture dal design curato, ecco una selezione delle tappe imperdibili per chi vuole esplorare il meglio del banh mi nella Ville Lumière.

Comptoir Banh Mi è un piccolo gioiello da scoprire. Nato dall’idea della chef Quynh Hoa, che ha attinto alle sue radici ad Hanoi per ideare un menù essenziale ma irresistibile, questo locale propone versioni raffinate e intense: spicca il beef la lôt, manzo avvolto in foglie aromatiche lôt, ma anche il xiu mai, variante con maiale e uovo salato. Il locale è ancora poco frequentato, ma promette di diventare presto una tappa obbligata per chi cerca qualità e personalità.

Nel 13° arrondissement, il Coupi Bar è celebre per la sua baguette fatta in casa, che mantiene una croccantezza ideale e valorizza ogni ingrediente. Le opzioni spaziano dal classico pollo al tofu, passando per l’originale karaage giapponese: un incontro tra Asia orientale e Sud-est asiatico che conquista anche i palati più esigenti.

Se si cerca un’esperienza più tradizionale e generosa, Saigon Sandwich è il nome da ricordare. Carne marinata con sapori intensi, verdure croccanti e salse esplosive rendono ogni morso una piccola festa. È uno degli indirizzi più apprezzati dagli amanti della cucina vietnamita a Parigi.

Atmosfera intima e baguette calda al momento sono il segreto di Hanoï Corner, ristorante aperto da una coppia fiera delle proprie radici. Qui ogni dettaglio è pensato per offrire un’esperienza autentica e accogliente, perfetta per una pausa pranzo fuori dall’ordinario.

Per chi è sempre di corsa ma non rinuncia al gusto, Emi-Lee offre banh mi da asporto senza fronzoli ma ricchi di carattere. Le sue salse, tra cui una maionese piccante e cipolle caramellate, trasformano un panino semplice in un’esplosione di sapore. Il servizio catering, inoltre, permette di portare un tocco vietnamita anche negli eventi più informali.

A Belleville, il quartiere multiculturale per eccellenza, Panda Belleville propone un banh mi genuino in un contesto familiare e conviviale. Le opzioni comprendono tutte le principali varianti di carne e tofu, e il servizio cordiale completa l’esperienza.

Infine, chi è disposto ad affrontare un po’ di fila sarà ricompensato da Thieng Heng, indirizzo storico del 13° arrondissement con otto diverse varianti di banh mi e un’offerta gastronomica vietnamita ampia e di qualità. L’infuso di crisantemo consigliato in accompagnamento aggiunge un tocco di delicatezza e originalità.

Tradizione, identità e globalizzazione

Il successo del banh mi a Parigi è il segno di una dinamica complessa ma affascinante: la capacità della cucina di diventare ponte tra culture, mezzo di espressione e memoria. Un semplice panino può raccontare una storia di colonizzazione e resistenza, di adattamento e orgoglio. Ogni morso evoca l’eco di un passato condiviso, ma anche la creatività di chi, con pochi ingredienti, riesce a costruire identità e piacere.

Nel panorama sempre più ricco della ristorazione parigina, il banh mi non è solo un trend gastronomico: è un capitolo vivo della storia urbana, una fusione perfetta tra eredità e innovazione. In un tempo in cui il cibo è anche narrazione, questo panino si conferma testimone gustoso e vibrante di mondi che si incontrano.


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Orzo, legumi e cenere per sopravvivere nell’arena

Nell’immaginario collettivo, il gladiatore è una figura muscolare e famelica, nutrita a forza di carne per affrontare i leoni del Colosseo. Ma le recenti ricerche archeologiche e antropologiche ci restituiscono un quadro molto diverso. Altro che carne rossa e selvaggina: la dieta dei gladiatori dell’antica Roma era quasi interamente vegetariana. Una scoperta che smentisce stereotipi cinematografici e apre uno spiraglio su una realtà alimentare tanto spartana quanto funzionale alle esigenze del combattimento.

Un’archeologia del corpo

Il punto di svolta nella comprensione della dieta gladiatoria arriva da Efeso, una delle principali città della provincia romana d’Asia tra il II e il III secolo d.C. Durante gli scavi condotti nel 1993, è stato portato alla luce un cimitero dove sono stati identificati i resti di 53 individui. Quasi la metà erano con ogni probabilità gladiatori, riconoscibili grazie a rilievi scolpiti sulle lastre tombali che raffiguravano scene di combattimento.

L’analisi dei reperti è stata condotta dal Dipartimento di Medicina Forense della MedUni di Vienna in collaborazione con l’Università di Berna. Attraverso sofisticate tecniche di spettroscopia, i ricercatori hanno analizzato gli isotopi stabili di carbonio, azoto e zolfo nel collagene osseo, nonché i livelli di calcio e stronzio nei tessuti minerali. Il risultato? Le ossa raccontano una storia alimentare dominata da cereali e legumi, con un’assunzione marginale di proteine animali.

il mosaico di Zliten rinvenuto a Zliten raffigurante gladiatori.
Da sinistra a destra si riconoscono: un trace che combatte con un mirmillone; un hoplomachus accanto ad un mirmillone privato dello scudo che segnala all’arbitro la propria sconfitta; un altro mirmillone impegnato a combattere.

