... ed era bellissimo trovare nella buca la cartolina illustrata che veniva da un amico lontano… o la lettera con tante parole di affetto o di amore… “! Che nostalgia canaglia! “… Posso dirti che ancora scrivo lettere a chi voglio bene. La lettura e la scrittura, fin dalla infanzia, sono state mie compagne di vita. (Dal commento di Rosaria Mantineo al mio post su Facebook)

Facebook mi ricorda la cassetta delle lettere. Una volta, ci sbirciavo dentro più spesso. Appettavo posta? No, lo facevo per abitudine. Nella cassetta trovavo solo bollette da pagare e pubblicità a chili. Ogni tanto un biglietto di auguri-auguri e di rado cartoline. Lo sapevo che ormai non scriveva più nessuno, perché chi mi contattava lo faceva per telefono. Ciò nonostante, nel prendere le scale o l’ascensore gettavo un’occhiata alla cassetta.

Facebook è la versione attuale, languente, noiosa, della vecchia cassetta. Penso che Zuckerberg dovrà inventarsi qualcosa di diverso, nel prossimo futuro, dal momento che già da ora nei social non socializza quasi più nessuno, così nella piazza virtuale sono rimaste solo sedie e tavolini vuoti, perché il bar sembra avere già chiuso.

Nonostante tutto, Facebook è pur sempre una calamita: lo apri, lo scorri, lo chiudi. Poi dimentichi di averlo aperto e lo riapri. Un’azione compulsiva, che sottrae tempo a letture serie, perché da leggere in Facebook non c’è pressoché niente. Se non fosse che conosci sempre meglio certi amici che credevi di conoscere e che solo ora, nei social, hanno reso evidente il loro vero carattere.

Eppure, un social potrebbe essere un bel mezzo per incontrarsi a distanza, scambiarsi idee, emozioni. C’è chi lo sa fare e chi no. Chi potrebbe imparare a farlo e chi invece preferisce rimanere nella propria inerzia, come dei carciofi che di fatto potevano essere farciti, ma il cuoco ha lasciato vuoti nella teglia. (S.B.)

Una lettera, giusto. Vorrei parlare di una lettera, “con tante parole di affetto” come mi scrive Rosaria Mantineo. Quando le lettere univano le persone lontane, anche se a volte occorrevano settimane per arrivare. A seconda della distanza: da Novara di Sicilia a Roma, dove allora risiedevamo. Oppure da Roma al continente americano…

Con questa storia siamo alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, e io ragazzino di dieci o undici anni, consegno trepidante a mia madre la lettera che stava aspettando da mia nonna Rosina. Di solito la sua corrispondenza non viaggiava mai da sola, poiché la trovavamo all’interno di un pacco di prelibatezze. Tante cose fatte in casa o preparate su ordinazione per casa nostra: insaccati di varia natura, l’immancabile maiorchino, ricotta infornata, pomodori e melanzane sott’olio, olive di barile, fichi secchi farciti con mandorle o nocciole, biscotti e pane cotti nel forno a legna della cucina, torroncini morbidi di pasticceria coperti di glassa o cioccolato fondente. E aggiungerei ogni altra bontà, che almeno col palato, fosse in grado rendere la distanza più accettabile.

Quella mattina, però, non fu il postino a suonare il campanello, perché la lettera la imbucò direttamente nella cassetta postale. Comunicava una notizia insolita. «La cugina Inuccia s’è sposata!», esultò mia madre, rivolgendosi a noi tre figli che, disposti a scaletta, attendevamo buone nuove col naso all’insù. Poi, improvvisamente, vedemmo il suo viso rabbuiarsi e due lacrimoni fluire dagli occhi lucidi.

«In questo momento la cugina Inuccia è su di un transatlantico in viaggio per l’America». A me, che su di un transatlantico fantasticavo di andare a scoprire terre incredibili, non pareva vero. Come potevo comprendere l’amarezza della mia mamma? Le chiesi il motivo. «Inuccia non la rivedremo più», rispose laconica.

Su mia insistenza, spiegò che era dura abitare lontani e rinviare gli abbracci solo a Mezzagosto, quando ci si rivedeva tutti per l’Assunta. Ma l’estate successiva, a Novara, non avremmo più trovato Inuccia. Era la sua cugina del cuore: compagna di giochi e di studi, tant’è che solo mia madre la chiamava Inuccia, aggiungendo un diminutivo al diminutivo Ina del suo nome; così come lei la chiamava Assuntina.

Era tutta una grande famiglia. I nostri palazzi si allineavano uno di seguito all’altro: veniva prima quello del famoso scultore Buemi, nipote della mia bisnonna, la quale viveva nella casa a fianco, cui accedevamo sempre con grande riverenza. Poi seguivano le abitazioni delle sue due figlie, ovvero il palazzo di famiglia dei miei nonni e quello degli zii, i genitori di Inuccia, Ada e Maria. Si può dire che sull’intera via pubblica prospettava quasi tutta la parentela di mia madre. Manco a dirlo, quella comunione di affetti e di sorrisi, che sembrava doversi perpetuare nel tempo, al contrario ogni anno era andata sfaldandosi con matrimoni e partenze.

Tuttavia, mi chiarì con dolcezza la mamma, una cosa era trasferirsi a Messina, un’altra cosa era venire a Roma, come aveva fatto lei. Ora l’America di Inuccia metteva un punto apparentemente definitivo.

Spiegò: l’estate precedente tutti avevano accolto con gran gioia il giovane americano che, per la prima volta, visitava il paese dei suoi genitori con l’intento di trovare una sposa. S’innamorò di Inuccia e strinsero la loro promessa. Mantennero per un anno un’affettuosa relazione epistolare: eh! le lettere di una volta! Quando, infine, il giovane tornò a Novara con i suoi, fu per celebrare il matrimonio.

Solo mia madre, candidamente, poteva sperare che, con il benessere conseguito in una cittadina del Canada, quel giovanotto potesse accontentarsi di un lavoro lì, in paese, o quantomeno in provincia. Quindi, quella mattina, la lettera di mia nonna annunciava la partenza della giovane coppia verso il Nuovo Continente. Era la sorte dei nostri emigrati, quelli di prima generazione, ai quali ora si aggiungevano le generazioni successive.

Inuccia, però, mandava a dire che sarebbe tornata. E, infatti, immancabilmente tornò. Passarono anni, ma tornò: lei, suo marito, i figli bambini. E poi tornò ancora, con i figli grandi, e poi ancora, e ancora. Quando, però, mia madre leggeva la lettera di mia nonna certi eventi capitavano talmente di rado da non credere che certe speranze potessero avverarsi.

Ecco perché non ho affatto nostalgia dei bei tempi passati. Sembrano storie talmente lontane da non appartenerci più. Eravamo altre persone, esposte a circostanze del tutto differenti, totalmente distanti da questi nostri anni.

Oggi, quando lo desidero, contatto parenti e amici in videochiamata con FaceTime dal mio iPhone. Ci vediamo, discorriamo come se fossimo seduti in salotto gli uni accanto agli altri. E se proprio voglio vederli fisicamente, prendo un Frecciarossa o un aereo, soggiorno in un comodo albergo (senza scompigliare la casa di nessuno) e una volta a destinazione noleggio un’auto per spostarmi ovunque. A cuor leggero vi assicuro che tutto questo, fortunatamente, hanno fatto in tempo a scoprirlo anche mia madre e la sua amata cugina Inuccia.