Girl with Balloon 
o There is Always Hope, versione in South Bank.

Vi posso assicurare che più invecchio più vedo bene intorno a me. Vedo purtroppo che i miei maestri – quelli che ci hanno reso persone migliori, persone più ricche – stanno cadendo come birilli, e vedo pure che la banalità è dilagante, che l’individualismo trionfa e che gli arrampicatori sono sempre infaticabili.

Fortuna è che mi tengo fuori da ogni competizione, forse perché sono un asino. Sono un asino come lo era, prima di me, Le Corbusier. Come lui anche io «sono un asino ma che ha l’occhio. Si tratta dell’occhio di un asino che ha la capacità di sensazioni. Sono un asino con l’istinto della proporzione: sono e rimango un visivo impenitente».

L’architetto Le Corbusier al tavolo da disegno

Sono un asino, però, che a differenza di molti ha desiderio di conoscenze. Che tipo di conoscenze? Quelle inerenti al sentire di chi svolge un attività strettamente collegata alla cultura. A pensarci, mi sovviene di un tipo che aveva trascorso molti anni all’estero, ricoprendo posti di responsabilità. Mi confessò che quando era con me si sentiva in imbarazzo… Per cosa? per la mia “troppa cultura”. Figurarsi! Esiste davvero la “troppa cultura”? E che cultura potevo avere allora poco più che trentenne?

Penso, in verità, che quel tipo volesse dire semplicemente che gli risultavo indigesto e che un granulato alimentare effervescente non gli bastava a combattere acidità e pesantezza di stomaco. Capita, qualche volta, di imbattersi in chi teme – nel proprio confronto tutto mentale – che si voglia imporre qualcosa a qualcuno. Non è affatto così. Io non dico a nessuno come sedere a tavola in modo composto o come usare correttamente le posate. Oppure come devi preparare un Negroni. E neppure di acquistare un giornale, anziché “cazzuliare” su internet e convincerti alla fine che la terra è piatta.

Una parente “romana de Roma” un giorno mi disse: «A Se’, ma che ce farai co’ tutta ‘sta curtura?». Le avrei risposto volentieri: Che te frega? Ma allora ero troppo educato. Ora, ditemi che centro io se c’è gente che non legge manco le parole crociate? Che viva come vuole! Se io passeggio con Henry van de Velde, morto da quasi settant’anni, e un altro non sa neppure chi sia Banksy, che è vivo e vegeto, cosa dovrei fare? Stare zitto e non fiatare? Gli ho spedito su WhatsApp “Girl with balloon”. Sono sicuro che conosceva questo famoso graffito, ma non lo ricordava. E se non lo conosceva, ora lo conosce.

Ve ne racconto una, capitata proprio ieri. Mia moglie, vedendomi scrivere sull’Arte del Novecento, ha tirato fuori chissà da dove un mio vecchio ritaglio di giornale. Un’intervista a Picasso ancora vivente. Lo sapete che data porta quell’intervista? Epoca n. 943 – 20 ottobre 1968. A quel tempo combattevo al liceo col greco e col latino, ma evidentemente non rinunciavo a guardare anche ai maestri dell’arte contemporanea. Leggevo poeti come Rainer Maria Rilke o Rabindranath Tagore e filosofi come Jean-Paul Sartre o Herbert Marcuse. Autori amati da noi ragazzi di quegli anni.

In seguito, non ho mai partecipato come relatore a un convegno o svolto una lezione leggendo un foglio scritto, ma ho sempre parlato a braccio e coinvolto i presenti. Alla fine di un intervento, durante il quale di sfuggita avevo citato Eraclito di Efeso, un dirigente in pensione, che come me aveva frequentato il Classico, mi ha detto: «Mi hai fatto tornare la voglia di riprendere i libri in mano». Io, al contrario, non ho mai smesso.

Un giorno, guardando nella mia libreria il maggiore fra i poemi di Torquato Tasso, che porta per titolo “La Gerusalemme liberata”, sono stato preso dallo sconforto. E spiego subito perché. Perché io odio quel libro, come odio gran parte della letteratura studiata solo per sostenere esami e non per apprezzarla. Allora, mi sono detto: morirò, ma non lo leggerò mai, questo libro.

Poi, però, ho pensato a quanti altri libri non leggerò mai, quanti luoghi non vedrò mai, quante persone non conoscerò mai. E ogni volta che mi accade di pensarci, mi assale la voglia di sentirmi vivo. Forse è per questo che a qualcuno risulto indigesto. A voi capita? A me sì, pure quando sto in silenzio, per i fatti miei. Ad esempio, quando in fila dal medico attendo una visita di controllo, leggendo di Georges Simenon uno dei suoi meravigliosi “romanzi duri”. Mentre gli altri, annoiati, fanno lo scroll del cellulare.

Se qualcuno mi spiegasse perché un integratore effervescente a molti non è sufficiente, lo colmerei di gratitudine. Almeno proverei a migliorare. Agli inizi della professione lo chiesi a Umberto, il mio collega di studio, che in tutta sincerità si espresse così: “Tu sei la mia buona coscienza, ma io mi piaccio così come sono”.

Ergo (che, tradotto a chi conosce solo l’inglese, in latino significa dunque) suscito negli altri la loro buona coscienza, ma se ne infischiano. Lo sappiamo: errare humanum est. Ma perseverare autem diabolicum. Che sia questa la risposta al perché a certuni si può risultare indigesti? In altre parole: istintivamente, intimamente, molti pensano quello che anche loro potrebbero fare, ad ogni piè sospinto, ma non hanno mai avuto voglia di farlo. E sanno che non lo faranno mai.