Hordearii: i mangiatori di orzo

Che i gladiatori seguissero un’alimentazione a base vegetale non è solo una deduzione scientifica, ma trova conferma anche nei testi antichi. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, li definisce hordearii, ovvero “mangiatori di orzo”. L’orzo, insieme a grano, miglio e farro, costituiva la base dell’alimentazione quotidiana. Questo cereale, meno pregiato del frumento ma più resistente e facile da conservare, era particolarmente diffuso tra le classi popolari e i militari, e dunque tra i gladiatori.

A questi alimenti si aggiungevano i legumi – fave, lenticchie e fagioli – che apportavano proteine vegetali, carboidrati complessi e una discreta quantità di fibre. Secondo il medico Galeno, autore del trattato De alimentorum facultatibus, i legumi erano una componente essenziale della dieta gladiatoria, contribuendo al mantenimento della massa muscolare e dell’energia necessaria per gli estenuanti allenamenti e i combattimenti nell’arena.

Energia da forno e infusi mineralizzanti

La dieta prevedeva anche focacce d’orzo arricchite con olio, miele e fichi, consumate soprattutto prima dei combattimenti per garantire una riserva calorica immediata. È probabile che queste focacce rappresentassero una sorta di “pasto energetico”, analogo agli snack ipercalorici degli atleti moderni.

Ma ciò che più colpisce è il consumo di una particolare bevanda a base di cenere vegetale, nota con i nomi di pyxis o pisside. Citata sia da Plinio che da Varrone, questa miscela – ottenuta sciogliendo in acqua cenere di piante officinali – aveva una funzione ricostituente. I gladiatori la assumevano dopo i combattimenti per accelerare il recupero e lenire i dolori muscolari e viscerali. Le ceneri, ricche di minerali come calcio, magnesio e zinco, contribuivano a riequilibrare una dieta altrimenti povera di questi nutrienti. La presenza elevata di stronzio nelle ossa dei gladiatori, evidenziata dalle analisi scientifiche, sembra confermare l’assunzione regolare di questa bevanda.

Una “posca” ante litteram

Questa bevanda potrebbe essere considerata una variante della posca, una mistura di acqua, aceto e cenere in uso tra le truppe romane e nelle fasce più povere della popolazione. La posca, dal sapore aspro e pungente, veniva talvolta addolcita con miele e aromatizzata con spezie, producendo un effetto effervescente grazie alla reazione chimica tra acido acetico e carbonati minerali. In un certo senso, una rudimentale bevanda gassata. Se si volesse forzare un parallelismo, si potrebbe azzardare che la posca fosse l’antenata romana delle bibite moderne, Coca-Cola compresa.

Un retiarius combatte un secutor, mosaico del 79 d.C.

Dieta povera ma mirata

Nel contesto sociale dell’epoca, l’alimentazione era fortemente stratificata. Le classi alte disponevano di un accesso privilegiato a carne, pesce, uova e formaggi, mentre la grande massa della popolazione – gladiatori compresi – si nutriva di ciò che era economico, reperibile e facilmente conservabile. Gli animali venivano allevati per i lavori agricoli più che per essere mangiati, e l’assenza di sistemi di refrigerazione rendeva difficile la conservazione di carni e latticini.

La dieta dei gladiatori era dunque il frutto di una necessità economica, ma anche di una strategia funzionale. I carboidrati complessi fornivano energia a lungo termine, i legumi assicuravano il giusto apporto proteico, mentre la bevanda a base di cenere svolgeva una funzione integrativa. Non si trattava di un’alimentazione ricca, ma era calibrata per sostenere fisicamente uomini costantemente sottoposti a uno stress estremo.

Un’eredità fra mito e realtà

Il gladiatore romano resta una figura mitica, sospesa tra realtà storica e immaginario spettacolare. Ma il suo corpo, plasmato da allenamenti intensi e da una dieta vegetale, racconta una verità diversa da quella trasmessa da secoli di rappresentazioni. Non guerrieri che banchettano con cosciotti di cinghiale, ma atleti disciplinati, nutriti con grano e legumi, che sorseggiano infusi di cenere per tornare in piedi dopo il combattimento.

È in questa sobrietà alimentare che si cela la forza dei gladiatori. Una lezione forse utile anche oggi, in un’epoca in cui l’eccesso calorico e il consumo smodato di zuccheri sembrano essere i veri nemici della forma fisica.


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Tutte le sciocchezze che abbiamo imparato a credere

Tra leggende urbane, fraintendimenti storici e falsi miti culturali: un viaggio tra le convinzioni errate più dure a morire

Viviamo in un mondo costruito su racconti, semplificazioni e verità parziali. Alcune di queste si radicano nella nostra mente sin da bambini, insegnate con sicurezza da adulti considerati infallibili – genitori, maestri, enciclopedie ormai superate – e mai più messe in discussione. Altre nascono da un passaparola costante, da rappresentazioni mediatiche imprecise, o da narrazioni così suggestive da risultare irresistibili, anche a scapito della loro veridicità. Il risultato è un deposito culturale pieno di credenze errate, tanto diffuse da sembrare certezze. Ecco una rassegna – rigorosamente verificata – delle più curiose e persistenti.

