Il maestro della materia, che ha trasformato il bronzo in pensiero e spazio interiore

Il 22 giugno 2025, alla vigilia del suo novantanovesimo compleanno, si è spento nella sua casa di Milano Arnaldo Pomodoro. Con lui se ne va uno dei massimi interpreti della scultura contemporanea italiana, capace di unire la forza del gesto artigianale alla visione cosmica della materia. Nato nel 1926 a Morciano di Romagna, Pomodoro ha attraversato quasi un secolo di storia, restando sempre fedele a una poetica che coniuga rigore geometrico, memoria archetipica e tensione monumentale.

L’origine di uno stile: tra geometria e rottura

La sua firma è nota in tutto il mondo: sfere levigate, scolpite nel bronzo, che si aprono, si lacerano, si fratturano come gusci di un mondo interiore. L’apparenza perfetta della superficie cela un’anima complessa, fatta di ingranaggi, cavità, sporgenze e incastri. È il contrasto tra l’esterno armonico e l’interno spezzato a definire l’essenza della sua opera. Ogni scultura diventa un congegno della visione, un dispositivo che invita lo spettatore a esplorare, decifrare, entrare.

Pomodoro si forma inizialmente come geometra, ma già nei primi anni Cinquanta abbandona l’ambito tecnico per seguire la vocazione artistica. I suoi primi lavori sono monili in oro e argento, per poi passare a materiali più ruvidi e resistenti: ferro, cemento, legno. Sarà però il bronzo il materiale della maturità, quello che gli permetterà di fondere insieme micro e macro, gesto e architettura, resistenza e cesura.

Opere e ritratto di Arnaldo Pomodoro al lavoro – Immagine di Paolo Monti – Servizio fotografico – BEIC 6365653. Servizio fotografico: Italia, 1975 / Paolo Monti. – Buste: 12, Fototipi: 13 : Negativo b/n, gelatina bromuro d’argento/ pellicola ; 10×12. – ((Serie costituita da 13 negativi identificativi con i nn.: 503, 505, 557-559, 576-578, 581-583 e una busta senza numerazione su cui è manoscritto: “Riproduzione del 151 – Pannello”. La suddetta serie è contenuta nella scatola identificata con la numerazione G1676/1737. Sul coperchio della scatola manoscritto: “Zodiaco 1/1-77”

Milano, continuità e sperimentazione

Dal 1954 Pomodoro vive e lavora a Milano, in una casa-studio lungo la Darsena, vicino a Porta Ticinese. Nella capitale lombarda della cultura e del design trova il terreno fertile per sviluppare un linguaggio personale, soprattutto grazie all’incontro con il gruppo “Continuità”, dove dialoga con artisti come Lucio Fontana. La scultura per Pomodoro è uno spazio da aprire, non da riempire. Più che rappresentare la realtà, egli ne disseziona le tensioni: la sua è una ricerca sulle forme primarie — sfera, cubo, cono, parallelepipedo — che si incrinano, esplodono, si rigenerano in un ciclo continuo.

Il suo “spirito geometrico” non è mai sterile. Le sue forme, pur rigorosamente euclidee, si animano attraverso tagli netti e fenditure che rivelano un mondo interno, quasi un organismo tecnologico o una partitura musicale. La materia parla come un alfabeto cuneiforme, evocando una sacralità arcaica e una contemporaneità visionaria. In questa dialettica tra superficie e profondità si condensa la sua idea di arte come spazio simbolico e vitale.

Opere nel mondo, monumenti del tempo

L’arte di Arnaldo Pomodoro è presente nei più importanti musei, università e spazi pubblici del mondo. Dalla Sfera con sfera nel Cortile della Pigna dei Musei Vaticani alla monumentale scultura davanti al Palazzo dell’ONU a New York, dalle piazze di Pesaro e Rimini fino al Trinity College di Dublino, al Mills College in California e alla basilica di San Pio a San Giovanni Rotondo. Sono segni disseminati nel paesaggio urbano e spirituale, interruzioni lucide e organiche nel fluire del tempo.

Tra le sue opere più significative spicca la Colonna del viaggiatore, realizzata nel 1962 per la celebre mostra Sculture in città curata da Giovanni Carandente a Spoleto. Fu la prima prova di grande scala, preludio a una produzione monumentale che non avrebbe più conosciuto sosta.

Negli anni Novanta, Pomodoro firma lavori carichi di significato storico e politico. Il Disco Solare (1991) viene donato all’Unione Sovietica in pieno clima di disgelo; l’anno dopo, Papyrus viene collocato a Darmstadt nei giardini delle poste tedesche. Nel 1993 realizza una fontana-scultura per il Centro Biotecnologie Avanzate di Genova, mentre nel 1995 dedica un’opera a Federico Fellini, su commissione del comune di Rimini. Sempre nello stesso anno dà vita alla Lancia di Luce, obelisco installato a Terni in omaggio alla storia industriale e siderurgica della città.

Tra memoria e formazione

Pomodoro non è stato solo artista, ma anche formatore e promotore culturale. Ha insegnato in università statunitensi come Stanford, Berkeley, la California University e il Mills College. Nel 1990 fonda il Centro TAM (Trattamento Artistico dei Metalli) a Pietrarubbia, piccolo borgo del Montefeltro dove aveva trascorso l’infanzia. Il centro, realizzato in collaborazione con il Comune, è un laboratorio di formazione per giovani artisti, e testimonia il suo impegno nel trasmettere l’arte come sapere tecnico e ricerca interiore.

Significativa è anche la donazione che tra il 1977 e il 1991 compie allo CSAC di Parma (Centro Studi e Archivio della Comunicazione), con 33 sculture, 47 opere su carta e 23 gioielli e medaglie, oggi consultabili e visibili negli spazi dell’Università.

L’artista come demiurgo

L’originalità di Pomodoro non risiede soltanto nella forma, ma nella sua concezione della scultura come linguaggio universale, capace di oltrepassare le apparenze e scavare nella realtà. Le sue superfici tagliate e ricucite parlano una lingua che richiama l’ingegno dei primi artigiani, il rigore dei matematici, l’intuizione dei poeti. In questo, la sua opera si fa anche gesto filosofico: come un demiurgo platonico, Pomodoro plasma un mondo non per copiarlo, ma per rigenerarlo.

Nei suoi lavori più maturi, l’equilibrio tra l’esterno lucente e l’interno nascosto diventa metafora del nostro tempo: dietro le superfici levigate del progresso si cela un’architettura fragile e intricata. In ogni sua scultura, la forma geometrica diventa guscio e scrigno, trappola e rifugio, macchina e reliquiario. È un viaggio nello spazio della forma, ma anche nella memoria collettiva, dove si stratificano civiltà, simboli, mitologie.

L’eredità di una visione

Con la scomparsa di Arnaldo Pomodoro si chiude un lungo capitolo dell’arte italiana del secondo Novecento. Ma il suo linguaggio resta vivo, scolpito non solo nei bronzi disseminati nel mondo, ma nel modo stesso in cui pensiamo la materia, lo spazio e la memoria. Le sue opere non si limitano a occupare un luogo: lo trasformano, lo interrogano, lo aprono a nuove possibilità percettive.

Arnaldo Pomodoro ha fatto della scultura un territorio mentale, un campo di tensioni che abbraccia la storia e l’ignoto. Nel solco delle sue geometrie spezzate, continua a vibrare il suono sommerso di una libertà creativa che non si è mai piegata all’inerzia dell’ovvio.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

All’Institut du Monde Arabe una mostra per rileggere la regina d’Egitto

Parlare di Cleopatra significa evocare una delle figure più affascinanti e controverse della storia. L’ultima regina d’Egitto, sovrana della dinastia tolemaica e protagonista di una vicenda che intreccia politica, passione e tragedia, è da secoli al centro di una narrazione che mescola realtà e leggenda, archeologia e propaganda, arte e consumo. All’Institut du Monde Arabe di Parigi, la grande mostra Le Mystère Cléopâtre, in programma dall’11 giugno 2025 all’11 gennaio 2026, si propone di restituire complessità e profondità a un personaggio spesso ridotto a stereotipo. Un viaggio tra storia e immaginario, alla scoperta della sovrana e del mito che ha generato.

Cleopatra: una figura costruita nel tempo

L’esposizione, articolata e scenograficamente ricca, si confronta con un interrogativo cruciale: che cosa sappiamo davvero di Cleopatra? E, soprattutto, perché la sua immagine continua a esercitare un simile potere sull’immaginario collettivo?

