Facebook mi ricorda la cassetta delle lettere. Una volta, ci sbirciavo dentro più spesso. Appettavo posta? No, lo facevo per abitudine. Nella cassetta trovavo solo bollette da pagare e pubblicità a chili. Ogni tanto un biglietto di auguri-auguri e di rado cartoline. Lo sapevo che ormai non scriveva più nessuno, perché chi mi contattava lo faceva per telefono. Ciò nonostante, nel prendere le scale o l’ascensore gettavo un’occhiata alla cassetta.

Facebook è la versione attuale, languente, noiosa, della vecchia cassetta. Penso che Zuckerberg dovrà inventarsi qualcosa di diverso, nel prossimo futuro, dal momento che già da ora nei social non socializza quasi più nessuno, così nella piazza virtuale sono rimaste solo sedie e tavolini vuoti, perché il bar sembra avere già chiuso.

Nonostante tutto, Facebook è pur sempre una calamita: lo apri, lo scorri, lo chiudi. Poi dimentichi di averlo aperto e lo riapri. Un’azione compulsiva, che sottrae tempo a letture serie, perché da leggere in Facebook non c’è pressoché niente. Se non fosse che conosci sempre meglio certi amici che credevi di conoscere e che solo ora, nei social, hanno reso evidente il loro vero carattere.

Eppure, un social potrebbe essere un bel mezzo per incontrarsi a distanza, scambiarsi idee, emozioni. C’è chi lo sa fare e chi no. Chi potrebbe imparare a farlo e chi invece preferisce rimanere nella propria inerzia, come dei carciofi che di fatto potevano essere farciti, ma il cuoco ha lasciato vuoti nella teglia. (S.B.)

Sul concetto delle persone che si rivelano per quel che veramente sono, ne ho parlato varie volte con mia moglie; il social, in questo caso, è uno strumento più efficace della presenza. Comunque, fosse per me, a costo di fare più fatica, per alcune cose tornerei alla vecchia maniera, cioè a quando il digitale non aveva preso ancora il sopravvento su tutto. A me piacerebbe tornare a disegnare i progetti con carta, matite, penne a china, trasferibili e retino. Comprendo le tue ragioni se dici di aver disegnato in questo modo per oltre trent’anni e, di recente, utilizzare Archicad o AutoCAD ti sembra una liberazione.

Il fatto è che per me ognuno di quei lavori disegnati a mano sembrava quasi al pari di un’opera d’arte, se non addirittura una vera e propria opera d’arte. Era facile che qualcuno di quegli elaborati finisse anche in cornice. L’anno che feci il corso d’arredamento – era il 2010 – abbiamo trascorso alcuni giorni nel tuo studio e ricordo di aver visto proprio uno o due progetti in cornice.

Quando hai raccontato che uno fra questi era opera di un’alunna che ti odiava sentitamente, ho sorriso, perché a quei tempi suscitavi anche in noi un certo effetto. Apparivi duro e mettevi soggezione. Ricordo il primo giorno di corso. Entrai dieci minuti in ritardo, mi scusai. Rispondesti: «Non ha importanza. Ciò che è importante è il perché lei sia qui». Replicai: «Perché mi interessa la progettazione». Dall’espressione sembrasti soddisfatto. Mi accomodai e continuasti la lezione.

Un certo giorno, mentre ti eri assentato alcuni minuti, di mia iniziativa decisi di montare, anzi “osai montare”, la tua attrezzatura per la proiezione. “Osare”, questo fu il verbo utilizzato dai miei colleghi di corso. Tutti mormoravano: «Ma sei matto! Ti distruggerà!». Io mi fidai dell’istinto e continuai.

Rientrato in aula, chiedesti chi fosse stato a montare tutto: proiettore, cavi, schermo. I colleghi pavidamente risposero col mio cognome. Di rimando soddisfatto dicesti: «Privitera è l’unico che ha voglia di lavorare». Che spasso se ci penso… Ti avevo capito e tu, da allora, iniziasti a capire meglio me.