Non tutto ciò che sembra orientale viene dalla Cina

Quanti di noi, ordinando in un ristorante cinese, si aspettano di concludere il pasto con un biscotto della fortuna? Eppure, questi dolcetti con il messaggio all’interno non hanno nulla a che fare con la tradizione gastronomica cinese: sono nati in Giappone e resi popolari negli Stati Uniti, dove oggi rappresentano un’icona della cucina sino-americana. In Cina sono quasi introvabili.

Mele, cammelli e altri dettagli biblici che non esistono

Nel racconto della Genesi, il frutto proibito che Adamo ed Eva colsero dall’albero non è mai identificato come una mela. Fu l’arte medievale europea, dal XII secolo in poi, a stabilire questa associazione, probabilmente per un gioco di parole in latino tra “malum” (mela) e “malum” (male). Similmente, la narrazione evangelica dei Re Magi non specifica il loro numero, né parla di cammelli o dei loro nomi: tre furono i doni, e da lì partì la tradizione, mentre le raffigurazioni si affermarono solo a partire dal III secolo. Anche la data della loro visita, il 6 gennaio, è una convenzione tardiva.

La verità dietro cinture, vomitorii e vichinghi con le corna

Chi pratica arti marziali sa che la cintura nera non rappresenta un traguardo assoluto, ma il superamento delle tecniche fondamentali. Solo successivi livelli avanzati portano cinture bianche-rosse e infine rosse, come nel judo. Altrettanto infondato è il mito degli antichi romani che vomitavano tra una portata e l’altra per continuare a mangiare: il “vomitorium” era in realtà un passaggio architettonico negli anfiteatri, non un luogo di autoindotta evacuazione gastrica. Quanto ai vichinghi, nessuna fonte storica conferma che portassero elmi con corna: l’idea si diffuse a fine Ottocento, in concomitanza con le prime rappresentazioni dell’opera wagneriana L’anello del Nibelungo.

Napoleone non era un nano, Einstein non odiava la matematica

Molti continuano a immaginare Napoleone come un piccolo uomo dall’animo irruente. In realtà, con i suoi 1,69 metri, era perfettamente nella media dei francesi dell’epoca. Il soprannome “piccolo caporale” aveva connotazioni affettuose, non fisiche. Similmente, Albert Einstein non ebbe mai problemi con la matematica: già adolescente dominava calcolo differenziale e integrali. L’unico esame che fallì fu quello d’ammissione al Politecnico di Zurigo, ma a causa delle materie letterarie, non scientifiche.

Il “telefono rosso” e altre trovate hollywoodiane

L’iconico “telefono rosso” tra Washington e Mosca è un’invenzione cinematografica. Durante la Guerra Fredda, il collegamento d’emergenza tra le due superpotenze fu in realtà una linea di telescrivente, poi sostituita da un fax. Solo dal 2008 esiste un sistema e-mail sicuro, ma non tra Casa Bianca e Cremlino, bensì tra Pentagono e governo russo.

Tori, dinosauri e altri animali fraintesi

Il rosso non scatena la furia dei tori: questi animali non distinguono i colori come gli esseri umani, e sono irritati dai movimenti del torero, non dalla tinta del drappo. Quanto ai dinosauri, non hanno mai coabitato con gli uomini: il loro ultimo esemplare scomparve circa 66 milioni di anni fa, mentre i primi ominidi comparvero solo 2,3 milioni di anni fa. Eppure, qualcosa dei dinosauri sopravvive ancora: gli uccelli sono i loro discendenti evolutivi. E no, gli elefanti non vanno a morire in cimiteri nascosti: questa romantica invenzione nasce nell’Ottocento, forse per giustificare le razzie di avorio.

Il cervello umano lavora ben più del 10%

La credenza che usiamo solo una minima parte del nostro cervello è un’errata semplificazione di concetti sviluppati dallo psicologo William James. Le neuroscienze moderne dimostrano che, a seconda dei compiti, diverse aree cerebrali si attivano in sinergia: il cervello è tutt’altro che sottoutilizzato.

Ruggine, alcol e altri miti da sfatare

Non è la ruggine in sé a causare il tetano, ma i batteri presenti in ambienti sporchi, dove oggetti arrugginiti sono più comuni. Quanto all’alcol nei piatti, cucinare con vino o liquore non lo elimina del tutto: anche dopo due ore, una parte resta. Tuttavia, le quantità impiegate per “sfumare” un piatto sono troppo esigue per provocare effetti significativi. E no, svegliare un sonnambulo non provoca traumi: al massimo qualche secondo di disorientamento.

Invenzioni rivisitate: Edison, Ford e Babbo Natale

Thomas Edison non fu l’inventore della lampadina, bensì colui che riuscì a renderla efficiente e commercializzabile. Prima di lui, ci furono pionieri come Alessandro Cruto, torinese, che ne svilupparono versioni funzionali. Similmente, Henry Ford non inventò né l’auto né la catena di montaggio: semplificò e ottimizzò processi già esistenti. E Babbo Natale, nell’iconografia rossa e panciuta, non fu un’invenzione di Coca-Cola, che si limitò a sfruttare una figura già radicata nella cultura visiva del tempo.