Per molti, Cleopatra è prima di tutto un’icona pop: il volto di Elizabeth Taylor nel kolossal di Mankiewicz del 1963, la diva orientale dai lineamenti perfetti, la seduttrice tragica che muore per amore con un serpente al seno. Ma appena varcata la soglia della mostra parigina, diventa evidente come questa rappresentazione sia soltanto una delle tante stratificazioni simboliche che si sono accumulate nei secoli.

Attraverso oltre duecento opere provenienti da grandi istituzioni internazionali — dal Louvre alla Biblioteca Nazionale di Francia, dalla Reggia di Versailles a musei in Italia, Spagna, Stati Uniti e Svizzera — Il mistero di Cleopatra racconta come la figura della regina sia stata costruita, distorta, riscritta e infine trasformata in un mito globale.

Jean André Rixens (1846-1925),  La morte di Cleopatra, 1874. Olio su tela, 200×290 cm.
© Municipio di Tolosa, Museo degli Agostiniani. Foto Daniel Martin

Dalla storia alla leggenda

La prima sezione della mostra è dedicata alla documentazione storica e archeologica. Grazie a rari reperti originali — tra cui monete coniate sotto il suo regno e papiri con firme attribuite alla sovrana — è possibile risalire all’identità storica di Cleopatra VII Filopatore. Ultima esponente della dinastia macedone fondata da Tolomeo I, successore di Alessandro Magno, Cleopatra nacque nel 69 a.C. e governò l’Egitto per circa vent’anni, in un periodo segnato dalla progressiva ingerenza di Roma negli affari del Mediterraneo orientale.

La mostra ricostruisce con rigore il contesto politico, economico e religioso in cui visse. Alessandria, sua capitale, era all’epoca un fiorente crocevia di culture, sapere e commerci. A dispetto della sua immagine romanzata, Cleopatra fu una regnante di grande abilità: adottò riforme amministrative e monetarie, cercò di mantenere l’autonomia egiziana con una raffinata politica diplomatica e fu tra le pochissime sovrane della storia antica a esercitare un potere effettivo, non meramente simbolico.

La sua alleanza con Giulio Cesare prima e con Marco Antonio poi, culminata nella sconfitta navale di Azio (31 a.C.) e nel celebre suicidio, pose fine all’indipendenza dell’Egitto e segnò l’ascesa definitiva di Ottaviano, futuro Augusto, come unico padrone di Roma. Ma fu proprio da quel momento che cominciò a consolidarsi il mito.

Cleopatra, Alexandre Cabanel, 1887, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Antwerpen

La costruzione di un’immagine

Nella propaganda augustea, Cleopatra venne descritta come una minaccia esotica e perversa, simbolo di decadenza e lussuria orientale. I testi latini dell’epoca — da Orazio a Plutarco, da Virgilio a Dion Cassio — contribuirono a costruire il ritratto di una “straniera” seduttrice, manipolatrice, potenzialmente sovversiva per l’ordine patriarcale e imperiale di Roma. Una narrazione misogina e riduttiva che avrebbe esercitato una lunga influenza sulla storiografia occidentale.

In contrasto, gli autori arabi medievali la considerarono una regina colta e illuminata, capace di coniugare autorità politica e saggezza intellettuale. Ma è soprattutto attraverso l’arte figurativa che il personaggio si è moltiplicato in innumerevoli versioni: miniature medievali, pittura rinascimentale, scultura barocca, letteratura teatrale e operistica, illustrazione ottocentesca.

Ogni epoca ha proiettato sulla sovrana le proprie ossessioni: Cleopatra è stata l’Eva tentatrice, la regina lasciva, l’eroina tragica, la femme fatale o la martire politica. Dalla penna di Shakespeare al pennello di Guido Reni, dalla scena del teatro di Victorien Sardou alla voce della Callas, l’“Egiziana” ha assunto le forme più diverse, ma sempre subordinate a un’idea di seduzione tanto potente quanto ambigua.

Nazanin Pouyandeh, La morte di Cleopatra, olio su tela, 2022.
Collezione privata. © Gregory Copitet

Il cinema e la massificazione del mito

Un punto di svolta nella rappresentazione di Cleopatra si verifica con l’avvento del cinema. A partire dagli anni Dieci del Novecento, il grande schermo la trasforma in un simbolo glamour: la Cleopatra interpretata da Theda Bara (1917), con il suo trucco marcato e le pose da vamp, inaugura una lunga serie di regine reinventate dalla cultura visiva.

Negli anni Sessanta, il colossal hollywoodiano con Elizabeth Taylor impone un’icona definitiva: abiti sontuosi, eyeliner grafici, scenografie opulente e un’aura da diva. Da quel momento, la regina d’Egitto entra a pieno titolo nella cultura popolare di massa, riprodotta all’infinito su oggetti di consumo, pubblicità, travestimenti di Carnevale, serie televisive e merchandising. La sua immagine diventa un marchio: Cleopatra come musa del glamour, testimonial involontaria dell’industria della bellezza, reginetta di moda.

In questa trasformazione, il mito ha finito per oscurare la figura storica, generando un’immensa confusione culturale. La sovrana reale, con il suo ruolo politico e la sua dimensione pubblica, scompare dietro l’ombra spettacolare dell’eroina tragica.

L’icona contemporanea: politica, identità e riscatto

Tuttavia, negli ultimi decenni, la figura di Cleopatra è stata oggetto di una profonda revisione. A partire dalla fine del XIX secolo, movimenti politici, nazionali e femministi hanno cominciato a riappropriarsi della sua immagine. In Egitto, è divenuta un simbolo di orgoglio e resistenza anticoloniale. Negli Stati Uniti, è stata rivendicata come figura di riferimento dalla comunità afroamericana, che sottolinea le sue origini africane e il suo ruolo di donna di potere in un mondo dominato da uomini.

Oggi, Cleopatra è anche un’icona femminista: una donna capace di imporsi in un contesto ostile, di parlare più lingue, di governare con determinazione, di scegliere la propria morte piuttosto che subire la sconfitta. Il mito, pur nella sua ambiguità, continua a offrire una chiave per ripensare il rapporto tra genere, potere e rappresentazione.

Un’esposizione per decostruire il mito

La mostra dell’Institut du Monde Arabe non si limita a presentare Cleopatra come figura storica o soggetto artistico, ma affronta con lucidità il modo in cui è stata narrata, manipolata e consumata. Lo fa intrecciando archeologia, storia dell’arte, studi culturali e pratiche espositive contemporanee, in un percorso che va dalla numismatica ai costumi cinematografici, dalle stampe del Rinascimento alle fotografie pubblicitarie.

Più che ricostruire un’immagine autentica — probabilmente impossibile — il percorso suggerisce una lettura critica del mito: Cleopatra come specchio mobile dei desideri, delle paure e delle fantasie di chi la guarda. Un simbolo in continua mutazione, in cui si riflettono le tensioni di ogni epoca.

In un momento storico in cui il dibattito sul passato si intreccia sempre più con le dinamiche del presente, questa mostra si impone come un invito a distinguere tra leggenda e verità, tra immagine e potere. Perché forse, il vero “mistero di Cleopatra”, non è tanto chi sia stata, quanto perché continuiamo ad averne bisogno.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

I muckrakers alle origini del giornalismo d’inchiesta

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, un’ondata di scrittori, fotografi e giornalisti americani cominciò a rivolgere uno sguardo impietoso verso le contraddizioni del proprio tempo. Il loro obiettivo era chiaro: rivelare il volto nascosto del progresso, quello fatto di miseria urbana, corruzione politica, sfruttamento lavorativo e abusi istituzionali. Nasceva così il giornalismo d’inchiesta moderno, e con esso una nuova figura professionale e culturale: il muckraker.

Il termine, coniato in senso sprezzante da Theodore Roosevelt nel 1906, indicava “chi rastrella il fango”, evocando un passo del poema allegorico Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan. Nella parabola, un uomo rifiuta la salvezza divina perché troppo impegnato a rivoltare il letame. Per Roosevelt, i muckrakers erano uomini capaci di scoperchiare le brutture del sistema, ma spesso ciechi di fronte a prospettive più alte. Eppure, proprio questi “rastrellatori di fango” diedero avvio a una delle stagioni più feconde del giornalismo americano, influenzando l’opinione pubblica, la politica e perfino l’assetto legislativo del Paese.

Una città sull’orlo dell’abisso

Il cuore di questo movimento fu New York, emblema della modernità industriale e delle sue contraddizioni. A cavallo tra i due secoli, la metropoli americana era teatro di un’espansione urbana tumultuosa e disordinata, dove convivevano la ricchezza dei grandi magnati e la miseria delle masse immigrate. Era un mondo diviso in due, come raccontava già nel 1890 How the Other Half Lives del fotografo danese Jacob Riis, una delle prime opere a documentare, con parole e immagini, le condizioni disumane nei tenements, gli alloggi sovraffollati del Lower East Side.