Molti giovani, nel corso degli anni, hanno fatto esperienze o stage nel mio studio professionale, prendendo parte ad alcuni progetti. Tuttavia, coloro che sono entrati stabilmente nell’organico possono contarsi sulla punta delle dita. Una volta, mi fu riferito di aver sentito due neolaureate in architettura vantarsi l’un l’altra di poterlo fare. Non so su cosa basassero tale convinzione, ma in realtà erano solo due i modi: rispondere a un annuncio o essere direttamente invitati a un colloquio.

Visto che nell’articolo precedente di Salvatore Privitera è stata menzionata Maria, l’alunna che mi odiava sentitamente, vorrei parlare di lei, ma anche di Antonio. Entrambi fanno parte di quello strano periodo in cui tutti gli studi di architettura progressivamente stavano passando dal disegno manuale a quello CAD, (ovvero Computer Aided Drafting, disegno assistito da un elaboratore elettronico), come sa bene Salvatore che è stato uno dei miei migliori allievi.

Di Antonio è presto detto. Stavamo impiantando un secondo studio, per fare fronte a diverse proposte di progetto. Occorrevano nuovi spazi e nuovi collaboratori. Una mattina entrai in aula e chiesi chi conoscesse bene l’utilizzo di AutoCAD. Gli allievi fecero il nome di Antonio e a me non dispiacque l’idea. Il colloquio fu eccellente e firmò il contratto.

I problemi insorsero poco dopo, giacché all’inizio nel nuovo gruppo di lavoro l’accordo non fu dei migliori. I componenti erano stati scelti non certo per affinità di carattere, ma per competenze. Antonio chiese garbatamente di essere trasferito direttamente da me. Feci in modo di accontentarlo, pur dovendo continuare a svolgere il lavoro dell’altro studio. All’epoca Internet di oggi era un miraggio, ma pur senza Cloud riuscivamo lo stesso a trasferire file online da un computer all’altro. In breve, Antonio si guadagnò la nostra fiducia e rimase a lavorare con noi fin quando preferì spostarsi a Bologna, dove la fidanzata si era iscritta al DAMS.

In quanto a Maria, andò diversamente. Non ricordo più i termini esatti, fatto sta che all’epoca la Regione Siciliana varò un’iniziativa lodevole per favorire, con fondi comunitari, l’ingresso dei giovani negli studi professionali. Perciò, scartabellai in archivio gli elaborati dei miei allievi degli ultimi due o tre anni. Scelsi cinque o sei candidati e li invitai a un colloquio. Mio fratello Daniele e Sebastiano, che mi affiancavano in studio, furono invitati a costituire la “commissione”. Con meticolosità passarono in rassegna, uno per uno, quei bravi giovani speranzosi.

Le ragazze erano solo due, provenivano dall’Istituto d’Arte, ed erano cugine. Pensavo che alla fine dei colloqui Angela potesse spuntarla: aveva un tratto di disegno netto e i suoi lucidi osservati in controluce non presentavano nessuna correzione, per non parlare poi della delicatezza degli acquerellati. Eppure, senza il minimo dubbio, all’unisono Daniele e Sebastiano indicarono Maria.

«Come Maria? – ribattei – Bravissima quanto Angela, non c’è che dire, ma non fa altro che crearmi problemi».

«Fatti tuoi – risposero risoluti – Tu l’hai selezionata per il colloquio e ora questa è la nostra indicazione». Così Maria entrò in studio. Oggi ammetto che è stata la migliore scelta che si potesse fare. Aggiungo che le due cugine lavorarono insieme in altre occasioni. Ad esempio, realizzando sottolucidi e lucidi per il restauro della Galleria Vittorio Emanuele III di Messina. Ricordo ancora Maria, a mezzanotte passata, china sul tavolo da disegno. Ogni tanto alzava il capo e dava indicazioni al gruppo. Era di una cocciutaggine stratosferica, quanto ammirevole.

Perché ho parlato di Antonio e di Maria? Per una semplice ragione. Ambedue, in occasioni differenti, mi dettero la stessa spiegazione, che io non condivisi affatto. Quando erano studenti non sopportavano la disciplina che desideravo a lezione. Ora invece applicarsi al mio fianco era tutt’altra cosa. Anzi, ero io tutt’altra cosa. In studio, mi dissero, respiravano il “fare architettura” e in quei momenti ogni sacrificio a loro pareva leggero.