In architettura,
come nel gioco degli scacchi,
muove per primo il bianco
di Sergio Bertolami
«E le diede per la prima volta la sensazione che fosse un gioco di cui si potesse apprendere qualche regola, non sufficiente a vincere la partita, ma almeno a cominciarla. E il seguito forse lo si poteva scoprire a mano a mano che si procedeva».
Giuseppe Pontiggia, La grande sera
ADALBERTO LIBERA
BIOGRAFIA
È raro iniziare una giornata sapendo di ricordarla per tutta la vita. Non soltanto perché tornavo a studiare a Roma, dopo avere frequentato i cinque anni di ginnasio e liceo nella città dello Stretto. Ma, soprattutto, perché quello era il mio primo giorno di Architettura. Per cui, salendo su di un bus con quasi due ore di anticipo, pensavo di avere tutto il tempo per assaporare l’idea di come sarebbe andata. E invece andò diversamente, per la semplice ragione che rimanemmo imbottigliati nel traffico e arrivai a lezione iniziata. Un’aula a gradinata, stracolma di giovanissimi allievi, composti ed emozionati, tutti con gli occhi puntati su di lui, il prof. arch. Pasquale Carbonara.
Per capirci, e per capire, chi fosse Pasquale Carbonara, dovremmo ricordare che all’epoca, quando internet non esisteva ancora, le informazioni occorreva reperirle sulla carta stampata. Un architetto, per tenersi al passo coi tempi, avrebbe dovuto riempirsi gli occhi d’immagini, mentre i libri erano ragguardevoli tomi verbosi. Ecco dunque che Pasquale Carbonara, tra il 1954 e il 1989, procedette per UTET nella pubblicazione di “Architettura pratica”. Un’opera di 11040 pagine fra testi e fotografie, costituita da 6 volumi in 10 tomi, più 2 aggiornamenti. Le poche volte che ne accennò ripeteva fiducioso che avrebbe completato a breve quel faticoso lavoro, articolato e complesso. Ce l’ha fatta, e tutti noi col tempo imparammo a utilizzare il suo manuale impagabile.
Quella mattina il professore valutò intorno a quale anno ci saremmo iscritti all’Albo professionale. Non lo avevo ancora considerato e ne rimasi sorpreso e coinvolto. Pasquale Carbonara era attorniato da uno stuolo di assistenti, col compito – chiarì – di seguire le nostre esercitazioni pratiche. Li presentò uno per uno e invitò tutti noi a segnarci in elenco. Aggiunse poi una novità per l’anno accademico: una sorta di corso nel corso. Chi era impossibilitato a frequentare di mattina, in alcuni pomeriggi settimanali avrebbe usufruito di verifiche e di un ciclo di lezioni equivalenti a quelle del mattino. Le avrebbe curate il professore Concetto Santuccio, braccio destro di Carbonara. Non mi parve vero, dal momento che certe ore del mio piano di studi si sarebbero inevitabilmente sovrapposte, dovendo dividermi tra la sede centrale di Valle Giulia e quella distaccata di Fontanella Borghese.
Così, senza rendermi conto, mi iscrissi al parallelo “Corso per lavoratori”. Quando afferrai l’equivoco, avevo già seguito diverse lezioni, per altro interessanti, e piantare tutto e tutti non mi parve opportuno. In pratica, anziché avvantaggiarmi, mi recai in facoltà mattina e pomeriggio per assistere al doppio delle lezioni teoriche. E non finirono qui le sorprese, per fortuna positive. Per dirne una, Santuccio il docente del pomeriggio era di Siracusa e a me, proveniente da Messina, permetteva per riflesso di mitigare la nostalgia di casa.