Riis, con la sua macchina fotografica e una penna indignata, accese i riflettori sulla “metà invisibile” della città: bambini affamati, famiglie stipate in stanze senza luce, operai distrutti dal lavoro. Il suo libro fu una denuncia senza sconti e segnò un punto di svolta: non si poteva più ignorare la miseria che viveva accanto all’opulenza.

McClure’s (copertina, gennaio 1901)
pubblicò molti dei primi articoli scandalistici.

L’era progressista e la nascita del giornalismo investigativo

Il contesto in cui i muckrakers si affermarono fu l’età progressista americana, un periodo compreso tra il 1890 e il 1920 segnato da profondi fermenti sociali e riformisti. Fu in quegli anni che prese forma una nuova concezione del giornalismo, fondata non più soltanto sulla cronaca o sul sensazionalismo, ma sull’indagine documentata dei fatti e sulla denuncia degli abusi.

Riviste come McClure’s Magazine, Collier’s Weekly, Everybody’s Magazine o American Magazine divennero laboratori di inchieste meticolose e approfondite. I loro redattori, come Samuel S. McClure, investirono risorse e tempo nella ricerca della verità, affidandosi a reporter brillanti e politicamente impegnati. Nel numero di gennaio 1903 di McClure’s, considerato da molti il manifesto inaugurale del muckraking, comparvero contemporaneamente tre firme destinate a diventare leggendarie: Ida M. Tarbell, Lincoln Steffens e Ray Stannard Baker.

Tarbell pubblicò la monumentale History of the Standard Oil Company, un’inchiesta in dieci puntate che smascherava le pratiche monopolistiche e predatorie dell’impero fondato da John D. Rockefeller. Steffens firmò The Shame of the Cities, un’indagine sulle collusioni tra politici e criminalità nelle amministrazioni urbane. Baker denunciò le discriminazioni razziali e le disuguaglianze nel diritto al lavoro.

Scrivere per cambiare la società

A differenza del giornalismo scandalistico dell’Ottocento, dominato da titoli sensazionali e cronaca nera al servizio della vendita di copie, il muckraking si presentava come un’azione consapevole di riforma. I muckrakers volevano informare, ma soprattutto provocare una reazione. Il loro fine non era l’audience, ma il cambiamento.

Tra le opere più influenti del periodo spicca The Jungle di Upton Sinclair (1906), romanzo-inchiesta che raccontava le condizioni brutali degli operai nei mattatoi di Chicago. L’impatto fu dirompente: più che la denuncia dello sfruttamento umano, colpì l’opinione pubblica l’immagine della carne contaminata servita sulle tavole americane. L’indignazione portò all’approvazione, nello stesso anno, del Pure Food and Drug Act e del Meat Inspection Act. Sinclair stesso commentò amaramente: «Miravo al cuore del pubblico e ho colpito lo stomaco».

Altri testi emblematici furono The Greatest Trust in the World e The Uprising of the Many di Charles Edward Russell, Treason of the Senate di David Graham Phillips e Tweed Days in St. Louis di Lincoln Steffens, il primo vero articolo “muckraker”, che nel 1902 smascherò il sistema di corruzione diffuso nella politica urbana americana.

Tecniche nuove, storie vere

Se il contenuto era rivoluzionario, lo erano anche i mezzi. L’uso della fotografia come prova, la struttura narrativa del reportage, la tecnica dell’inchiesta sotto copertura: tutto contribuiva a rafforzare l’impatto dei racconti. Pionieri come Julius Chambers si finsero pazienti per denunciare gli abusi nei manicomi (caso Bloomingdale Asylum, 1872), mentre Nellie Bly trascorse dieci giorni internata al Bellevue Mental Hospital per testimoniare le condizioni inumane dei ricoverati. I loro articoli portarono a riforme immediate, al rilascio di innocenti e a una maggiore regolamentazione delle strutture psichiatriche.

La diffusione di queste storie fu favorita da un mercato editoriale in rapida crescita. La classe media americana, sempre più alfabetizzata e sensibile ai temi sociali, era un pubblico ideale per questo nuovo giornalismo. Le tirature delle riviste aumentarono, gli editori investirono, gli autori divennero celebrità. Eppure, proprio in questo successo si celava anche un rischio: quello di scivolare nel moralismo o nel populismo.

Il contraccolpo e l’eredità

La reazione non si fece attendere. Roosevelt, pur riconoscendo il ruolo cruciale dei muckrakers, li accusò di eccedere nella denuncia e di ignorare i progressi della nazione. Il giornalismo divenne un campo di battaglia ideologico tra chi lo voleva militante e chi lo pretendeva oggettivo. Fu proprio in questo periodo che The New York Times, sotto la guida di Adolph Ochs, cominciò a promuovere uno stile sobrio, imparziale e “di riferimento”, prendendo le distanze dal giornalismo emozionale.

Ma la stagione dei muckrakers aveva lasciato un segno profondo. Aveva imposto nuovi standard professionali, introdotto il concetto di responsabilità sociale del giornalismo e dimostrato che la parola stampata poteva cambiare la realtà. Il giornalismo d’inchiesta, da allora, sarebbe rimasto una delle voci più autorevoli e temute della democrazia americana.

Dalla carta stampata al mondo contemporaneo

Oggi, il termine muckraker è usato più raramente, ma la sua eredità sopravvive nei grandi reportage, nei documentari d’inchiesta, nelle investigazioni giornalistiche che portano alla luce scandali ambientali, economici e politici. In un’epoca dominata dalle fake news e dalla frammentazione informativa, l’esempio di quei pionieri resta più attuale che mai.

Jacob Riis, Ida Tarbell, Lincoln Steffens, Nellie Bly e Upton Sinclair non solo raccontarono il loro tempo: lo trasformarono. Con coraggio, metodo e ostinazione, riscrissero la funzione del giornalismo moderno. Non furono solo osservatori, ma attori della storia. In un’epoca in cui la libertà di stampa continua a essere minacciata in molte parti del mondo, ricordare la loro lezione è più che un dovere: è una necessità.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Scienza, storia e miti del giorno più lungo dell’anno

Una volta all’anno, la danza millenaria tra Terra e Sole raggiunge uno dei suoi momenti più significativi: il solstizio d’estate. Più che un evento astronomico, si tratta di una soglia simbolica tra stagioni, culture e civiltà. È il giorno in cui il Sole, nel suo arco celeste, tocca il punto più alto nel cielo dell’emisfero nord, regalando il massimo di ore di luce. Il 20 giugno 2025, alle 22:42 EST, questo istante ha segnato ufficialmente il passaggio all’estate boreale. Nell’altro emisfero, invece, ha coinciso con l’inizio dell’inverno.

Ma dietro questa semplice annotazione di calendario si cela un intreccio di scienza e cultura che attraversa i secoli e le latitudini.

L’inclinazione della Terra e la geometria delle stagioni

La causa principale dei solstizi risiede in un dato apparentemente innocuo: l’asse terrestre non è perpendicolare all’orbita che la Terra compie attorno al Sole, ma inclinato di circa 23,4 gradi. Questa inclinazione determina la distribuzione della luce solare durante l’anno. Da marzo a settembre, l’emisfero settentrionale è più esposto alla radiazione solare diretta, mentre da settembre a marzo tocca a quello meridionale. In prossimità dei solstizi, l’inclinazione raggiunge i suoi estremi: uno dei due emisferi riceve il massimo della luce diurna (il giorno più lungo), l’altro la minima (la notte più lunga).

Durante il solstizio d’estate boreale, il Sole appare allo zenit, ovvero esattamente sopra la testa, soltanto lungo il Tropico del Cancro (23,5° di latitudine nord). Al contrario, nel solstizio invernale, lo stesso accade sul Tropico del Capricorno (23,5° sud). Queste coordinate celesti rappresentano i limiti entro cui il Sole può comparire allo zenit nel corso dell’anno.

Solstizi su altri pianeti

Il fenomeno dei solstizi non è esclusivo della Terra. Ogni pianeta con un asse inclinato sperimenta qualcosa di simile. Tuttavia, le stagioni extraterrestri possono essere molto diverse, per durata ed effetto. Venere, ad esempio, ha un’inclinazione assiale minima, appena tre gradi: ciò riduce quasi del tutto la variabilità stagionale. Marte, invece, con la sua orbita più ellittica, subisce escursioni stagionali notevoli, in parte dovute alla sua distanza variabile dal Sole.