Lingue, stagioni e bambini prodigio

Si pensa spesso che i bambini apprendano le lingue più in fretta degli adulti. In realtà, gli adulti imparano più velocemente, tranne che per la pronuncia. Anche sull’acqua si sbaglia spesso: non serve bere due o tre litri al giorno se si è in salute. Il corpo regola autonomamente la sete. Le stagioni, poi, non dipendono dalla distanza della Terra dal Sole, ma dall’inclinazione dell’asse terrestre: per questo a luglio nell’emisfero nord è estate, pur essendo la Terra più lontana dal Sole che a gennaio.

Sistemi operativi, sensi e toilettes volanti

Anche macOS e Linux non sono immuni da virus: solo meno presi di mira. I sensi umani, inoltre, sono più di cinque: includono l’equilibrio, la temperatura, il dolore, la propriocezione e molti altri, arrivando a oltre venti. Infine, no, gli aerei non scaricano i rifiuti in volo: tutto viene raccolto in appositi serbatoi, svuotati a terra. Una pratica che, in passato, era invece comune nei treni.

Quando la paura venne esagerata dai giornali

Il famoso panico collettivo causato dalla trasmissione radiofonica de La Guerra dei Mondi di Orson Welles nel 1938 fu in gran parte costruito a posteriori. All’epoca, pochi ascoltatori seguirono lo show, e i quotidiani gonfiarono la notizia per screditare la radio, che stava sottraendo loro pubblico e inserzionisti.

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Tra realtà distorte, errori di trascrizione, adattamenti artistici e interessi commerciali, molte delle nostre certezze si rivelano miti da smascherare. Ma non c’è da disperare: mettere in discussione ciò che crediamo è una delle forme più autentiche di conoscenza. E ogni falsità svelata è un passo in più verso la comprensione del mondo che ci circonda.


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MUSEI: le sette meraviglie secondo il Prix Versailles


Logo artistico del Diriyah Art Futures

Il Prix Versailles, uno dei riconoscimenti internazionali più prestigiosi in ambito architettonico, ha inaugurato lo scorso 5 maggio la sua undicesima edizione con l’annuncio della Lista dei Musei più belli del mondo per il 2025. Si tratta di sette istituzioni museali, nuove o recentemente rinnovate, selezionate per il loro valore architettonico, simbolico e culturale. A fine anno, tre di questi riceveranno ulteriori premi mondiali per la qualità degli interni, degli esterni o per l’intero progetto. Tra le meraviglie selezionate, l’Italia figura indirettamente con un museo progettato da uno studio romano nel cuore della Penisola Arabica.

Un museo italiano nel deserto saudita

A Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita, sorge il Diriyah Art Futures, il primo museo del Paese interamente dedicato all’arte digitale. La firma è dello studio romano Schiattarella Associati, che ha saputo intrecciare le suggestioni dell’architettura tradizionale con un linguaggio progettuale fortemente contemporaneo. L’edificio si presenta come un sistema articolato di spazi indipendenti, integrati con l’ambiente naturale di Wadi Hanifah. L’uso di passaggi ombreggiati e profondi, ispirati alle forme vernacolari locali, contribuisce a creare un luogo in equilibrio tra innovazione e memoria del territorio. La struttura ospita gallerie, laboratori, residenze d’artista, un auditorium e un centro formativo: un ecosistema culturale che fonde città e paesaggio, tecnica e visione.

Il Grand Palais, Parigi riconquista il futuro

Rientrato tra i grandi protagonisti dell’architettura museale, il Grand Palais di Parigi vive oggi una nuova stagione grazie all’intervento di restauro e valorizzazione firmato Chatillon Architectes. Costruito in soli tre anni a cavallo dell’Esposizione Universale del 1900, il palazzo è un condensato di arte e maestria costruttiva: sculture, affreschi e mosaici convivono sotto un’immensa volta in vetro di oltre 17.000 metri quadrati. L’architettura si trasforma in racconto urbano: la galleria superiore, ora restaurata, consente una passeggiata sospesa nella storia di Parigi, tra bellezza industriale e spirito repubblicano.

Audeum, un’architettura per i cinque sensi

In Corea del Sud, nel cuore di Seoul, sorge Audeum, un museo che spinge l’esperienza museale oltre la dimensione visiva. Progettato da Kengo Kuma, l’edificio è concepito come un “strumento architettonico” in grado di stimolare i cinque sensi e ristabilire una connessione profonda con la natura. L’esterno, definito da una cortina di tubi d’alluminio, richiama le strutture vegetali e i giochi di luce effimera del paesaggio. All’interno, il percorso si apre su ambienti lignei impregnati del profumo del cipresso, dove suoni, profumi e percezioni tattili si fondono in un’esperienza immersiva. Audeum non è solo un museo: è un luogo di ascolto e contemplazione.