Per dirne un’altra, meno sentimentale, nello scegliere il tema di ricerca fra quelli proposti preferii il Tuscolano soltanto per ragioni logistiche, dato che del quartiere non sapevo nulla. Nulla del primo piano settennale dell’INA-Casa (1949-1956). Nulla dell’Italia degli anni Cinquanta, della grande ricostruzione del dopoguerra o degli obiettivi politici del piano Fanfani. Non conoscevo chi fossero Ridolfi o De Renzi o Muratori. Meno che meno conoscevo l’Unità di Abitazione Orizzontale di Libera, giacché fra tutti i progettisti che avevano operato al Tuscolano optai proprio per Libera e il suo “grattacielo sdraiato a terra”. Era la versione italiana dell’Unité d’Habitation di Marsiglia, quella “macchina da abitare” concepita da Le Corbusier, l’architetto dei pilotis sentito nominare da piccolo nei discorsi di mio nonno.
In breve, ero completamente bianco su tutto, salvo le indicazioni essenziali riguardanti una lista di domande alle quali avremmo dovuto dare risposta nel corso delle esercitazioni pratiche. Tanto bianco che, anziché iniziare dalla biblioteca di facoltà, per saperne qualcosa di più, presi un elenco Sip e cercai il cognome Libera, architetto; il nome di battesimo mi era sfuggito. In strada, da un telefono a gettoni, mi feci coraggio e timidamente composi il numero. Appresi allora che l’architetto all’altro capo della cornetta non era quel Libera che cercavo, scomparso già da qualche anno, bensì il figlio, che mi suggerì di chiedere lumi a sua madre, la quale, cordiale quanto lui, mi fissò un appuntamento.
Fu così che, in un bel pomeriggio di sole i cui raggi filtravano dalle imposte appena socchiuse, mi capacitai di trovarmi nello studio privato di Adalberto Libera, architetto, nato in provincia di Trento nel 1903 e morto a Roma nel 1963, uno dei maggiori assertori del Razionalismo italiano tanto da essere tra i fondatori del Movimento italiano per l’architettura razionale (MIAR), autore del palazzo dei Congressi all’EUR, che conoscevo, e ben più famoso per avere realizzato la villa di Curzio Malaparte a Capri, che non conoscevo. Poche nozioni afferrate al volo, consultando un dizionario fra i tanti, un dizionario ordinario.
Nella fattispecie, ciò che invece usciva dall’ordinario era cosa ci facesse un ragazzo di diciannove anni – impastato di lettere classiche, appena uscito dal liceo, un ragazzo che non aveva ancora dato neppure un esame all’università, con appena qualche giorno d’apprendimento alle spalle – a casa di un architetto famoso, presente perfino nel grande manuale del “mitico” professore Carbonara. La sensazione era quella di accostarmi per la prima volta al gioco degli scacchi, dove apprendere la teoria non sarebbe stato vincere subito una partita, ma concedermi almeno di cominciarla.
Ero dunque lì, in quell’elegante stanza ordinatissima, dove ogni oggetto sembrava disposto in forma museale. Persino i libri, che ricoprivano per intero le pareti e si alternavano ad una infinità di raffinati contenitori in cui erano custoditi i maggiori progetti di una vita professionale. Ero lì, a colloquio con la moglie del famoso architetto che, detto con sincerità, non si aspettava un giovanottello.
Ascoltate le ragioni dell’incontro, la signora Libera con finezza tenne a precisare che neppure un foglio sarebbe uscito di casa. E ciò da quando, per realizzare un documentario televisivo, molto del materiale concesso non era più tornato indietro. Tutto vero, ma in realtà falso, perché la signora per cautela stava semplicemente saggiando le autentiche intenzioni del sottoscritto. Aprì, quindi, uno di quei contenitori di cartone, seminò la scrivania e mi chiese di selezionare una decina di quei fogli dei quali avrei avuto fotocopia. Niente di più.
