Da qualche giorno m’è ripresa la smania di tornare a Parigi. Ieri sera non sono riuscito a coricarmi senza cercare due volumi di Étienne Moreau-Nélaton: Manet raconté par lui-même. L’ho trovati stamattina. Quando a casa non trovo un libro ho sempre il dubbio che sia in studio, e quando non lo trovo in studio che viceversa sia a casa. Ma a mente fresca è sempre lì, ordinatamente, dove doveva essere.

Il fatto è che vorrei completare le storie che ho iniziato e poi sospeso. Quando le racconti, le storie non sono mai tutte felici o tutte tristi. E le ragioni sono sempre innumerevoli. È che si aggrovigliano con la vita privata e non se ne esce. A non raccontarle rischierebbero di essere inghiottite del tutto dall’oblio e, gettando uno sguardo al passato, io non saprei spiegare in che modo abbia attraversato gli anni.

La mattina in cui ho reperito quei due volumi, telefonai entusiasta a mio fratello Daniele: una delle ultime telefonate. Non importava che potessero mandare all’aria le pagine che avevo scritto fino ad allora – gli ho detto – perché sapevo che avrebbero costituito una miniera aggiuntiva di informazioni. Dopo la scomparsa di Daniele, non ho più scritto una parola per un pezzo. Ho letto soltanto.

È stato Sartre che mi ha salvato dalla solitudine. In compagnia del suo Roquentin, tante volte ho cenato al Ritrovo dei Ferrovieri e qui ho ascoltato Some of These Days. Gli ho girato la domanda che Sartre sembrava rivolgere a me: perché scrivi? Ho chiesto a Roquentin se lui scrivesse per essere letto. Se scrivesse per qualcuno. Se avrebbe scritto in un’isola deserta. Il personaggio di un libro non sa neppure che esisti. Sei tu che puoi parlare con lui, non lui con te.

Roquentin non mi ha mai risposto e solo molto tempo dopo mi sono risposto da solo. Perché scrivo? C’è chi pensa per lasciare un messaggio. No! Per me – ma vale solo per me – la risposta giusta è tutta qui: per seguire una storia. Come in un labirinto percorro una strada, cercando l’uscita. Mi domando: perché dovrei pensare, in quel momento, chi mai verrà ad accogliermi quando sarò fuori? Se in qualche modo ne uscirò, racconterò la mia esperienza: parole e ricordi si confonderanno; ma fintanto che sarò nel labirinto penserò unicamente alla via giusta da imboccare.

Sono uscito dal labirinto? Evidentemente no, perché è bastato un niente per suscitare l’idea di continuare a scrivere le pagine interrotte. Questa volta il niente è stato un’intervista di Antonio Gnoli a Marina Giaveri, esperta di Paul Valéry. Che c’entro io con Paul Valéry? Niente, appunto, se non consideriamo che ad un certo momento dell’intervista Marina Giaveri ha ricordato di avere avuto la fortuna di conoscere e frequentare la moglie e le figlie di Valéry.

«Vivevano a Parigi in un bel palazzo ottocentesco disegnato da Berthe Morisot per la propria famiglia. Jeannie Gobillard, moglie di Valéry, era infatti nipote di Berthe Morisot e abitava lì con la sorella e la cugina Julie Manet, il cui zio era Édouard Manet, il pittore. Le tre ragazzine avevano avuto come tutore Mallarmé, alla cui morte subentrò Renoir. Dopo il matrimonio di queste ragazze, ogni coppia occupò un piano del palazzo».

Un bel condominio, non vi pare? «La casa che ho frequentato – continua Giaveri – aveva quadri ovunque e non robetta, ma dipinti di Renoir, di Degas, di Berthe Morisot e poi disegni. Renoir, affettuosissimo tutore, mandava alle tre ragazzine cartoline “fatte a mano” da lui, cioè quadretti rettangolari su cartoncino che affrancava e spediva». Fantastico ritratto di famiglia in un interno, che a saperlo leggere fa capire come vita, letteratura, arte, s’intrecciano nella dimensione reale della quotidianità.

Finché non ho letto per la prima volta la vita di Manet sulle pagine di Étienne Moreau-Nélaton, la versione originale dei Ricordi di Antonin Proust, pubblicati su La revue blanche, era stata la mia guida principale. Di Antonin Proust non menzionerei neppure la versione rivista e corretta all’inizio del secolo scorso, che a volte i testi critici citano. Intorno a queste memorie ho costruito l’intera bibliografia, rigorosamente francese e d’epoca. Per narrare di un Manet “raccontato da lui stesso”, confrontato con l’immagine restituita dagli amici più cari. Ora, dopo gli anni giovanili, vorrei continuare.

Continuare anche con l’aiuto di Étienne Moreau-Nélaton, che non è un biografo come gli altri. Nel corso della sua esistenza ha scritto, ma soprattutto ha collezionato e poi donato allo stato francese un gran numero di capolavori, oggi ammirati al Louvre o al Museo d’Orsay: l’Olympia e Le déjeuner sur l’herbe di Manet, il Campo di papaveri ad Argenteuil di Claude Monet, La caccia alle farfalle di Berthe Morisot, l’Hommage à Delacroix di Henri Fantin-Latour e tanti altri ancora.

Mi interessa sapere di più sulle vicende personali del collezionista, oltre a quelle di Manet, come mi interessano le vicende che riguardano coloro che del pittore hanno scritto. Come si può comprendere, ho da leggere a vita! Mi sono infilato di nuovo nel labirinto e ora mi tocca trovarne l’uscita. Ma che importa? Io in certi labirinti ci vivo benissimo.