Bali e il tempio del silenzio

Sull’isola di Bali, in Indonesia, sorge il Saka Museum, firmato dallo studio giapponese Mitsubishi Jisho Design. L’edificio riflette la filosofia del Giri Segara, equilibrio sacro tra montagna e mare, tra forze opposte e complementari. Il tetto inclinato collega idealmente il profilo montano all’oceano, mentre l’acqua che circonda la struttura riflette la luce lunare come una superficie meditativa. Il museo custodisce archivi e oggetti legati alle tradizioni balinesi, come il Nyepi, il Giorno del Silenzio. In questo luogo il confine tra contenuto e contenitore svanisce, e l’architettura si fa medium culturale.

Kunstsilo: da granaio a cattedrale dell’arte

In Norvegia, nella cittadina costiera di Kristiansand, un vecchio granaio portuale risalente al 1935 è diventato il più grande museo d’arte del sud del Paese. Il progetto, curato da Mestres Wåge Arquitectes, ha trasformato un blocco industriale di 30 silos in un’architettura monumentale e poetica. Il Kunstsilo ospita la più vasta collezione privata al mondo di arte nordica. Il contrasto tra la brutalità del cemento e la leggerezza della luce che penetra nei silos crea una tensione visiva che accompagna il visitatore in una vera ascesa museale. Una scala monumentale collega i livelli espositivi e conduce fino al tetto panoramico affacciato sulla costa: un percorso che trasforma la visita in esperienza spirituale.

Cleveland e l’architettura glaciale

Negli Stati Uniti, il Cleveland Museum of Natural History si è rinnovato per raccontare in modo più coinvolgente la storia del nostro pianeta. Lo studio DLR Group ha ridisegnato gli spazi museali ispirandosi alla geologia dell’Ohio e ai ghiacciai che hanno modellato i Grandi Laghi. Le forme curve e fluide della nuova architettura ricordano paesaggi glaciali e si sviluppano in continuità con l’ambiente naturale circostante. Al centro del museo, una sala dedicata agli esemplari più iconici della storia naturale diventa cuore pulsante del racconto scientifico. La nuova identità del museo coniuga educazione e meraviglia, restituendo l’idea che conoscere il passato della Terra è il primo passo per custodirne il futuro.

Joslyn Art Museum: tre epoche, un solo orizzonte

Nel cuore del Nebraska, il Joslyn Art Museum di Omaha racconta quasi un secolo di storia architettonica americana. Fondato nel 1931 grazie a Sarah Joslyn come dono alla comunità, l’edificio originario in stile Art Déco è affiancato oggi da due ampliamenti significativi: il padiglione progettato da Norman Foster nel 1994 e la nuova ala contemporanea, firmata dallo studio norvegese Snøhetta nel 2024. Quest’ultima si distingue per una radicale rottura formale rispetto al paesaggio circostante e ai volumi preesistenti. Eppure, nella sua tensione tra memoria e visione, il Joslyn riesce a tenere insieme passato e futuro, provincialismo e cosmopolitismo, identità locale e apertura al mondo. Un museo che parla al tempo lungo della storia e a quello immediato delle nuove generazioni.

Un riconoscimento alla creatività e alla visione

“La selezione di quest’anno – ha dichiarato Jérôme Gouadain, Segretario Generale del Prix Versailles – restituisce una straordinaria panoramica delle tendenze più significative dell’architettura museale contemporanea, celebrando sia l’energia della giovane creatività sia la competenza matura che rende possibili queste opere”. Ogni museo premiato si distingue per la capacità di offrire al visitatore un’esperienza unica, modellata sull’identità del luogo e sulla missione culturale dell’istituzione.

Il Prix Versailles si conferma così come osservatorio privilegiato dell’architettura del nostro tempo, promuovendo un’idea di sostenibilità che va oltre la dimensione ambientale e si radica nella cultura, nell’estetica e nell’etica della costruzione.

Le prossime tappe del premio mondiale toccheranno le categorie Hotel (2 giugno), Ristoranti (16 giugno), Campus universitari (23 giugno), Aeroporti (30 giugno), Empori (1° settembre), Stazioni (3 novembre) e Sport (10 novembre). Una cartografia globale dell’architettura che non smette di reinventare il mondo, un edificio alla volta.


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Il Libro del Tè: viaggio nella filosofia di Kakuzo Okakura

Frontespizio dell’edizione americana di 
The Book of Tea
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Nel 1906, mentre il Giappone si affacciava con decisione sulla modernità e l’Occidente scopriva con stupore le arti orientali, Kakuzo Okakura pubblicava Il Libro del Tè, un saggio che è insieme riflessione filosofica, racconto di costume e manifesto estetico. A distanza di oltre un secolo, le sue parole conservano un’intatta capacità di affascinare. Non tanto perché parlano del tè in sé – una bevanda universale – ma perché, attraverso la cerimonia che lo accompagna, svelano una concezione del vivere improntata alla bellezza, alla misura e all’imperfezione consapevole.

Nel Giappone tradizionale, scrive Okakura, il tè è molto più che una semplice abitudine conviviale. È un “culto della purezza e della raffinatezza”, un esercizio spirituale che ha trasformato un gesto quotidiano in una vera e propria liturgia dell’armonia. La sala da tè non è soltanto un luogo: è un’oasi simbolica nella quale chi vi accede si spoglia delle convenzioni mondane per entrare in una dimensione altra, sospesa tra l’arte e la meditazione.