Erano minute dattiloscritte, schizzi a matita, studi preparatori ad inchiostro verde o blu. Documenti da cui non avrei potuto ricavare niente, non sapendo distinguere un particolare dall’altro. Chiesi una planimetria dell’intervento architettonico, ma rispose che non c’erano problemi a riprodurla dai libri. Allora capii che, come negli scacchi, stavamo ambedue disponendo i pezzi sulla scacchiera e molto contava l’apertura del gioco. Fortuna è che spettava a me muovere il bianco e, bianco com’ero, nessuno sarebbe stato bravo quanto me. In altre parole, dovevo conquistarmi la fiducia. Quando tornai per ritirare le fotocopie – avendo studiato seppur sommariamente il progetto – dimostrai di essere in grado di porre domande più precise.
Dopo quel giorno, tornai molte altre volte ancora. All’inizio la signora Libera assisteva per tutto il tempo alle mie ricerche, poi credé bene di lasciarmi solo. Dapprincipio mi forniva lei stessa le fotocopie degli schizzi richiesti, poi mi concesse di scendere a riprodurle direttamente io nell’eliografia all’angolo. Selezionavo disegni e facevo domande, mentre conversavamo garbatamente insieme, sorbendo il caffè. Chiesi alla signora Stefania – Stefania Boscaro, per l’esattezza – come fosse nata l’idea di quel progetto rimasto unico negli interventi INA casa.
Ai curatori dell’impianto del Tuscolano II, Mario De Renzi e Saverio Muratori, sembrava che il piano non potesse estendersi oltre, come prevedevano i programmi iniziali. Questo a causa della presenza del monumentale Acquedotto Claudio. L’Anio Novus, iniziato sotto Caligola e terminato sotto Claudio nel 52 d.C. convogliava in epoca romana l’acqua dell’Aniene distante una settantina di chilometri. La Soprintendenza non avrebbe mai permesso costruzioni a blocco adiacenti ad uno degli Acquedotti più lunghi e maestosi di Roma imperiale.
Fu nel 1951 che Libera, al tempo capo dell’Ufficio progettazione INA-casa, trovò la soluzione su come sfruttare anche l’area che altrimenti sarebbe rimasta inedificata. La Soprintendenza sicuramente avrebbe approvato una maglia di case basse e servizi, che non si elevasse oltre al piano terra. Nacque così il Tuscolano III. Libera era di ritorno da un viaggio in Marocco e sorvolando Rabat era rimasto impressionato dal fitto intrecciarsi di case e stradine della casba. Gli avevano ricordato quei tessuti spontanei di ispirazione mediterranea disseminati nel Meridione d’Italia e nelle isole.
La forzata interruzione dell’attività professionale nel corso della guerra, dal 1943 al 1946, non aveva limitato affatto le sue intuizioni. Molte delle idee sperimentate da Libera nel dopoguerra, in realtà, sono andate formandosi proprio nel periodo bellico. Era continuamente attivo. La riprova stava in una serie di minuscoli album, non più grandi di dieci centimetri per economizzare carta, che sfogliavo con curiosità. Disegnava tutto e misurava tutto: rifletteva sul tema dell’existenzminimum e sugli usi domestici, analizzava le interazioni spaziali fra uomo e ambiente. Gli scritti di questo periodo permettono di conoscerlo molto da vicino. Io potevo apprezzarlo maggiormente attraverso le parole di sua moglie.
Sì, perché più tempo passavo nel suo studio più conoscevo il grande architetto che era. Finché la signora Stefania comprese che di me poteva fidarsi. Con mia enorme sorpresa, arrivò il giorno in cui depose sulla scrivania del marito il rotolo di lucidi originali delle tavole di progetto dell’Unità di Abitazione, proponendomi di andare in eliografia a tirarne una copia da portare via. Mi si illuminarono gli occhi a vedere la planimetria dell’intervento. Proprio quella planimetria che avevo chiesto, ma avevo dovuto fotocopiare da un libro qualsiasi.