Nel caso della Terra, l’inclinazione ha un peso maggiore rispetto all’orbita, che è quasi circolare. Curiosamente, il nostro pianeta è più vicino al Sole in gennaio (perielio) e più lontano in luglio (afelio), ma questo ha un impatto minimo sul clima rispetto all’inclinazione.

La lunga storia dei solstizi

Molto prima che la scienza spiegasse il meccanismo dei solstizi, l’umanità li osservava con attenzione quasi religiosa. In diverse culture, questi momenti celesti segnavano passaggi fondamentali dell’anno agricolo o spirituale.

In Inghilterra, il misterioso complesso megalitico di Stonehenge, costruito oltre 5.000 anni fa, è allineato in modo tale che il Sole nascente del solstizio d’estate appaia in asse con la cosiddetta “Heel Stone”. Il significato esatto resta oggetto di studio, ma l’intenzione di celebrare o osservare questo fenomeno è chiara.

Anche le piramidi egizie sembrano avere un legame con il ciclo solare. Osservando il tramonto del solstizio d’estate dalla Sfinge, il Sole scende tra le piramidi di Cheope e Chefren. Non è ancora chiaro se tale allineamento sia intenzionale, ma l’effetto è impressionante.

Le celebrazioni del solstizio d’estate sono tuttora vive in molte regioni del mondo. In Scandinavia, la festa di Mezzestate è un inno alla luce e alla natura, con danze intorno al palo di maggio, pasti collettivi e canti tradizionali. Nei paesi slavi, la notte di Ivan Kupala prevede rituali con fiori e falò, e i più audaci si cimentano in salti propiziatori sopra il fuoco. A Fairbanks, in Alaska, dove d’estate la luce dura quasi 23 ore, si gioca ogni anno, dal 1906, una partita di baseball a mezzanotte: il “Midnight Sun Game”.

Nell’emisfero sud, invece, è il solstizio d’inverno a essere celebrato, spesso con pari intensità. Gli Inca, il 24 giugno, onoravano Inti, dio del Sole, con la festa di Inti Raymi, che segnava anche il loro Capodanno. A Cusco, dal 1944, la cerimonia viene rievocata con una grande rappresentazione teatrale. I Romani, invece, rendevano omaggio al solstizio d’inverno con i Saturnalia, una festività caratterizzata da banchetti, scambi di doni e sospensione temporanea delle gerarchie sociali. In Iran, la festa di Yalda — legata all’antica religione zoroastriana — celebra la nascita della luce, impersonata da Mitra, con letture poetiche e frutti rossi come simbolo del sole.

Luoghi comuni e verità scientifiche

Nonostante il fascino dei solstizi, molte idee sbagliate circolano ancora. Una delle più comuni riguarda la temperatura: ci si aspetterebbe che il giorno più lungo dell’anno coincida anche con il più caldo, ma non è così. Il motivo è semplice: la Terra impiega tempo a riscaldarsi e raffreddarsi. Per questo, le ondate di calore negli Stati Uniti raggiungono il picco in luglio o agosto, ben dopo il solstizio. Analogamente, le giornate più fredde dell’inverno arrivano in genere a fine gennaio, un mese dopo il solstizio invernale.

Un altro malinteso riguarda la durata del giorno: si pensa che, poiché la rotazione terrestre rallenta gradualmente, ogni nuovo solstizio stabilisca un record. In realtà, il rallentamento è troppo lieve per produrre effetti percepibili nel breve termine. Studi sui coralli fossili mostrano che 400 milioni di anni fa i giorni duravano meno di 22 ore, ma il cambiamento annuo oggi è misurabile solo in millisecondi.

Curiosamente, il giorno più lungo registrato dal XIX secolo si sarebbe verificato nel 1912, superando la durata media di appena quattro millisecondi. La rotazione terrestre può variare leggermente anche per effetto di fenomeni temporanei, come El Niño o lo scioglimento dei ghiacci polari, che alterano la distribuzione della massa sul pianeta.

Tra cielo e cultura

Il solstizio d’estate non è soltanto un fenomeno astronomico, ma anche un archetipo culturale che continua a ispirare riti, credenze e manifestazioni collettive. È il momento in cui la luce trionfa, in cui il Sole sembra fermarsi e l’umanità, antica e moderna, si concede una pausa per osservarlo. Dall’antico Egitto all’Alaska contemporanea, il 21 giugno continua a ricordarci che siamo parte di un ingranaggio cosmico più grande — un equilibrio precario tra inclinazione, orbita e luce, che scandisce il tempo, le stagioni e i nostri riti più profondi.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Nel romanzo, la trama è tornata centrale per difendere la narrazione

Una storia si può raccontare in mille modi

Per decenni la “trama” è stata considerata con sospetto nei circoli letterari più esigenti. Associata a un’idea di letteratura popolare e accessibile, ha finito per incarnare tutto ciò che certa critica ha voluto escludere: l’emozione, il coinvolgimento, il piacere della lettura. Eppure, proprio questo atteggiamento, che ha radici nelle sperimentazioni avanguardistiche del secondo Novecento, oggi appare datato. Anzi, paradossalmente, è diventato il vero oggetto di una critica che ne denuncia il vuoto culturale. Perché la trama, nel romanzo, è tornata centrale. E non come concessione commerciale, ma come necessità espressiva.

La letteratura ha conosciuto una lunga stagione in cui il racconto lineare è stato messo in discussione, se non addirittura liquidato. Dalla Nouvelle Vague editoriale al cosiddetto “antinovel”, il Novecento ha visto una profonda sperimentazione narrativa: scomposizione del tempo, uso del monologo interiore, rifiuto della psicologia borghese, frammentazione e ibridazione dei generi. Ma questo processo non è iniziato nel Novecento. Già tra Settecento e Ottocento il romanzo, divenuto il genere dominante della modernità, ha conosciuto una straordinaria varietà di forme: dal romanzo epistolare alla saga familiare, dal romanzo storico a quello d’avventura. Il denominatore comune, però, restava la volontà di raccontare: qualcosa, qualcuno, in un tempo e in un luogo riconoscibili.

Il Libraio – Saghe familiari per viaggiare nel tempo e nello spazio

Nel corso dell’Ottocento, da Balzac a Tolstoj, da Flaubert a Dickens, la narrativa si fondava su una struttura forte: intreccio, personaggi memorabili, tensione tra attese e risoluzioni. La modernità letteraria, però, ha presto preso un’altra strada. Con l’esplosione delle avanguardie storiche, la trama ha cominciato a pesare come una colpa. Il Gruppo 63, in Italia, portava avanti una battaglia programmatica contro il “romanzo tradizionale”, accusato di essere reazionario. La narrativa di massa, liquidata come “lialesca”, veniva messa all’indice in favore di scritture sperimentali, spesso ermetiche, intenzionalmente ostiche.

A farne le spese fu anche Elsa Morante, che con La Storia (1974) tentò un ritorno consapevole a un grande romanzo popolare, epico, carico di emozioni. La critica, soprattutto quella ideologicamente orientata, fu feroce. A Morante venne rimproverato di indulgere nel pathos, di “commuovere”, perfino di non voler parlare davvero di storia, preferendo un’umanità miserabile e poetica a una visione strutturale delle lotte di classe. Eppure, con il senno di poi, proprio quel romanzo ha rappresentato un rinnovamento. Non un ritorno all’indietro, ma un gesto radicale: quello di ridare al lettore una narrazione ampia, stratificata, partecipata.

Oggi quella diffidenza nei confronti della trama mostra tutte le sue crepe. L’identificazione tra letteratura alta e racconto destrutturato non regge più. I lettori contemporanei si muovono liberamente tra Joyce e Stephen King, tra Maggie Nelson e Joël Dicker, dimostrando che la dicotomia tra cultura alta e bassa non ha più presa. Come ha osservato Roberto Cotroneo, le avanguardie sono un momento storico, non una norma universale. E, va detto, nemmeno Joyce si è mai pensato come autore di “avanguardia”.

La rinascita della trama si lega anche alla capacità della narrativa – sia essa letteraria, cinematografica o seriale – di veicolare significati complessi attraverso forme apparentemente semplici. Lo dimostra, per esempio, la serie “Midnight Mass” di Mike Flanagan, che parte da un impianto narrativo gotico e lo trasforma in una riflessione profonda sulla comunità, sulla fede, sulla morte. Una storia di vampiri che diventa romanzo dialogico, costruito non sull’azione, ma sulla parola. E che riesce a emozionare senza banalizzare.

