Nel romanzo, la trama è tornata centrale per difendere la narrazione

Una storia si può raccontare in mille modi

Per decenni la “trama” è stata considerata con sospetto nei circoli letterari più esigenti. Associata a un’idea di letteratura popolare e accessibile, ha finito per incarnare tutto ciò che certa critica ha voluto escludere: l’emozione, il coinvolgimento, il piacere della lettura. Eppure, proprio questo atteggiamento, che ha radici nelle sperimentazioni avanguardistiche del secondo Novecento, oggi appare datato. Anzi, paradossalmente, è diventato il vero oggetto di una critica che ne denuncia il vuoto culturale. Perché la trama, nel romanzo, è tornata centrale. E non come concessione commerciale, ma come necessità espressiva.

La letteratura ha conosciuto una lunga stagione in cui il racconto lineare è stato messo in discussione, se non addirittura liquidato. Dalla Nouvelle Vague editoriale al cosiddetto “antinovel”, il Novecento ha visto una profonda sperimentazione narrativa: scomposizione del tempo, uso del monologo interiore, rifiuto della psicologia borghese, frammentazione e ibridazione dei generi. Ma questo processo non è iniziato nel Novecento. Già tra Settecento e Ottocento il romanzo, divenuto il genere dominante della modernità, ha conosciuto una straordinaria varietà di forme: dal romanzo epistolare alla saga familiare, dal romanzo storico a quello d’avventura. Il denominatore comune, però, restava la volontà di raccontare: qualcosa, qualcuno, in un tempo e in un luogo riconoscibili.

Il Libraio – Saghe familiari per viaggiare nel tempo e nello spazio

Nel corso dell’Ottocento, da Balzac a Tolstoj, da Flaubert a Dickens, la narrativa si fondava su una struttura forte: intreccio, personaggi memorabili, tensione tra attese e risoluzioni. La modernità letteraria, però, ha presto preso un’altra strada. Con l’esplosione delle avanguardie storiche, la trama ha cominciato a pesare come una colpa. Il Gruppo 63, in Italia, portava avanti una battaglia programmatica contro il “romanzo tradizionale”, accusato di essere reazionario. La narrativa di massa, liquidata come “lialesca”, veniva messa all’indice in favore di scritture sperimentali, spesso ermetiche, intenzionalmente ostiche.

A farne le spese fu anche Elsa Morante, che con La Storia (1974) tentò un ritorno consapevole a un grande romanzo popolare, epico, carico di emozioni. La critica, soprattutto quella ideologicamente orientata, fu feroce. A Morante venne rimproverato di indulgere nel pathos, di “commuovere”, perfino di non voler parlare davvero di storia, preferendo un’umanità miserabile e poetica a una visione strutturale delle lotte di classe. Eppure, con il senno di poi, proprio quel romanzo ha rappresentato un rinnovamento. Non un ritorno all’indietro, ma un gesto radicale: quello di ridare al lettore una narrazione ampia, stratificata, partecipata.

Oggi quella diffidenza nei confronti della trama mostra tutte le sue crepe. L’identificazione tra letteratura alta e racconto destrutturato non regge più. I lettori contemporanei si muovono liberamente tra Joyce e Stephen King, tra Maggie Nelson e Joël Dicker, dimostrando che la dicotomia tra cultura alta e bassa non ha più presa. Come ha osservato Roberto Cotroneo, le avanguardie sono un momento storico, non una norma universale. E, va detto, nemmeno Joyce si è mai pensato come autore di “avanguardia”.

La rinascita della trama si lega anche alla capacità della narrativa – sia essa letteraria, cinematografica o seriale – di veicolare significati complessi attraverso forme apparentemente semplici. Lo dimostra, per esempio, la serie “Midnight Mass” di Mike Flanagan, che parte da un impianto narrativo gotico e lo trasforma in una riflessione profonda sulla comunità, sulla fede, sulla morte. Una storia di vampiri che diventa romanzo dialogico, costruito non sull’azione, ma sulla parola. E che riesce a emozionare senza banalizzare.

È questo, forse, il punto centrale: la trama non è in sé un limite, lo diventa solo quando viene trattata con superficialità. Come la lingua, il ritmo, l’uso della voce narrante, anche la costruzione di una storia può essere raffinata, sfaccettata, innovativa. I romanzi con una forte architettura narrativa non sono, per questo, meno letterari. Anzi, spesso riescono a raggiungere un pubblico più ampio proprio perché la loro forma non è ostile.