Feci la sentinella a quei disegni, gli occhi puntati su quel rotolo. Pazientai in fila per la stampa, benché il personale dell’eliografia mi invitasse a tornare più tardi. Il tempo fu interminabile. Due ore dopo ero di nuovo a casa Libera e riconsegnavo integri ed ordinati i disegni. Erano tutti i disegni di progetto realizzati? Certo che no: erano solo quelli che piaceva all’architetto conservare per ricordo. Le tavole degli architettonici e degli esecutivi di cantiere erano conservate nella documentazione d’ufficio e i collaboratori di Libera avrebbero potuto darmi indicazioni. Così mi suggerì la signora. Ormai la strada era tracciata: sollevai di nuovo il telefono e fui ricevuto anche dagli architetti che avevano lavorato in equipe a fianco di Libera. A distanza di anni ricordo di averne incontrati almeno un paio, divenuti ormai alti dirigenti Gescal, nata dalla trasformazione del piano INA-casa.
La documentazione d’esame cresceva, di pari passo alla simpatia e all’ammirazione di cui ero circondato. Ricevetti in dono perlomeno una dozzina di volumi introvabili. Molti libri fotografici e persino le linee guida per i progettisti del piano INA-casa redatte dall’Ufficio diretto da Libera: due preziosissimi opuscoli, il primo del 1949 e il secondo del 1950, con schemi tipologici, insiemi aggregativi, distribuzioni funzionali, materiali da impiegare. Fornivano raccomandazioni, soluzioni ed esempi, per tutti i progettisti impegnati nelle realizzazioni in programma. Divoravo quelle pagine e alle domande si sommavano ulteriori domande. Il fatto è che ero sollecitato da quella lista di quesiti, presa a lezione; quesiti ai quali intendevo dare risposta. Non una qualsiasi, ma veritiera, perché per me era importante apprendere bene le regole del gioco.
Nell’intervento di Libera al Tuscolano le regole erano esemplari e innovative. La composizione era impostata su edifici costituiti dal solo piano terra, disposti in gruppi di quattro alloggi, ciascuno con pianta ad L e patio privato. Ancora oggi tutto è rimasto com’era: col tempo ci sono tornato. I servizi commerciali danno sulla strada. Una vela fa da ingresso ad un grande giardino centrale che distribuisce il complesso edilizio. Di qui si diramano le “stradine” per raggiungere i blocchi delle residenze. Si può sostare, approfittare delle panchine, sedersi a conversare. Sono spazi per socializzare e sviluppare quel senso di vicinato che chiunque avvertirebbe in un paese. Infine, ogni abitazione è dotata di un patio privato. Scriveva Libera a questo proposito: «Lo spazio tra le strade e la casa è destinato ad orto e giardino ma, soprattutto, a spazio “per stare all’aperto”. Per climi e stagioni adeguate lo spazio all’aperto, intimamente legato all’alloggio, può essere considerato come la prima stanza della casa».
Tirando le somme: avevo coperto ampiamente l’intera fase progettuale con documenti eccezionali, possedevo alcuni degli esecutivi della fase di cantiere, e infine un ampio repertorio d’immagini dell’opera conclusa. I ripetuti sopralluoghi mi avevano, inoltre, permesso di scattare foto e prendere appunti riguardanti lo stato di fatto, sia negli spazi condominiali come in quelli privati, giacché gli abitanti dell’Unità di Abitazione mi facevano accedere nei loro appartamenti e mi esponevano il proprio punto di vista che, spesso e volentieri, strideva con quello teorico riportato dalle pubblicazioni. Le modifiche, tuttavia, non sono mai state pesanti, ma ristrette all’ambito dell’abitazione privata. Questo a differenza delle manomissioni del Quartier moderne Frugès a Pessac, un sobborgo di Bordeaux. Aspettarsi che chi ci vive si adegui vuol dire prevaricare le loro convinzioni, ne era convinto Le Corbusier, che commentò così il suo progetto: «Sapete, la vita ha sempre ragione; è l’architetto che ha torto».