È questo, forse, il punto centrale: la trama non è in sé un limite, lo diventa solo quando viene trattata con superficialità. Come la lingua, il ritmo, l’uso della voce narrante, anche la costruzione di una storia può essere raffinata, sfaccettata, innovativa. I romanzi con una forte architettura narrativa non sono, per questo, meno letterari. Anzi, spesso riescono a raggiungere un pubblico più ampio proprio perché la loro forma non è ostile.

D’altra parte, la storia del romanzo è fatta di continue ridefinizioni. Il Don Chisciotte di Cervantes, considerato il primo grande romanzo moderno, nasceva già come parodia di un genere letterario: il romanzo cavalleresco. Ma in quel gioco di specchi si innestava qualcosa di nuovo, una visione del mondo moderna, individualista, critica. Nei secoli successivi, il romanzo ha continuato a raccontare la complessità dell’esistenza attraverso una pluralità di forme: la confessione epistolare di “Pamela”, la coralità dei Buddenbrook, la distopia di Orwell, il flusso di coscienza di Woolf, il labirinto borgesiano di Eco. Sempre, però, con una struttura narrativa che faceva da spina dorsale.

Nel secondo Novecento, e ancor più oggi, la trama è tornata ad essere anche uno strumento politico. Raccontare storie significa dare voce, restituire esperienza, costruire empatia. Significa riappropriarsi del diritto di sentire, di partecipare. La condanna della trama, come osservano molti autori contemporanei, è spesso una condanna implicita di ciò che è popolare, accessibile, condiviso. Ma la cultura non è (e non dovrebbe essere) un campo di esclusione.

In un tempo dominato da narrazioni semplificate, fake news, storytelling manipolatorio, il romanzo che sa raccontare bene è un baluardo di complessità. La “trama” non è l’opposto della letteratura, è un suo ingrediente necessario. Il suo ritorno, oggi, non è una nostalgia del passato, ma una nuova affermazione di vitalità narrativa. Dopotutto, chi scrive cerca sempre di rispondere a una domanda fondamentale. E forse, come suggeriva Douglas Adams, la risposta è ancora “42”. Oppure, semplicemente, “c’era una volta”.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

L’umanista che ha insegnato al mondo a non distogliere lo sguardo

Tra denuncia e speranza, il fotografo brasiliano scomparso nel 2025 ha trasformato la macchina fotografica in uno strumento di militanza visiva. Testimone dei drammi dell’umanità, ha restituito dignità alle sue ferite e bellezza alle sue sopravvivenze.


Quando Sebastião Salgado affermava di «sentire il bisogno di essere parte di ciò che stava fotografando», non parlava solo del proprio metodo di lavoro. Descriveva, in realtà, una vocazione totalizzante, quasi sacrale, a cui ha consacrato l’intera esistenza. Nato ad Aimorés, nello Stato brasiliano del Minas Gerais, nel 1944, ed entrato in contatto con la fotografia solo dopo una prima formazione da economista, Salgado ha attraversato decenni di conflitti, migrazioni e collassi ecologici con uno sguardo che non si è mai limitato a registrare, ma che ha sempre voluto comprendere, farsi carne del mondo che documentava.

Scomparso il 23 maggio 2025 a Parigi, la città dove aveva scelto di vivere, Salgado lascia un’eredità che va ben oltre l’opera fotografica. Le sue immagini – dense, severe, ma anche capaci di una bellezza primordiale – raccontano l’umanità nei suoi estremi: la crudeltà e la grazia, la devastazione e la resilienza. E lo fanno con una cifra stilistica inconfondibile: il bianco e nero non come scelta estetica, ma come necessità etica. «Il colore distrae», diceva. Nella dicotomia fra luce e ombra, Salgado trovava la verità.

L’economista diventato testimone

Il percorso che lo ha condotto alla fotografia è già di per sé singolare. Laureato in economia e statistica, Salgado approda al fotogiornalismo dopo una missione in Africa come consulente della Banca Mondiale. Ma le cifre non gli bastano: è l’esperienza concreta dei luoghi e delle persone che lo spinge a impugnare per la prima volta una macchina fotografica. Il reportage sulla siccità del Sahel, realizzato nel 1973, è la sua prima grande inchiesta visiva, seguita da un’indagine sulle condizioni dei migranti in Europa.

Inizia così una carriera che lo porterà, negli anni successivi, a entrare in alcune tra le più importanti agenzie fotografiche del mondo. Prima Sygma, poi Gamma e infine, nel 1979, la leggendaria cooperativa Magnum Photos, simbolo della fotografia d’autore e del reportage di impianto umanistico. Salgado ne esce nel 1994 per fondare, insieme alla moglie e collaboratrice Lélia Wanick Salgado, la propria agenzia indipendente: Amazonas Images, interamente dedicata alla produzione e alla diffusione del suo lavoro.

Un atlante della condizione umana

I progetti di Salgado non si sono mai limitati al gesto dello scatto. Erano vere e proprie esplorazioni tematiche, sviluppate lungo archi temporali estesi, con uno scrupolo da antropologo e la radicalità di un attivista. Per sei anni viaggia attraverso l’America Latina per documentare le condizioni dei contadini e delle popolazioni indigene. Il risultato è Other Americas, pubblicazione densa e potente, seguita da un’opera ancor più ambiziosa: La mano dell’uomo (1993), un monumentale reportage sul lavoro nei settori produttivi di base, che ha fatto il giro dei più importanti musei del mondo.

Nel decennio successivo, Salgado concentra il suo sguardo sulle migrazioni umane. Ne racconta le cause e gli effetti, la sofferenza e l’ostinazione a vivere, nei volumi In cammino e Ritratti di bambini in cammino. Le immagini che scaturiscono da questi anni sono un pugno nello stomaco: masse in fuga, volti scavati dalla fame, mani tese, piedi nudi che calpestano terre ostili. «Ho visto cose che un uomo non dovrebbe mai vedere», dirà anni dopo nel documentario Il sale della terra, diretto da Wim Wenders insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado.

Il film, candidato all’Oscar nel 2015, è una testimonianza struggente della sua visione. Salgado non guarda mai dall’alto. Si immerge, si sporca, diventa parte di ciò che fotografa. Il suo è un viaggio senza retorica nell’umanità dolente, condotto con la pietas di chi sa che ogni vita merita di essere raccontata, ma anche con la rabbia di chi non accetta l’ingiustizia come destino.

Dal disincanto alla rinascita

Eppure, nemmeno un testimone come Salgado è rimasto indenne alla brutalità che ha osservato. Il punto di rottura arriva dopo il genocidio in Ruanda. Sconvolto da ciò che ha visto, smette di fotografare. Torna nella fattoria di famiglia nel Minas Gerais e trova la terra secca, disboscata, irriconoscibile. È il momento di un nuovo inizio: insieme a Lélia decide di riforestare quell’area devastata. Nasce così l’Instituto Terra, un progetto di riforestazione che nel tempo porterà alla piantumazione di milioni di alberi e alla rinascita di un intero ecosistema.

Da quel gesto germoglierà anche la sua opera forse più visionaria: Genesis. È l’altra faccia della medaglia, il controcanto necessario alle sue precedenti testimonianze. Dopo aver raccontato il collasso, Salgado cerca la purezza, l’origine, l’intatto. Viaggia nelle zone meno contaminate del pianeta: le Galápagos, l’Antartide, le foreste dell’Amazzonia, le tribù isolate, gli animali selvatici. È un inno all’Eden, un promemoria visivo che qualcosa di incontaminato ancora esiste, e che vale la pena salvarlo.

Fotografia come scelta morale

Tutta l’opera di Salgado è pervasa da una coerenza rara. Il suo bianco e nero, incisivo e drammatico, non è mai un artificio. È la rappresentazione di una visione del mondo dove l’ombra e la luce non sono semplici valori tonali, ma categorie morali. Fotografare non significa solo osservare: è un atto di partecipazione, di militanza, di assunzione di responsabilità. In questo senso, Salgado è stato molto più di un fotografo: è stato un interprete del nostro tempo, un custode delle sue contraddizioni, un poeta del dolore e della speranza.

Tra le sue immagini più celebri, restano impresse nella memoria collettiva il cratere umano di Serra Pelada, dove migliaia di minatori scalano pareti fangose in cerca di oro; il volto scheletrico di un bambino sopravvissuto nel Sahel; i profughi del Congo travolti dal panico; e, in Genesis, due leoni marini che si sfiorano con dolcezza sulle coste delle Galápagos. Ogni scatto è una soglia: ci chiama a guardare dove non vorremmo guardare, ad ascoltare ciò che preferiremmo ignorare.

