“Bonjour Tristesse”
il nome dei contesti difficili
nelle nostre città
di Sergio Bertolami
Come immaginereste di conversare con un premio Nobel? Né più né meno, come fareste con un amico, ve lo assicuro. Questo perché Eduardo, nel 2011, è stato insignito del Nobel dell’architettura, denominato per l’esattezza Pritzker Prize. Ma all’epoca non lo avrei immaginato.
In verità, recandomi al Jolly Hotel di Messina, credevo che avrei incontrato Álvaro Siza Vieira (Pritzker Prize 1992) e non conoscevo affatto Eduardo Elísio Machado Souto de Moura, questo è il suo nome per esteso. Me lo ha ripetuto più di una volta e, visto che stentavo a comprendere, si è quasi scusato aggiungendo: «Noi in Portogallo abbiamo nomi molto lunghi». Se non lo avessi seguito negli anni per la sua fulgida carriera oggi fisicamente stenterei a riconoscerlo, perché allora, nel 1985, era magrissimo almeno quanto me. Scoprimmo pure di avere la medesima età e la stessa attenzione per il modernismo. Grande quanto la nostra diffidenza per il postmoderno allora in voga.
Ne parlammo a lungo quel pomeriggio, ed è come se anche Siza fosse lì con noi. Chiesi notizie a Eduardo sull’edificio del suo amico e maestro che in quei mesi impazzava sulle riviste di architettura. Parlo di “Bonjour Tristesse” a Berlino, nel quartiere di Kreuzberg, primo progetto realizzato da Siza all’estero. Un edificio d’angolo, armoniosamente arrotondato, concluso con un attico alto recante quello che potremmo immaginare come un occhio di ciclope.
Strana quella scritta “Bonjour Tristesse”, a cavallo dell’occhio, realizzata da un writer che, grazie a quel nome espressivo e criptico, aveva attirato l’attenzione. Eduardo non seppe dirmi di più, se non che era la riprova di come quel palazzo d’appartamenti, costruito sulle macerie della guerra per una popolazione multietnica, potesse rappresentare un’architettura partecipata, dove ognuno ci avrebbe messo del suo.
Era esattamente il contrario dell’architettura “di carta” – così definì la corrente postmoderna – osannata in quegli anni per puro divertimento scenografico. Oggi ci riferiremmo a molti rendering di Photoshop, begli scorci da rivista che una realizzazione non la vedranno mai. Concordammo, invece, che in città (problematiche) come le nostre, a Messina come a Oporto, dovevamo impegnarci ad uscire dagli schemi, per appropriarci di nuovo della tradizione e rigenerarla nella contemporaneità. Ci credevamo e non erano soltanto parole.
Non siamo rimasti soli quella sera, perché attendevamo Vittorio Gregotti – stanco del viaggio e desideroso di un buon caffè – e Mario Botta. Quando anche l’architetto ticinese si unì a noi, fu la reazione di Eduardo che mi stupì. Con grande affabilità Botta lo salutò abbracciandolo. «Lei mi conosce?» balbettò sorpreso Eduardo. Botta era assurto in quegli anni alla fama internazionale per una serie di opere realizzate soprattutto a Lugano. Ricordava che si erano già conosciuti in un convegno, presentati da Álvaro Siza.
Eduardo mi confessò nei giorni successivi che, durante il colloquio fra quei due protagonisti di spicco, lui credeva di essere risultato del tutto indistinto, se non addirittura evanescente. È la sensazione di quando si è ancora agli inizi, giovani e sconosciuti.
Il tempo stringeva e io dovevo iniziare la mia intervista. All’interno dell’ufficio stampa ero incaricato di tenere i contatti con gli otto gruppi di progettisti, coordinati da personalità provenienti da università italiane e straniere. I loro laboratori avrebbero dato vita, per un’intera settimana, al “Simposio internazionale di progettazione su L’isolato di Messina”, in previsione del nuovo Piano Regolatore Generale.
Gregotti, Botta, Souto de Moura, erano gli ospiti che quel pomeriggio, avrebbero avviato la serie dei convegni paralleli. Gregotti stava per assumere la direzione di Casabella, che insieme a Domus è ancora oggi una delle due più prestigiose riviste italiane di architettura. Casabella n. 523 riguardò interamente l’isolato di Messina.
Quella sera, scrivere il mio articolo fu un soffio. Via Ansa, fu trasmesso alle redazioni di quotidiani e riviste. Per sette giorni il padiglione 2 della Fiera di Messina divenne il cuore progettuale della città. Giorno e notte ci “nutrimmo” soltanto di architettura. A pranzo o a cena, ininterrottamente, si continuava a discutere e alle quattro del mattino nel padiglione tutto illuminato trovavi pure chi era rimasto a disegnare. Allo sfinimento.