Tutto, nella cerimonia, concorre a creare un microcosmo ordinato e fragile, pensato per esaltare la bellezza nel suo stato più effimero. L’arredamento è ridotto all’essenziale; i colori, tenui e sobri; il silenzio, pressoché assoluto, interrotto solo dal suono dell’acqua che sobbolle nel bollitore di ferro – un canto modulato ad arte dai maestri affinché evochi una cascata lontana o il vento tra le fronde.

L’accesso stesso alla sala è concepito come un atto iniziatico. Gli ospiti, a prescindere dal loro rango, devono abbassarsi per entrare da una piccola porta. Un gesto umile, che richiama l’uguaglianza dei partecipanti e l’abbandono dell’ego. Perfino i samurai, portatori della casta guerriera, sono tenuti a deporre la spada prima di varcare la soglia: il tè, dopotutto, è la bevanda della pace.

Ma la preparazione comincia prima, lungo il roji, il sentiero che collega il machiai, l’area d’attesa, alla sala. Il giardino, con le sue pietre disposte irregolarmente, le lanterne coperte di muschio e gli aghi di pino sul terreno, non è solo uno spazio decorativo. È parte integrante dell’esperienza. Camminarvi significa allontanarsi simbolicamente dal rumore del mondo e predisporre lo spirito alla concentrazione e all’ascolto interiore.

Questa estetica, però, non si limita alla contemplazione passiva. L’ospite non è uno spettatore, ma parte dell’opera. Nulla è simmetrico, nulla è ripetuto: l’asimmetria è un valore estetico e morale, espressione della vita stessa, che non si lascia ingabbiare in schemi rigidi. Una tazza nera non si abbina a un contenitore di tè anch’esso nero. Se c’è un fiore vero, non ci sarà un dipinto floreale. Se si usa un vaso rotondo, l’altro oggetto sarà spigoloso. Ogni elemento è scelto per suggerire contrasto e per evitare la noia della ripetizione.

Questa ricerca di equilibrio nella dissonanza si riflette anche nell’arte della pulizia. Il maestro del tè è prima di tutto un esperto nel rimuovere la polvere, ma senza cancellare i segni del tempo. Celebre è l’episodio che Okakura riporta a proposito di Rikiu, il leggendario maestro del XVI secolo: al figlio che aveva spazzato perfettamente il sentiero, Rikiu rimprovera la mancanza di spontaneità. Solo dopo aver scosso i rami di un albero, lasciando cadere foglie dorate e cremisi sul terreno, il maestro dichiara il lavoro compiuto. La pulizia, infatti, non è sterile ordine, ma evocazione poetica.

Alla base di tutto questo vi è un’idea di bellezza come allusione, mai come dichiarazione. L’arte della sala da tè rifiuta la completezza e invita l’osservatore a completare mentalmente ciò che non è mostrato. È lo spirito dello Zen, che predilige il vuoto, la sospensione, l’incompiuto. La figura umana è quasi assente nelle decorazioni, perché la presenza dell’uomo è già sufficiente a riempire lo spazio. L’osservatore è l’ultimo frammento del quadro.

Non stupisce, dunque, che i fiori siano trattati come protagonisti di un teatro silenzioso. Un ramo di ciliegio accostato a una camelia, nel cuore dell’inverno, suggerisce la fine della stagione fredda e l’attesa della primavera. Un giglio solitario, in una sala ombrosa durante l’afa estiva, diventa una promessa di freschezza. I fiori non sono mai scelti a caso, ma secondo un’intenzione poetica che ne moltiplica il significato.

Un esempio celebre è quello che vede ancora protagonista Rikiu, il quale, dopo aver coltivato un intero giardino di ipomee, decide di sacrificare tutte le piante alla vigilia della visita del potente Taiko, lasciandone solo una. Il giardino spianato, cosparso di sabbia bianca, conduce l’ospite a una sala dove, in un raro vaso cinese, spicca il solo fiore sopravvissuto. È un atto di sintesi estrema, che concentra tutta la bellezza in un’unica visione: l’emozione della mancanza, il valore del sacrificio.

Okakura parla di questo gesto come del “sacrificio dei fiori”. Ma suggerisce che forse i fiori stessi ne comprendono il senso meglio degli uomini. Alcuni sembrano quasi orgogliosi di morire – come i ciliegi giapponesi che si lasciano cadere al vento in una pioggia di petali, simbolo struggente della bellezza effimera. “Addio, o primavera! Siamo diretti all’eternità”, sembra dicano mentre si allontanano sulle acque chiare.

Nel Libro del Tè, ogni dettaglio – dal gesto con cui si versa l’acqua al colore del tovagliolo – diventa metafora di una più ampia visione dell’esistenza. Una visione dove la sobrietà è ricchezza, il silenzio è eloquenza e l’assenza è pienezza. Rileggerlo oggi significa immergersi in una civiltà che ha fatto della delicatezza una disciplina, dell’imperfezione una via e dell’arte una forma di spiritualità quotidiana.


