Foto di Sabine van Erp da Pixabay
Foto di 인창 김 da Pixabay

Ho terminato di leggere la conversazione che Antonio Gnoli ha intrattenuto questa settimana con Fusako Yusaki, nata e cresciuta sull’isola di Kyushu, la parte meridionale del Giappone, e stabilitasi da noi in Italia sessant’anni fa. Una designer, un’artista della plastilina, materiale morbido e plasmabile che lei ha saputo adoperare per creare «immagini in trasformazione capaci di esprimere una grande energia».

Fuori dalla mia finestra il cielo è grigio, carico di pioggia, e nonostante tutto appaia immobile, a fare attenzione, si percepisce un leggero movimento. Il vento fa vibrare la tenda di un balcone, un uccello staziona appollaiato su di una antenna televisiva che sembra cullarlo, piccoli nembi si allontanano dal mare.

«Gli oggetti ci parlano. È come se si animassero. Sono l’ultimo confine della nostra immaginazione», chiude così Fusako il suo colloquio. Ma è come se avesse consegnato a noi il testimone di un’immateriale staffetta.

Chi ha letto “Altri colori” di Orhan Pamuk mi può capire. «Come fate a dormire se gli oggetti vi parlano?». Se lo chiede, e ce lo chiede, anche questo penetrante scrittore turco. Gli capita quando di notte si alza dal letto e guarda il pavimento: ogni piastrella ha delle righe e ogni riga è diversa dall’altra.

«So che a volte anche voi ci pensate… Ma non ammettereste mai che pensate a cose del genere. Nemmeno io. E non lo dico a nessuno. Per esempio, non dico a nessuno che le bottiglie vuote davanti alla porta non sono in armonia né tra loro, né con il mondo. O che le porte semichiuse o semiaperte costituiscono una fonte di speranza, che i motivi a forma di chiocciola sulla tappezzeria della poltrona sussurrano senza sosta fino alla mattina questa frase: “Noi continuiamo ad attorcigliarci, ma nessuno se ne accorge”».

Vi assicuro che, quando capita, è come stare dentro un quadro surrealista di René Magritte. A casa mia, le rose del rivestimento “en tissus” – che ho montato a parete come citazione di fine Ottocento – sanno trasformarsi ai miei occhi nelle mele verdi dell’artista belga. Magritte era definito un “saboteur tranquille”. Ugualmente mi sento io: un perturbatore silenzioso della piatta normalità.

Ma non siamo i soli. A tutto questo tante persone potrebbero non rimanere indifferenti.