In facoltà le revisioni del mio lavoro servivano a equilibrare l’intero processo costruttivo attraverso il quale osservare l’evolversi di una architettura: l’ideazione, la progettazione, la realizzazione, la vita vissuta o le modifiche apportate nel corso del tempo. Ciò nonostante, mancavano del tutto le immagini relative all’esecuzione di cantiere. Non mi fermai affatto, perché ero convinto che un’opera conclusa appena negli anni Cinquanta del Novecento, potesse rivelarmi tutti i suoi aspetti.
Non rimaneva che incontrare coloro che l’opera l’avevano vista mentre attraverso uno scatto coglievano il gioco dei volumi in costruzione. Il fine era intrecciare fra loro le informazioni desunte dalle immagini. Avrei imparato, ma solo con gli anni, che una fotografia come qualsiasi altro documento non rivela alcunché di vero se non la sai interrogare. Tantomeno se non sai chiedere ai fotografi le informazioni giuste. Sempre se hai la fortuna di incontrarli.
Il fotografo che aveva ripreso le fasi costruttive del cantiere si prestò ad un lavoro immane. Per mostrarmi le immagini dovette rintracciare in archivio le lastre originali dei vari cantieri al Tuscolano, selezionare quelle relative all’Unità progettata da Libera, pulirle, spesso senza cancellare le tracce delle correzioni esercitate dall’architetto. Già, perché non tutti gli scatti erano buoni, e alcune foto erano state scartate o rifatte.
Il fotografo eseguì tirature perfette degli scorci da me richiesti; i migliori in doppia copia per farne omaggio alla signora Stefania. Il problema era che quelle foto apparivano senza tempo, poiché la maggior parte erano state realizzate via via che i lotti andavano completandosi. Benché dal vivo le differenti cromie permettessero di distinguere e personalizzare case e stradine interne, il bianco e nero fotografico le rendeva tutte uguali e ripetitive. Mi resi subito conto che indugiare su quelle fotografie non avrebbe consentito di leggere lo sviluppo del cantiere. Così mi balenò l’idea che solo attraverso delle vedute aeree progressive avrei potuto cogliere i tempi di realizzazione.
Eccomi, dunque, a colloquio col colonnello che a Roma aveva compiuto la maggior parte dei voli e “strisciata” l’intera città, Tuscolano compreso. Immaginare Roma ferita dai bombardamenti e la ricostruzione dei quartieri non è difficile. Da poco in pensione, il colonnello mi ricevette a casa sua. Distese sul tavolo della sala da pranzo le riprese migliori che conservava dell’area. Ma erano ad alta quota. Troppo alta per le mie esigenze. Quando esposi la finalità della ricerca, trovai ancora una volta un animo paziente in grado di soddisfare le mie aspettative. Nel giro di qualche settimana mi procurò una ventina d’immagini che attestavano progressivamente l’edificazione dell’opera. Immagini così dettagliate che confermavano e scandivano anche i tempi delle inquadrature a terra già in mio possesso.
Ormai mi avviavo a conclusione, avendo svolto la maggior parte del lavoro per portare a termine, se non altro, la prima delle due esercitazioni d’esame e trarre una relazione dettagliata. Infine, avrei preparato l’orale. Ogni particolare fu esaminato nel corso di attente revisioni e quando tutto fu pronto depositai in segreteria gli elaborati definitivi. Come il primo giorno in cui avevo messo piede nel Palazzo Borghese, pensavo di avere tutto il tempo per assaporare l’idea di come sarebbe andato l’esame. E invece, anche stavolta, andò diversamente.
