Leonardo Bufalini, Pianta di Roma nel 1551

L’altra sera ho veduto la puntata della “Torre di Babele” incentrata su “I segreti del Vaticano”. Lo straordinario Corrado Augias ne ha discusso con il giornalista Massimo Franco e il prefetto dell’Archivio Apostolico Vaticano Monsignor Sergio Pagano. L’archivio centrale della Santa Sede un tempo era Secretum, ma entrarci oggi non significa avere accesso ad arcani recessi. Non c’è niente di misterioso, inaccessibile, impenetrabile.

L’Archivio Vaticano contiene dodici secoli di storia pontificia. Eppure, Augias, come ogni giornalista, cercava di rinvenire ciò che sostanzialmente non poteva esserci. Questo perché certi atti non sono stati ancora “versati”. E non sono stati versati, cioè depositati, non perché qualcuno abbia voluto nasconderli, ma per il semplice motivo che non sono ancora maturati i tempi prescritti dalle leggi vaticane.

Chi non è mai entrato in un archivio probabilmente immagina oscuri corridoi pieni di scaffalature straboccanti di faldoni sfasciati e impolverati. Al contrario un archivio, a prima vista, si potrebbe confondere con una biblioteca ben organizzata, dove anziché leggere libri gli studiosi esaminano attentamente carte di natura diversa.

La puntata di Augias mi ha riportato alla memoria una selezione di carte topografiche sullo sviluppo urbanistico di Roma, reperite agli inizi degli anni Settanta proprio all’Archivio Vaticano. Nessun segreto è saltato fuori dall’ombra, pur tuttavia intorno a quelle carte ho programmato il mio primo esame alla facoltà di architettura.

Quale tema di analisi mi era stato assegnato il Tridente di Piazza del Popolo da cui si diramano, come i tre rebbi di un arpione, Via del Babuino, Via del Corso e Via di Ripetta. I miei studi universitari iniziavano da qui. Da queste tre strade, di cui non conoscevo nulla, se non il freddo che pativo la mattina, percorrendole in lungo e largo, mentre aspettavo che si schiudessero i battenti dello storico palazzo di Piazza Borghese in cui si teneva il corso di Disegno e Rilievo.

Mi trovavo nel cuore della Roma barocca. Un cuore stupendo, ammaliante. Ne scorrevo le immagini fotografiche (all’epoca rigorosamente in bianco e nero) su di un libro del Touring Club che si apriva con un’introduzione del prof. Italo Insolera. Così, alla prima pensai di rivolgermi all’illustre architetto, visto che quel libro era di sicuro un buon punto di partenza.

Secondo le indicazioni del corso avremmo dovuto analizzare i sistemi di rappresentazione adottati al mutare dell’immagine urbana di Roma. Dove scovare, dunque, le planimetrie sviluppate nel corso dei secoli, se non all’Archivio Vaticano? Fu questo il pensiero di chi non si poneva il problema di volare troppo alto.

Giovanni Maggi, Pianta di Roma nel 1599-1600

Non avevo proprio idea che stavo imboccando un’autostrada senza avere manco la patente. Non conoscevo neppure la differenza tra fonti di prima e di seconda mano, come dire l’ABC. Non sapevo… che fosse impossibile farlo e per questo l’ho fatto. A pensarci oggi – mentre gli echi del sessantotto non erano ancora sfumati – quella mia bell’aria pulitina-pulitina, i modi garbati con cui mi porgevo, facevano sì che mi si prendesse in simpatia e ognuno mi indirizzasse al meglio.

Per farla breve, selezionai una quantità di carte che risalivano nel tempo. Cito a memoria, qui e là: la pianta disegnata da Leonardo Bufalini nel 1551, da Giovanni Maggi nel 1599-1600, da Antonio Tempesta nel 1661-1662, da Giovanni Battista Nolli fra il 1736 e il 1744, le piante degli istituti cartografici militari preunitari e postunitari. Insomma, un buon numero di stampe le cui note su di ciascun autore – indicato come falegname, oppure intagliatore, misuratore o architetto – mi riempivano il cuore e la mente.

Il problema furono le riproduzioni, perché occorreva l’ausilio di un fotografo professionale. Il costo non fu indolore, ma “c’est la vie – prendila come viene”, recita il titolo di un film spassoso.

Giovanni Battista Nolli, Pianta di Roma nel 1736-1744. Quadro di Unione

Nel giro di qualche settimana imparai a muovermi nell’Archivio Vaticano, ma anche nella Biblioteca Nazionale, che allora aveva ancora sede in via del Corso. Occorreva, infatti, spiegare ciò che le carte rappresentavano e per questo applicarsi su considerevoli letture.

L’entusiasmo che trasfondevo nelle mie ricerche, i documenti che producevo, avevano cominciato a creare intorno a me all’interno del corso un clima effervescente. Fu predisposta una lettera di presentazione ufficiale, e ottenni così di poter richiedere libri che normalmente erano concessi solo per le tesi di Laurea.

Le bibliotecarie mi riempivano di cortesie e mi accontentavano con premura. Ero diventato la loro mascotte. In sala lettura, dove distinti signori erano a capo chino sui volumi, non mancava qualche anziano professore che mi rivolgesse encomi, vedendomi così giovane. «Mio Dio… se tutti gli studenti fossero così», era la frase più ripetuta.

Andò avanti in questo modo per tutto l’inverno del primo anno, raccogliendo documenti e appunti, foto e disegni. A primavera, quando le lezioni finirono, tornai a casa e nella pace assoluta mi concentrai sulle tavole da presentare agli esami. La sorpresa fu quando, a pochi giorni dalla data, giunsi alla stazione Termini e per prima cosa telefonai all’assistente del professore.

Non avrei dovuto sottovalutare il giusto savoir-faire e scordare di mantenere le formalità. Lo avrei imparato crescendo. Ero di nuovo a Roma “per fare esami” e cortesemente chiedevo un’ultima revisione. Più o meno dissi così all’architetto, ma la sua risposta fu quantomeno scontrosa: «Nessuna revisione, ci vediamo direttamente il giorno dell’esame». Voleva dire – come mi spiegò su mia insistenza – che la decisione di presentarmi o meno all’appello non spettava a me, ma era subordinata al suo giudizio. In verità ero cosciente del lavoro svolto, ma le regole andavano comunque rispettate.

Il giorno stabilito, alla fine di una estenuante, caldissima, mattinata la commissione d’esame passò al setaccio ogni mio disegno. Ebbi modo d’illustrare la sequenza di planimetrie e mettere in luce quel meraviglioso contesto urbano che da Piazza del Popolo si estende ben oltre Piazza di Spagna. Indimenticabile, per me, fu quando il professore si accinse a firmare il libretto.

Quello che prevedevo come il mio primo esame, in effetti, risultò il secondo. Dal voto della prova già superata, con sorpresa i presenti si resero conto in quel momento che ero io lo studente di cui si vociferava da giorni nella sede di piazza Borghese. Il professore posò il libretto, si appoggiò allo schienale e sorridendo disse: «Ti metterò trenta e lode, se mi sveli il tuo segreto. Che lavoro hai presentato per prendere trenta e lode persino con Pasquale Carbonara?». Ma di questo, forse, scriverò un’altra volta.