Un’eredità viva

Nel 2013, Salgado sostiene pubblicamente la campagna di Survival International per la tutela degli Awá, la tribù più minacciata del Brasile. Le sue fotografie diventano strumento politico, veicolo di pressione internazionale, amplificatore di diritti negati. È l’ennesima conferma di un approccio che ha sempre messo l’umanità al centro, senza compromessi.

Alla fine del Sale della terra, Salgado riflette: «La fotografia è stata la mia vita. Ma la vita è qualcosa di molto più grande». È una frase che racchiude tutto il suo percorso. Le sue fotografie non sono solo documenti: sono tracce di una visione, frammenti di un’etica, testimonianze di un amore profondo – e a volte ferito – per l’essere umano.

Oggi che Sebastião Salgado non è più tra noi, resta la sua opera a guidarci. Le sue immagini continuano a parlarci, a interrogarci, a ferirci e consolarci. Ci ha lasciato un patrimonio visivo, ma anche – e forse soprattutto – un modo di guardare. Di non voltarsi dall’altra parte. Di credere che, anche nell’oscurità più fitta, possa ancora esserci una luce da custodire.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Dai mercati rionali al thrifting: il ritorno dell’usato tra moda, ambiente e cultura

Dimenticate l’idea del mercato rionale come luogo periferico, riservato a chi cerca solo il risparmio. Oggi, tra le bancarelle di abiti e oggetti usati, si aggirano influencer con lo smartphone puntato sui capi da mostrare, giovani in cerca del pezzo vintage perfetto e turisti attratti da tour guidati nei mercati più iconici d’Italia. Il mercato dell’usato non è mai stato così al centro della scena. A muovere questa rinascita è un intreccio di fattori economici, culturali e ambientali che rispecchiano la trasformazione dei consumi contemporanei.

Il fascino della seconda mano: da necessità a tendenza culturale

Quello che un tempo era considerato un ripiego, oggi è diventato un gesto carico di significato. L’acquisto di seconda mano si è liberato dallo stigma sociale e si è caricato di un nuovo valore simbolico: è un atto di consapevolezza ecologica, una dichiarazione di stile personale, ma anche una forma di resistenza al consumo massificato. Lo conferma la diffusione del termine inglese “thrifting”, sempre più popolare anche in Italia, che racchiude l’arte di scovare occasioni uniche, ridando vita a ciò che è già stato usato.

La moda vintage, la ricerca dell’affare e una nuova sensibilità ambientale si intrecciano così in un fenomeno sociale trasversale. I mercatini dell’usato accolgono oggi tutte le fasce sociali e si presentano con un’offerta merceologica ampia e diversificata: dai mobili agli abiti, dai dischi alle curiosità da collezione. Alcuni si sono specializzati in settori precisi, come il modernariato, l’infanzia o i libri, mentre altri continuano a proporre una varietà di oggetti che sembrano usciti da una soffitta del Novecento.

Mercatino dell’Antiquariato e del Collezionismo – Mobili ed Oggetti Antichi ad Altivole

Un nuovo pubblico: giovani, social e cultura urbana

Una delle novità più rilevanti è l’abbassamento dell’età media dei frequentatori dei mercati. Ragazzi e ragazze li visitano non solo per acquistare, ma anche per vendere, creando intorno alla seconda mano una vera e propria estetica condivisa sui social. Video e post mostrano gli “haul” – le raccolte di capi trovati al mercato – con tanto di prezzi, consigli e abbinamenti. Alcuni creator si sono specializzati nella caccia al pezzo raro, magari firmato, trasformando le bancarelle in veri e propri luoghi di ricerca e selezione sartoriale.

L’interesse è tale che sono nate anche visite guidate ai mercatini. Non si tratta di esperienze turistiche tradizionali, ma di occasioni per imparare a distinguere un capo di qualità dal fast fashion, a trattare i tessuti in modo corretto, a riconoscere l’autenticità di un oggetto. Una forma di didattica urbana, spesso guidata da influencer o esperti di moda sostenibile, che mira a condividere competenze e coltivare un senso di comunità.

Dietro le quinte: il lavoro del mercatino

Il mondo dell’usato non è però solo una passerella per gli appassionati di moda retrò. Dietro le quinte, i mercatini rappresentano una filiera articolata che richiede competenze specifiche. Chi lavora nel settore deve avere una solida conoscenza della storia della moda, saper riconoscere i materiali, fare ricerche approfondite, valutare il valore commerciale degli oggetti. Il margine economico non si genera soltanto con la rivendita, ma attraverso un’attività complessa di selezione, restauro, presentazione.

I modelli organizzativi sono vari: ci sono mercatini basati sul conto vendita, altri che recuperano oggetti da attività di sgombero, e altri ancora che funzionano come veri e propri negozi sociali, gestiti da cooperative o associazioni. In questi casi, il ricavato finanzia progetti di inclusione lavorativa o attività di volontariato. Il valore dell’oggetto, dunque, non è solo commerciale, ma anche sociale.

Una coscienza ecologica in crescita

Un’altra componente chiave è quella ambientale. Acquistare o vendere usato significa ridurre la produzione di rifiuti e contenere il consumo di energia. Gli oggetti già prodotti incorporano quella che gli esperti chiamano energia grigia: acqua, petrolio e materie prime impiegate nella loro realizzazione. Dare nuova vita a un vestito o a un mobile significa evitare che quell’energia vada sprecata. È una logica circolare che risponde a una crescente sensibilità verso il cambiamento climatico e il consumo sostenibile.

Questa coscienza ha radici anche all’estero, dove il fenomeno dei mercatini dell’usato è più strutturato. Negli Stati Uniti i thrift shop sono una realtà consolidata, e il thrifting è entrato nel linguaggio quotidiano. In Australia si chiamano op shop, nel Regno Unito charity shop, legati a enti come la Croce Rossa o Oxfam, che aprì il suo primo punto vendita a Oxford nel 1948. In tutti questi casi, il riuso è un atto che intreccia etica, economia e stile di vita.

Una tendenza ciclica

Secondo molti sociologi, l’interesse per i mercati rionali è una tendenza ricorrente nella storia. Riappare in momenti di trasformazione sociale e culturale, spesso come reazione a modelli di consumo dominanti. L’attuale rinascita dei mercatini si inserisce in una più ampia ridefinizione dei valori legati al possesso, all’identità, alla sostenibilità. È un ritorno all’essenziale, ma anche una ricerca di autenticità, di storie, di relazioni che si intrecciano attraverso gli oggetti.

Così, tra le file di giacche anni ’80 e vinili anni ’60, il mercato dell’usato si riscopre luogo di cultura urbana, spazio sociale e laboratorio di consumo consapevole. Un punto di incontro dove passato e futuro si scambiano di posto, e dove il vintage smette di essere una moda per diventare una forma di pensiero.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Quando anche bere diventa un’esperienza sensoriale

Fino a pochi anni fa, parlare di “acqua di lusso” poteva sembrare una provocazione. O una boutade da pubblicitari in cerca di originalità. Eppure oggi, in un panorama dominato dal culto della qualità e dell’origine, l’acqua sta assumendo un ruolo sempre più simile a quello del vino, del caffè o della birra artigianale: non solo una bevanda, ma un’esperienza. Con le sue fonti incontaminate, i suoi residui minerali, le sue sfumature di gusto. Una rivoluzione liquida che coinvolge sommelier, degustazioni, cantinette dedicate e persino influencer da milioni di follower.

A confermarlo sono le immagini che arrivano da eventi come il “Fine Waters Taste and Design Awards” di Atlanta, dove oltre cento varietà di acqua vengono degustate alla cieca da una giuria specializzata. I bicchieri sono gli stessi usati per il vino, i gesti pure: si osserva il colore, si ruota il liquido, si annusa, si degusta con lentezza. Ogni campione riceve un punteggio secondo criteri analoghi a quelli usati per i grandi rossi di Borgogna. Siamo nell’ambito raffinato della cultura del gusto.

Acqua fine: un concetto nuovo per un gesto antico

A guidare questo movimento è Michael Mascha, fondatore di Fine Waters e tra i principali promotori del concetto di “acqua fine”. Un’espressione che distingue l’acqua naturale non trattata, legata a un territorio e a una storia geologica precisa, dalle acque purificate o commerciali. Come accade per il vino, il terroir è tutto: la composizione del suolo, il tipo di roccia attraversato, la profondità della falda. L’acqua, insomma, racconta un luogo. E i consumatori – sempre più esigenti, consapevoli e attenti al benessere – sembrano pronti ad ascoltare.

Non è un caso se, negli Stati Uniti, il mercato dell’acqua premium rappresenta già il 15% dei 47,4 miliardi di dollari complessivi del comparto. Le bottiglie variano da pochi dollari a diverse centinaia, come nel caso della giapponese Fillico, prelevata sotto il Monte Rokko, venduta in flaconi decorati con cristalli Swarovski e pensata per collezionisti del lusso estremo.