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Un capolavoro di Rodin ricompare dopo più di 120 anni

L’8 giugno la casa d’aste Rouillac metterà all’asta la Disperazione di Rodin. Scomparso nel 1906, questo prezioso marmo è stato riscoperto per caso in una casa tra Sologne e Berry.

Per anni è rimasto discretamente appoggiato su di un pianoforte in una proprietà vicino a Vierzon, tra Sologne e Berry (Centro-Valle della Loira). L’8 giugno, nei giardini del castello di Villandry (Indre-et-Loire), Rouillac venderà Le Désespoir (1892-1893 circa) di Auguste Rodin (1840-1917). Il marmo, il cui valore è stimato tra i 500.000 e i 700.000 euro, era scomparso da oltre 120 anni. ” Questo è probabilmente il marmo più ricercato in vendita da anni “, ha affermato Jérôme Le Blay, direttore del Comitato Rodin, in un messaggio inviato all’AFP.

Un marmo estremamente raro

Come è possibile che l’opera sia stata dimenticata per tutti questi anni? Secondo Aymeric Rouillac, i proprietari pensavano che si trattasse di un falso. Per comprendere la storia dell’opera e verificarne l’autenticità, il banditore ha effettuato un’indagine genealogica. Nel corso delle sue ricerche, ha scoperto che la famiglia aveva un antenato che era banditore d’asta a Parigi all’inizio del XX secolo, Paul Louis Chevalier, il quale certamente acquistò la scultura, prima di tramandarla di generazione in generazione all’interno della famiglia.

La Disperazione è stata poi presentata al Comitato Rodin, creato nel 2004 dallo specialista di Rodin Jérôme Le Blay e da François Lorenceau della galleria Brame & Lorenceau, che sta preparando il catalogo critico dell’opera scultorea dell’artista. Un mese e mezzo dopo, il comitato ha confermato che si trattava di un marmo che era stato messo all’asta della collezione di Alexandre Blanc nel 1906 a Parigi e che da allora era scomparso dalla circolazione. “Si tratta di un marmo estremamente raro”, ha dichiarato Aymeric Rouillac all’AFP.

Una delle ombre ispirate all’Inferno  di Dante

Qual è l’origine di questo capolavoro di Rodin? Lo scultore modellò questa prima figura di disperazione intorno al 1890 per integrarla nel suo vasto repertorio di dannati tratti dalla celebre  Porta dell’Inferno, commissionatagli nel 1880 dallo Stato. Questo progetto, destinato ad adornare la facciata di un futuro museo di arti decorative (che non vide mai la luce), è diventato nel tempo un’opera centrale nella carriera dell’artista. Situata nel pannello in alto a sinistra della porta, la Disperazione  raffigura un corpo femminile seduto su una pietra in una posa acrobatica che ricorda la postura di una ballerina. La figura ha una gamba piegata e l’altra tenuta dritta dalle mani intrecciate attorno alla pianta del piede. Il volto della giovane donna è nascosto, forse per non mostrare la sua tristezza.

Un marmo unico nei musei di Francia

Considerata dall’artista come una delle ombre appartenenti ai diversi gironi  dell’Inferno dantesco,  l’ opera rinnova la rappresentazione allegorica di questo sentimento solitamente riscontrabile nella scultura funeraria. “Il successo dell’opera spinse l’artista a lavorare su varianti che presentò in varie mostre e che conservarono il suo nome nonostante la loro iconografia molto anticonvenzionale”, afferma il Museo Rodin sul suo sito web. Nel 1897 presentò a Vienna due versioni della scultura intitolate Ombra che regge il piede. Oggi conosciamo diverse varianti di questo modello, in gesso, bronzo e marmo. La Collezione Bürhle di Zurigo e il Museum of Art di Philadelphia sono le uniche due istituzioni a possedere una copia in marmo di  Disperazione . In Francia nessun museo conserva una versione in marmo dell’opera.


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Il sapore? È una complessa sinfonia sensoriale

Una fragola ben matura racconta più di una semplice storia di dolcezza. Al primo morso, la lingua riconosce lo zucchero, ma subito emergono altre sfumature: l’asprezza che punge sul fondo del palato, la consistenza granulosa dei semi, la morbidezza della polpa. Quello che definiamo “sapore” è, in realtà, il risultato di una complessa sinfonia sensoriale che ha come direttore d’orchestra il nostro cervello. Ma cosa significa davvero percepire un sapore?

Nonostante il concetto sia familiare a tutti, una definizione univoca di “sapore” sfugge persino alla scienza. Non è un senso autonomo come il gusto, né può essere ridotto alla somma di odore e sapore. È, piuttosto, una costruzione mentale, un’illusione sofisticata generata da più stimoli sensoriali che il cervello integra in un’unica esperienza. A ricordarlo è un articolo pubblicato su The Brain, rivista scientifica di National Geographic, firmato da Julia Sklar.

Il sapore non è ciò che pensiamo

Se in molti ancora confondono gusto e sapore, è perché il linguaggio stesso tende a sovrapporre questi due concetti. Il gusto, in senso stretto, è limitato a cinque categorie percepite dalla lingua: dolce, salato, amaro, acido e umami. Tutto ciò che va oltre – la fragranza del basilico, la piccantezza del pepe, la croccantezza di una patatina – appartiene al regno del sapore.