Mia madre mi aveva raccomandato di appendere il vestito alla stampella dell’armadio, dopo averlo tolto dalla valigia. La camicia era stirata, la cravatta in tinta, le scarpe a lucido. Eppure, quel pomeriggio uscii in fretta dall’albergo, jeans e maglietta, con la barba di due giorni in viso. Dopotutto andavo in facoltà per assistere alle prove dei miei colleghi di corso. Una folla di studenti si assiepava intorno al lungo tavolo dove, ai due lati, gli assistenti iniziavano a controllare i documenti, assicurarsi che ciascuno avesse consegnato per intero le esercitazioni, ad interrogare i candidati. Al centro del lungo tavolo lui, il prof. arch. Pasquale Carbonara, attorniato dai componenti della commissione d’esame e qualche ospite.
Passeggiavo avanti e indietro, irrequieto col pensiero della mia prova, tenendomi a debita distanza dall’apparato e dai curiosi. Mi sentii chiamare dal professore Santuccio, che aveva seguito e indirizzato passo-passo il mio lavoro su Libera. «Bertolami, hai il libretto? Bene, siediti». Ero in elenco per la settimana successiva, ma evidentemente qualcuno aveva deciso di anticipare il giorno. Dopo un fuoco di fila su Peter Behrens, Walter Gropius e Charles-Édouard Jeanneret-Gris universalmente noto come Le Corbusier, mi trovai al cospetto del professore Pasquale Carbonara, il quale, in attesa che concludessi il colloquio con i suoi assistenti, già da un po’ spulciava quella profusione di schizzi, disegni architettonici e tirature fotografiche originali. Nel vedermi, facendo segno di sedere, si rivolse ai presenti dicendo stupefatto: «È una documentazione che già conoscevo attraverso lo stesso Libera, ma non l’avevo mai vista tutta in una volta sul mio tavolo».
Quando fu il momento di battezzare il mio libretto immacolato, il professore Carbonara tenne a sottolineare che raramente aveva messo un trenta e lode e lo faceva convinto che sarei stato ricambiato da una carriera ricca di soddisfazioni. Una vigorosa stretta di mano sugellò l’augurio. Per giorni si parlò in facoltà di quel mio esame. Venivo fermato per le scale, nelle aule, da studenti e professori, e la domanda ricorrente era: «Bertolami, come hai fatto?». Ditelo voi, che ora conoscete un po’ questa storia. Ditelo voi, se avete già ottenuto il vostro meritato “quarto d’ora di celebrità”, quei quindici minuti ciascuno menzionati da Andy Warhol, padre della pop art.
Post-scriptum
Come in tutte le storie che si rispettano vorrei aggiungere una nota. Nell’estate del 2001 mi trovavo a Parigi. Avevamo appena imboccato la scala mobile del Beaubourg per raggiungere al quarto piano il Musée National d’Art Moderne, quando mia moglie mi chiese se fossi a conoscenza della mostra che il Museo dedicava ad Adalberto Libera. Il manifesto all’ingresso diceva testualmente: «Il Centre Pompidou dedica un’esposizione ad Adalberto Libera, in seguito all’acquisizione di cinque opere maggiori e dell’insieme dei suoi archivi personali». Dal 1996 l’Archivio Libera, era stato donato dagli eredi al Musée national d’art moderne presso il Centre Pompidou di Parigi e quella era la prima esposizione pubblica di una selezione delle sue opere. Il corpus dei progetti, realizzati da Libera – proprio quei progetti conservati nei contenitori della stanza nella quale discorrevo con la signora Stefania – ora si trovava qui, al Beaubourg. Dalle sperimentazioni degli anni ’20, ispirate al futurismo, ai concorsi e ai grandi incarichi istituzionali degli anni del fascismo – che non riuscì a comprendere l’originalità architettonica della proposta razionalista – ai programmi di ricostruzione postbellica, a quelli degli anni di espansione. Tornare a vedere quelle linee nette e sicure, verdi o blu, nelle teche espositive della Mostra è stata una emozione indicibile. Ve lo assicuro. È proprio vero quello che diceva Bobby Fischer: «Puoi diventare bravo a scacchi soltanto se ami il gioco».