Facebook mi ricorda la cassetta delle lettere. Una volta, ci sbirciavo dentro più spesso. Appettavo posta? No, lo facevo per abitudine. Nella cassetta trovavo solo bollette da pagare e pubblicità a chili. Ogni tanto un biglietto di auguri-auguri e di rado cartoline. Lo sapevo che ormai non scriveva più nessuno, perché chi mi contattava lo faceva per telefono. Ciò nonostante, nel prendere le scale o l’ascensore gettavo un’occhiata alla cassetta.

Facebook è la versione attuale, languente, noiosa, della vecchia cassetta. Penso che Zuckerberg dovrà inventarsi qualcosa di diverso, nel prossimo futuro, dal momento che già da ora nei social non socializza quasi più nessuno, così nella piazza virtuale sono rimaste solo sedie e tavolini vuoti, perché il bar sembra avere già chiuso.

Nonostante tutto, Facebook è pur sempre una calamita: lo apri, lo scorri, lo chiudi. Poi dimentichi di averlo aperto e lo riapri. Un’azione compulsiva, che sottrae tempo a letture serie, perché da leggere in Facebook non c’è pressoché niente. Se non fosse che conosci sempre meglio certi amici che credevi di conoscere e che solo ora, nei social, hanno reso evidente il loro vero carattere.

Eppure, un social potrebbe essere un bel mezzo per incontrarsi a distanza, scambiarsi idee, emozioni. C’è chi lo sa fare e chi no. Chi potrebbe imparare a farlo e chi invece preferisce rimanere nella propria inerzia, come dei carciofi che di fatto potevano essere farciti, ma il cuoco ha lasciato vuoti nella teglia. (S.B.)

A proposito di cartoline illustrate nella buca, mi viene in mente un episodio curioso della mia prima adolescenza, che non ho mai raccontato a nessuno, per timore che la voce si diffondesse e lo venisse a sapere mio padre. Potevo avere forse dodici anni e frequentavo le medie. A metà anno scolastico era arrivato un nuovo compagno da Napoli, il nipote dell’arcidiacono del paese. Un ragazzino che tutte noi vedevamo diverso rispetto ai nostri compagni di scuola: più carino, distinto, spiritoso, si esprimeva con un simpatico accento napoletano e poi aveva un modo di sorridere che ci mandava al settimo cielo. Insomma, aveva fatto colpo su tutte noi.

Premetto che a quel tempo le classi erano solo maschili o femminili, rarissime le classi miste, per cui i contatti limitatissimi avvenivano durante la ricreazione. Io ero, allora, una ragazzina timida e molto riservata, specie con i ragazzi. A casa mia era dittatura su questo aspetto. A differenza di altre compagne, che non nascondevano la loro simpatia verso di lui, io me ne stavo in disparte e solo qualche fuggevole sguardo tradiva le emozioni di entrambi.

Fui felicissima quando un giorno, all’uscita da scuola, rovistando nella tasca del cappotto, vi trovai un bigliettino, era il modo più in voga di comunicare i sentimenti tra ragazzi. Il cuore mi batteva forte e non vedevo l’ora di giungere a casa per aprire il bigliettino e leggervi il contenuto. Poche parole, che ormai la memoria ha cancellato, rivelavano il suo interesse per me.

A fine anno lui partì e ci scambiammo i rispettivi indirizzi. Lui, di tanto in tanto, mi inviava una cartolina illustrata con i saluti, firmandosi al femminile, non ricordo più il suo nome. Quando il postino mi recapitava la posta – allora non c’era la buca delle lettere nelle case private – io mi rifugiavo nella mia cameretta, scollavo con attenzione il francobollo e felice vi leggevo il messaggio affettuoso che si nascondeva.

La tentazione di raccontare questa curiosa storia è stata forte. Per un momento, mi fatto rivivere un ricordo molto bello della mia adolescenza.


Pane, burro e marmellata (Fonte Lazzaris.com )

L’idea di una espressione d’affetto celata sotto un francobollo, di cui abbiamo appena letto da Cettina Lupoi, mi fa stravedere. Per manifestare affetti non occorrono che poche parole, molte volte bastano solo silenzi. Cettina restituisce un momento di tenerezza fra due adolescenti che si avventurano su di un sentiero che fino ad allora non sapevano esistesse. Per questo vorrei raccontare anche io un episodio altrettanto delicato.

Riguarda una bambina. Ricordo ancora il suo nome, Giusi, ed anche il suo cognome che naturalmente terrò per me. Nata in Sicilia, l’ho conosciuta a Roma nel grande androne dell’Istituto Sorelle della Misericordia del Sacro Cuore, dove ho fatto i primi tre anni delle elementari. È qui che le classi facevano ricreazione nelle stagioni rigide. Quando, invece, il clima lo permetteva potevamo sciamare in giardino. Naturalmente maschietti con maschietti, e le femminucce a debita distanza. Dopo le prime tre classi l’istituto divenne solo femminile e io approdai, con grande dispiacere, alla scuola comunale Giulio Cesare, qualche isolato più in là.

Bene! Dalle suore, noi ragazzini osservavamo con curiosità le bambine, che fuori non avevamo difficoltà a incontrare, ma nella scuola quella separazione fra sessi sembrava essere l’unica soluzione. Tuttavia, un giorno a sorpresa la suorina, che ci faceva da maestra, spiegò che molte di quelle bimbe erano orfanelle, senza il papà ed alcune neppure la mamma. Così ci raccomandò di essere garbati e premurosi con loro. Come? Domandammo. Ad esempio, rispose cordiale, durante la pausa avremmo potuto condividere con loro la nostra merenda.

Lo dissi alla mia mamma, e il giorno dopo non mi pareva vero di poter mettere in cartella, non uno, ma ben due panini farciti con burro e marmellata. Uno lo avrei offerto a Giusi, che non era affatto un’orfanella, anche se viveva con le altre nel collegio a lato della scuola, in quella parte di giardino dove non era consentito accedere agli estranei come noi. Viveva, dunque, una sorta di clausura. Dove mai incontrarla, se non in quei pochi minuti di pausa dalle lezioni?

Durante la ricreazione, scorsi Giusi in fila, le feci segno di avvicinarsi e, davanti alla maestra, le detti il panino. Non tutto il panino, però, perché lo scartai col dubbio che la marmellata non fosse di suo gradimento. Pensavo che avrei potuto domandarglielo, ma non feci in tempo, perché lei lasciò il gruppo, prese quel morso di panino che le porgevo e, senza proferire parola, tornò velocemente fra le sue compagne.

Che grande delusione! La disciplina valeva di più del mio panino? Non mi detti per vinto e provai ancora. Le feci di nuovo segno, tranciai un altro pezzo di panino e lei, ancora una volta, si avvicinò, accennò un grazie e filò via. Mi resi conto, che quella stava diventando per me una situazione imbarazzante. Oltretutto le mie mani erano ormai sporche di marmellata e io avevo ancora tutto il mio panino da mangiare.

Mentre le suorine, con la campanella che suonava, ci facevano serrare i ranghi per rientrare in classe, fui io ad andare da Giusi, lasciarle l’ultima porzione del panino e chiederle, almeno, se le era piaciuta la marmellata. Il regalo più bello fu ascoltare, per la prima volta, la sua voce consenziente, accompagnata da un sorriso raggiante.