Secondo Dana Small, neuroscienziata dell’Università di Yale, il sapore è una sofisticata illusione sensoriale. “Il cervello ci inganna”, afferma, spiegando come l’esperienza del cibo sia in realtà il risultato di più segnali elaborati insieme: quelli della lingua, del naso, delle orecchie e persino degli occhi. Questa combinazione genera un’esperienza soggettiva e complessa, ma soprattutto immediata.

C’è chi propone una visione più ortodossa, come Robin Dando, professore alla Cornell University, secondo cui il sapore sarebbe il prodotto dell’integrazione tra gusto e olfatto. Altri studiosi, come Qian Janice Wang dell’Università di Aarhus, suggeriscono che anche la vista e il suono – ad esempio il rumore della croccantezza – contribuiscano in modo determinante. Non c’è consenso, ed è forse questo uno degli aspetti più affascinanti del tema: il sapore è ancora un mistero scientifico.

Un’illusione ben costruita

Ma se il sapore non è localizzato in un organo specifico, dove si forma davvero? Gordon Shepherd, neurobiologo della Yale School of Medicine, ha coniato all’inizio degli anni 2000 il termine “neurogastronomia”, proprio per descrivere il ruolo fondamentale del cervello nella costruzione del sapore. La sua scoperta più rivoluzionaria è che il sapore non esiste nel cibo: come il colore è una percezione derivata dalla luce, così il sapore è una costruzione mentale a partire da segnali chimici.

Tra questi segnali, l’olfatto gioca un ruolo cruciale. La maggior parte delle percezioni che attribuiamo al sapore proviene in realtà dai recettori dell’epitelio olfattivo, la sottile membrana nel naso capace di rilevare molecole odorose. Quando mastichiamo, i composti aromatici si liberano nella bocca e, risalendo attraverso la faringe, raggiungono questi recettori: è il cosiddetto olfatto retronasale. In quel momento, il cervello integra queste informazioni con quelle gustative, creando l’illusione che il sapore nasca nella bocca.

Questo fenomeno è stato definito “illusione di cattura orale”: il cervello attribuisce alla cavità orale sensazioni che hanno origine altrove, come nel naso. L’obiettivo di questa illusione è evolutivo: permettere una valutazione rapida e complessa del cibo, distinguendo ciò che è commestibile da ciò che potrebbe essere tossico.

Sapore e memoria: un legame profondo

La funzione adattativa del sapore emerge in modo evidente nei meccanismi di apprendimento e memoria associati al cibo. Small cita un’esperienza personale: durante un evento festivo, da ragazza, bevve una bibita contenente un liquore al cocco che la fece stare male. Da allora, non è più riuscita a tollerarne il sapore. Tuttavia, non ha sviluppato un’avversione verso i cibi dolci in generale, ma solo verso quella specifica combinazione aromatica. È un classico esempio di “avversione condizionata al sapore”, un processo raffinato attraverso cui il cervello isola e memorizza segnali sensoriali potenzialmente dannosi.

Questo tipo di risposta, altamente selettiva, mostra come il sapore non sia solo una questione di percezione immediata, ma anche un’esperienza profondamente emotiva, legata alla memoria e al comportamento. Ciò che ci piace o ci disgusta non dipende solo dai recettori gustativi, ma da un’intera rete di associazioni e ricordi immagazzinati nel cervello.

I sensi come costruttori di realtà

Le illusioni sensoriali non si limitano al cibo. Guardando un film, ad esempio, percepiamo il suono come se provenisse dalla bocca degli attori, anche se in realtà arriva dagli altoparlanti. Il nostro cervello, per semplificare la realtà, “sincronizza” immagine e suono. Lo stesso accade con il sapore: diversi segnali, provenienti da recettori anche distanti pochi millimetri, vengono fusi in un’unica sensazione coerente.

Secondo Dana Small, è proprio questa capacità di sintesi – imperfetta ma estremamente efficiente – a permettere la costruzione di una percezione del mondo utile alla sopravvivenza. Il sapore, dunque, è una delle tante illusioni che ci aiutano a navigare la realtà, una rappresentazione semplificata ma funzionale di ciò che accade nel nostro corpo e nell’ambiente.

Un’esperienza sensoriale (e culturale)

Riconoscere che il sapore è un prodotto del cervello non ne sminuisce l’importanza. Anzi, aggiunge profondità a una delle esperienze più quotidiane della nostra vita. Mangiare non è solo nutrirsi, ma un atto sensoriale, cognitivo ed emotivo. Le nostre preferenze, le nostre avversioni, persino la nostra identità culturale sono racchiuse nella percezione di un boccone.

E se, come suggeriscono le neuroscienze, ogni sapore è il risultato di una raffinata illusione, allora ogni pasto diventa anche un atto creativo, una narrazione soggettiva che il cervello scrive, istante dopo istante, unendo i dati grezzi dei sensi in un racconto unico.

La fragola non è solo dolce: è la memoria di un’estate, la trama di un tessuto sensoriale, l’eco di un’illusione che – miracolosamente – ha il sapore della verità.


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