Dal cibo all’acqua: nasce una nuova arte del pairing

Parallelamente al successo commerciale, sta emergendo una vera e propria arte della degustazione dell’acqua. Proprio come accade per il vino, anche per le acque minerali esiste una precisa metodologia di assaggio: si parte dalla temperatura – 11-13°C per le lisce, 8-10°C per le frizzanti – fino alla scelta dei bicchieri in cristallo, studiati per non alterare il flusso del liquido sulla lingua. La procedura è dettagliata: primo sorso per la freschezza, valutazione visiva della limpidezza e del perlage, test olfattivo per eventuali odori anomali, degustazione completa con attenzione al retrogusto e alla persistenza.

Le caratteristiche sensoriali dell’acqua – livello di residuo fisso, tipo e quantità di minerali, acidità, effervescenza – diventano criteri fondamentali per l’abbinamento con i cibi. Acque frizzanti e ricche di minerali si prestano a piatti grassi e saporiti, mentre acque piatte o poco mineralizzate si sposano meglio con pietanze delicate, come il pesce al vapore o un’insalata leggera. Il pairing (abbinamento) acqua-cibo, fino a poco tempo fa trascurato anche nei ristoranti più attenti, sta conquistando spazi sempre maggiori.

Una nuova cultura dell’acqua: tra benessere, territorio e sostenibilità

Questa rinascita dell’acqua come oggetto di culto non riguarda soltanto il gusto. Ad alimentarla è anche una crescente attenzione alla salute e all’origine del prodotto. In molti casi, l’acqua fine rappresenta una risposta all’omologazione dell’acqua purificata, ottenuta da rubinetto e trattata chimicamente. Negli Stati Uniti, marchi come Crazy Water (arricchita naturalmente di litio) o Tahoe Artesian Water (acqua artesiana raccolta ai piedi della Sierra Nevada) stanno conquistando quote di mercato grazie al legame con un territorio specifico e alla totale assenza di interventi industriali.

Anche in Europa il fenomeno si allarga. In Inghilterra, il “Sommelier dell’Acqua Barbuta”, Doran Binder, ha scoperto una sorgente naturale all’interno di un parco nazionale e ne ha fatto una piccola impresa che coniuga attenzione ambientale e comunicazione social. In Portogallo, l’acqua Pedras, effervescente e filtrata naturalmente dal granito, è ormai considerata parte del patrimonio gastronomico nazionale, capace di accompagnare con eleganza i piatti più corposi della cucina lusitana.

Il design come linguaggio e status symbol

Oltre al contenuto, conta la forma. Le bottiglie delle acque di lusso sono oggetti di design, con etichette curate, vetro soffiato, linee minimaliste o barocche, a seconda dei marchi. Alcune cantine domestiche si stanno trasformando in veri e propri “water cellar”, armadi refrigerati per conservare le bottiglie a temperatura ideale. Nei ristoranti più raffinati compaiono le water list accanto alle wine list. E nei grandi alberghi, tornano i sommelier dell’acqua: esperti in grado di consigliare la bottiglia giusta in base al pasto, ma anche all’umore del cliente.

Tutto ciò non è esente da critiche. La questione ambientale resta centrale: l’imbottigliamento massiccio, il trasporto su lunghe distanze, l’uso della plastica sono aspetti controversi. Inoltre, la commercializzazione dell’acqua naturale da parte di grandi aziende solleva interrogativi etici, soprattutto in comunità locali che vedono depauperate le proprie riserve idriche. In questo contesto, la difesa delle piccole sorgenti indipendenti, spesso a gestione familiare, diventa un tema non solo culturale ma politico.

Dall’idoneità all’identità: l’acqua entra nella nostra narrazione quotidiana

Bere acqua non è più solo un gesto necessario. È un atto identitario. Così come la cucina è diventata un campo di espressione individuale, anche l’acqua che scegliamo parla di noi: del nostro rapporto con il territorio, con la salute, con il gusto. Come dice Simona Celante, fondatrice di Tahoe Artesian Water e veterana dell’industria delle bevande, “parliamo sempre della provenienza del vino, del burro, delle verdure. Ma mai del percorso dell’acqua. È tempo di farlo”.

La terza ondata dell’acqua – dopo le cure termali dell’Ottocento e il boom Perrier negli anni Settanta – è quindi una riscoperta. Una nuova attenzione all’essenziale, ma con una consapevolezza inedita: l’acqua non è tutta uguale. E assaggiarla con cura, imparare a distinguerla, raccontarla, può essere una forma di cultura, di rispetto, persino di piacere. Come per il vino, il caffè o il pane buono.

In fondo, anche in un mondo saturo di stimoli, a volte bastano due dita d’acqua, limpida e fresca, per sentire che il mondo – e la nostra attenzione – può ancora riflettere qualcosa di raro.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Google Meet e la nuova era della comunicazione senza frontiere

In un mondo sempre più interconnesso, la barriera linguistica resta uno degli ultimi ostacoli concreti alla comunicazione globale. Superarla è da sempre un’ambizione dell’uomo, tanto che nel corso dei secoli sono stati tentati esperimenti di ogni genere: dalla creazione di lingue artificiali con vocazione universale all’adozione di idiomi condivisi nelle relazioni internazionali. Oggi, però, il sogno di una comprensione reciproca senza sforzi si avvicina alla realtà grazie all’intelligenza artificiale. Il recente annuncio di Google al Cloud Summit segna un passo importante in questa direzione: la traduzione vocale automatica di Google Meet è pronta a debuttare anche in Italia.

Questa nuova funzionalità consente agli utenti di ascoltare in tempo reale la voce dell’interlocutore tradotta nella propria lingua. Non si tratta solo di una trasposizione semantica rapida, ma di un’esperienza che riproduce fedelmente intonazioni, timbro ed emozioni dell’originale. È merito di AudioLM, la tecnologia sviluppata da Google per generare voce sintetica a partire da input audio reali, mantenendo le sfumature personali di ciascun parlante. Il risultato è sorprendente: la voce tradotta non ha nulla del suono metallico e impersonale che spesso associamo alle macchine, ma restituisce la naturalezza dell’espressione umana.

Il Corriere della Sera ha potuto testare in anteprima il servizio, rilevando una notevole precisione nelle traduzioni tra inglese e italiano. Il sistema ha mostrato una comprensione fluida, senza errori o incertezze, anche in conversazioni articolate. È una conquista che, al netto delle implicazioni tecniche, pone interrogativi rilevanti sul futuro della comunicazione umana, sul ruolo dei professionisti della traduzione e sull’impatto ambientale delle tecnologie ad alta intensità energetica.

La traduzione vocale automatica non è una novità assoluta: anche Microsoft, con la funzione Interpreter integrata in Teams, e aziende come Samsung o Apple hanno avviato lo sviluppo di strumenti simili. Tuttavia, molte di queste soluzioni non sono ancora disponibili in lingua italiana o mancano della fluidità necessaria per un uso realmente pratico. Google, invece, riesce a offrire questa tecnologia restando all’interno del perimetro delle normative europee in materia di interoperabilità e protezione dei dati, dimostrando che il rispetto dei vincoli regolatori non è necessariamente un ostacolo all’innovazione.

Il riferimento alla Torre di Babele, simbolo ancestrale della frammentazione linguistica dell’umanità, è inevitabile. Nell’antico racconto biblico, la confusione delle lingue spezzò l’unione degli uomini. Oggi, l’intelligenza artificiale promette di ricucire quello strappo, non imponendo una lingua universale — come ci provarono, tra Otto e Novecento, idiomi artificiali come l’esperanto, il volapük o l’idiom neutral — ma offrendo uno strumento capace di tradurre automaticamente il parlato, istantaneamente, in qualsiasi idioma.

Con l’attivazione del servizio Google Ai Pro o Ultra, la nuova funzionalità sarà disponibile nelle prossime settimane anche per gli utenti italiani, inizialmente per le coppie linguistiche inglese-italiano e viceversa. È il primo passo verso una comunicazione interlinguistica naturale, immediata, potenzialmente estesa a milioni di utenti nel mondo.

Ma se da un lato questa evoluzione annuncia un’era di conversazioni senza interpreti e di riunioni internazionali finalmente libere da fraintendimenti, dall’altro solleva questioni cruciali. Che ne sarà delle professioni linguistiche? Come si potrà garantire una traduzione affidabile in contesti complessi, come le trattative diplomatiche o i dibattiti scientifici? E soprattutto: quale sarà il costo ecologico di questo nuovo paradigma?

