Graphos
Esempio di un progetto architettonico stampato con procedimento cianografico

Un rotolo di carta da spolvero

Se chiedessi a un giovane architetto di prendermi una cianografia, penso che avrebbe qualche difficoltà a capirmi. Lo stesso varrebbe se gli chiedessi cos’è la carta da spolvero o che farci con la carta da fiori. Quando sono partito per Valle Giulia mio padre mi regalò il suo Graphos corredato di pennini e le sue squadrette di legno. Un regalo che aveva qualcosa di sacrale, quasi fossi un crociato alla volta della Palestina che riceveva la spada di mille battaglie.

Tutte cose comuni che restituiscono, nei miei ricordi dei primi anni di università a Roma, l’immagine di quelli che erano gli studi di architettura di noi squattrinati. Vivevamo fuori casa da veri bohémien. Accomodavamo il nostro “spazio esistenziale” nel tentativo di farlo assomigliare, «più che all’alloggio di un artista romantico, alla casa di uno studente di architettura ben organizzato». Tra virgolette leggete Bleyl atterrito dallo stato confusionario in cui Kirchner teneva il loro ambiente di lavoro, quando insieme studiavano architettura a Dresda.

Ma questa era la situazione degli studenti fortunati, quelli che potevano permettersi un locale tutto loro. Io invece abitavo nella stanzetta di una pensione nella quale mi era difficile persino girarmi. Un giorno la proprietaria mi chiamò per dirmi, con tatto, che non potevo ricevere uomini in camera. Trasecolai.

Spiegai che, dovendo sostenere esami di gruppo, sul letto stendevamo le cianografie e sul minuscolo tavolinetto, su cui studiavo teoria, cercavamo di preparare, pezzo per pezzo, i sottolucidi con carta da fiori. Alla fine, prospettai di lasciare la porta spalancata. Forse, più che la proposta fu la mia aria di sbarbatello a convincere la gentile signora a darmi le chiavi di un intero appartamento vuoto nello stabile frontestante l’hotel. Fintantoché Roma non si fosse riempita di turisti estivi, mi offrì un’ampia stanza di ben tre letti allo stesso prezzo.

La soluzione non risolse affatto le mie esigenze di disegno, ma quando penso a quella stanza, che traballava tutta ad ogni passaggio del tram, mi è rimasto stampato in mente il sorriso gioioso delle cameriere nel consegnarmi la posta. Avevano imparato a riconoscere le “lettere della fidanzata”, un bel formato americano su di una raffinata carta gris bleuté chiarissima.

Erano, però, gli studi dei miei amici che mi stregavano. Pieni di fotografie e schizzi attaccati ai muri, libri e materiali da disegno sparsi dappertutto. Il colore di fondo era il giallo paglierino della carta da spolvero. Ogni piano adattato al disegno era ricoperto in carta da spolvero. Tanto resistente era, che si adoperava abitualmente per confezionare e imballare pacchi. È che noi ci imballavamo tutto: tavoli, paralumi, scatole riciclate (piene di graffette e puntine metalliche, pennarelli, matite colorate, gomme di ogni tipo).

Quanti oggetti spariti! Pamuk ne farebbe un museo. Io, come Pamuk, sono innamorato degli oggetti. Raccontano la tua vita, la tua individualità. Come quando ascolti la tua musica e ogni volta rammenti piccole storie.