I modelli neurali alla base di queste tecnologie, infatti, richiedono una capacità di calcolo imponente, che si traduce in un consumo energetico significativo. Il nodo della sostenibilità — già centrale nel dibattito sull’intelligenza artificiale generativa — rischia di diventare ancora più pressante man mano che strumenti di questo tipo si diffondono su scala globale.

In ogni caso, la direzione è tracciata. Non è più fantascienza immaginare un mondo in cui la comunicazione tra persone di lingue diverse avvenga senza mediazioni, né sforzi. La voce dell’interlocutore, tradotta fedelmente nella nostra lingua, potrà accompagnare ogni dialogo, ogni incontro, ogni negoziazione. Un traguardo che fino a pochi anni fa sembrava irraggiungibile, e che oggi si prepara a entrare nelle nostre vite quotidiane, un’applicazione dopo l’altra.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Emil Nolde, l’artista controverso: tra mito, propaganda e verità storica

Copertina del libro “Lezione di tedesco (Deutschstunde)”
pubblicato nel 1968 di Siegfried Lenz

Per decenni Emil Nolde è stato celebrato come una delle principali vittime artistiche del regime nazista: un genio solitario, perseguitato per la sua arte libera e visionaria, difensore della bellezza contro la barbarie ideologica del Terzo Reich. Ma a più di settant’anni dalla caduta del nazismo, quel ritratto eroico inizia a mostrare crepe profonde. Le ricerche storiche condotte negli ultimi anni hanno restituito un’immagine ben diversa di Nolde: non un oppositore, bensì un sostenitore del regime, un uomo animato da idee profondamente antisemite e nazionaliste. Un artista che tentò fino all’ultimo di farsi accettare dal potere che lo aveva bandito.

Nato nel 1867 nel villaggio di Nolde, nello Schleswig-Holstein, allora parte dell’Impero tedesco, Emil Hansen – che in seguito assunse il nome d’arte Nolde – si avvicinò alla pittura relativamente tardi, a trentun anni. Dopo aver studiato presso la scuola di Adolph Hoelzel a Dachau e all’Académie Julian di Parigi, mosse i primi passi nel solco dell’impressionismo, affascinato dai maestri francesi. Ma presto se ne discostò: la sua cifra espressiva divenne via via più audace, fatta di colori violenti, segni nervosi, spiritualità primitiva. La sua adesione al gruppo Die Brücke nel 1906 segnò l’ingresso nella stagione dell’espressionismo tedesco, di cui sarebbe diventato uno dei principali esponenti.

Nolde esplorò tecniche diverse – olio, acquerello, xilografia – e si avventurò anche in tematiche religiose, con opere visionarie come la serie Leben Christi. L’intensità della sua pittura e il radicalismo formale ne fecero un innovatore dirompente, ammirato dalla giovane avanguardia. Eppure, accanto alla sperimentazione artistica, conviveva in lui una visione politica altrettanto radicale.

Già nel 1934, l’artista si iscrisse al Partito Nazionalsocialista. Condivideva le ambizioni del regime di dar vita a una nuova “arte germanica”, radicata nell’anima del popolo, libera dalle influenze internazionali e, soprattutto, da quelle ebraiche. Nolde non solo simpatizzava per l’ideologia nazista, ma ne condivideva profondamente le premesse razziste. Non esitò a diffamare colleghi e mercanti d’arte ebrei, cercando di affermarsi come interprete autentico dello “spirito tedesco”.

In un paradosso che ancora oggi colpisce, proprio lui fu tuttavia tra gli artisti più duramente colpiti dalla campagna del regime contro quella che veniva definita Entartete Kunst, l’”arte degenerata”. Oltre mille sue opere vennero confiscate nel 1937, molte delle quali esposte nella famigerata mostra itinerante voluta da Goebbels per denunciare la presunta decadenza estetica e morale dell’avanguardia. Nolde fu estromesso dall’Accademia delle Arti e, nel 1941, gli fu proibito di esporre, vendere e persino dipingere.

Da quel momento, si ritirò nella sua casa di Seebüll, nel nord della Germania, dove continuò a lavorare in segreto, realizzando una serie di acquerelli che battezzò Ungemalten Bilder (“quadri non dipinti”). A lungo considerati come atti eroici di resistenza artistica, questi lavori vennero presentati nel dopoguerra come la testimonianza di un artista perseguitato ma non domo, capace di continuare a creare nonostante il divieto imposto dal regime.

È da qui che nasce il mito di Emil Nolde martire del nazismo. Un mito alimentato dallo stesso pittore, che nelle sue memorie raffigurò se stesso come un dissidente silenzioso, e consolidato da uno dei più noti romanzi tedeschi del dopoguerra: Lezione di tedesco (Deutschstunde), pubblicato nel 1968 da Siegfried Lenz.

Il libro, oggi considerato un classico della letteratura tedesca del dopoguerra, venduto in oltre due milioni di copie e tradotto in più di venti lingue, contribuì in modo decisivo a fissare l’immagine di Nolde come simbolo della repressione artistica nazista. Ambientato nella Germania degli anni Cinquanta, il romanzo racconta la storia di Siggi, giovane detenuto che ricorda la propria infanzia durante il Terzo Reich. Suo padre, un agente di polizia, aveva ricevuto l’ordine di impedire a un pittore – Max Ludwig Nansen, alter ego trasparente di Nolde – di continuare a dipingere. Nansen, in risposta, aveva iniziato a produrre in segreto una serie di “quadri invisibili”.

Nel racconto, il giovane Siggi si trova diviso tra l’autoritarismo del padre e l’integrità del pittore, che considera un eroe. Il nazismo non viene mai nominato esplicitamente, ma è costantemente evocato: la Gestapo è riconoscibile nei “cappotti di pelle”, il divieto di dipingere rimanda chiaramente alle politiche sull’arte degenerata. La figura di Nansen si impone come quella di un artista puro, perseguitato per la sua libertà creativa. Il fatto che questo personaggio sia ispirato a Nolde, conferì all’artista un’aura di martirio che l’opinione pubblica tedesca, ancora alle prese con la propria memoria storica, accolse senza troppe domande.

Così, mentre i suoi dipinti tornavano a essere esposti in musei e gallerie, Emil Nolde fu assunto simbolicamente come figura di riscatto: un esponente dell’avanguardia capace di resistere alla censura del totalitarismo. Le sue opere arrivarono persino negli uffici dei cancellieri tedeschi: Helmut Schmidt, e più tardi Angela Merkel, scelsero suoi dipinti per decorare le pareti degli spazi istituzionali.

Eppure, la verità era ben diversa. Le mostre retrospettive di Nolde organizzate nel 2014 a Francoforte e nel 2019 alla Galleria Nazionale di Berlino hanno ricostruito con rigore documentale il reale atteggiamento dell’artista nei confronti del regime. I quadri non dipinti, presentati come frutto di una resistenza clandestina, furono in realtà realizzati dopo la guerra. E il divieto imposto a Nolde non riguardava l’atto stesso del dipingere, ma solo l’esposizione e la vendita pubblica. Inoltre, i suoi scritti e le lettere private testimoniano un antisemitismo viscerale e reiterato, accompagnato da tentativi ossessivi di convincere Hitler e Goebbels che la sua arte non era “degenerata” ma profondamente “tedesca”.

Perché allora la verità è emersa con così tanto ritardo? Perché la Germania ha atteso oltre mezzo secolo prima di mettere in discussione un mito così radicato?

Una risposta sta forse nella funzione catartica che Nolde ha incarnato per l’immaginario tedesco del dopoguerra. In un paese devastato dalla colpa e dalla rimozione, c’era bisogno di figure simboliche che permettessero di raccontare una Germania diversa, capace di bellezza e libertà anche sotto il giogo del nazismo. Nolde – o meglio, il Nolde reinventato da Lenz – offriva questo conforto. Era l’artista che aveva sofferto, ma non si era piegato. Un simbolo attraverso cui la Germania poteva iniziare a venire a patti con il proprio passato senza confrontarsi troppo direttamente con la complicità diffusa nel nazionalsocialismo.

Oggi, questo racconto semplificato non regge più. Il caso Nolde è diventato emblematico di un problema più vasto: la difficoltà di distinguere tra realtà storica e costruzione memoriale, tra biografia e mito. Come scrive Lenz nel suo romanzo, “inizierai a vedere correttamente solo quando inizierai a creare ciò che devi vedere”. Per decenni, la Germania ha “creato” in Nolde ciò che aveva bisogno di vedere. Ma ora è tempo di vedere anche ciò che preferiva ignorare.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.