D’altra parte, la storia del romanzo è fatta di continue ridefinizioni. Il Don Chisciotte di Cervantes, considerato il primo grande romanzo moderno, nasceva già come parodia di un genere letterario: il romanzo cavalleresco. Ma in quel gioco di specchi si innestava qualcosa di nuovo, una visione del mondo moderna, individualista, critica. Nei secoli successivi, il romanzo ha continuato a raccontare la complessità dell’esistenza attraverso una pluralità di forme: la confessione epistolare di “Pamela”, la coralità dei Buddenbrook, la distopia di Orwell, il flusso di coscienza di Woolf, il labirinto borgesiano di Eco. Sempre, però, con una struttura narrativa che faceva da spina dorsale.

Nel secondo Novecento, e ancor più oggi, la trama è tornata ad essere anche uno strumento politico. Raccontare storie significa dare voce, restituire esperienza, costruire empatia. Significa riappropriarsi del diritto di sentire, di partecipare. La condanna della trama, come osservano molti autori contemporanei, è spesso una condanna implicita di ciò che è popolare, accessibile, condiviso. Ma la cultura non è (e non dovrebbe essere) un campo di esclusione.

In un tempo dominato da narrazioni semplificate, fake news, storytelling manipolatorio, il romanzo che sa raccontare bene è un baluardo di complessità. La “trama” non è l’opposto della letteratura, è un suo ingrediente necessario. Il suo ritorno, oggi, non è una nostalgia del passato, ma una nuova affermazione di vitalità narrativa. Dopotutto, chi scrive cerca sempre di rispondere a una domanda fondamentale. E forse, come suggeriva Douglas Adams, la risposta è ancora “42”. Oppure, semplicemente, “c’era una volta”.


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L’umanista che ha insegnato al mondo a non distogliere lo sguardo

Tra denuncia e speranza, il fotografo brasiliano scomparso nel 2025 ha trasformato la macchina fotografica in uno strumento di militanza visiva. Testimone dei drammi dell’umanità, ha restituito dignità alle sue ferite e bellezza alle sue sopravvivenze.


Quando Sebastião Salgado affermava di «sentire il bisogno di essere parte di ciò che stava fotografando», non parlava solo del proprio metodo di lavoro. Descriveva, in realtà, una vocazione totalizzante, quasi sacrale, a cui ha consacrato l’intera esistenza. Nato ad Aimorés, nello Stato brasiliano del Minas Gerais, nel 1944, ed entrato in contatto con la fotografia solo dopo una prima formazione da economista, Salgado ha attraversato decenni di conflitti, migrazioni e collassi ecologici con uno sguardo che non si è mai limitato a registrare, ma che ha sempre voluto comprendere, farsi carne del mondo che documentava.

Scomparso il 23 maggio 2025 a Parigi, la città dove aveva scelto di vivere, Salgado lascia un’eredità che va ben oltre l’opera fotografica. Le sue immagini – dense, severe, ma anche capaci di una bellezza primordiale – raccontano l’umanità nei suoi estremi: la crudeltà e la grazia, la devastazione e la resilienza. E lo fanno con una cifra stilistica inconfondibile: il bianco e nero non come scelta estetica, ma come necessità etica. «Il colore distrae», diceva. Nella dicotomia fra luce e ombra, Salgado trovava la verità.

L’economista diventato testimone

Il percorso che lo ha condotto alla fotografia è già di per sé singolare. Laureato in economia e statistica, Salgado approda al fotogiornalismo dopo una missione in Africa come consulente della Banca Mondiale. Ma le cifre non gli bastano: è l’esperienza concreta dei luoghi e delle persone che lo spinge a impugnare per la prima volta una macchina fotografica. Il reportage sulla siccità del Sahel, realizzato nel 1973, è la sua prima grande inchiesta visiva, seguita da un’indagine sulle condizioni dei migranti in Europa.

Inizia così una carriera che lo porterà, negli anni successivi, a entrare in alcune tra le più importanti agenzie fotografiche del mondo. Prima Sygma, poi Gamma e infine, nel 1979, la leggendaria cooperativa Magnum Photos, simbolo della fotografia d’autore e del reportage di impianto umanistico. Salgado ne esce nel 1994 per fondare, insieme alla moglie e collaboratrice Lélia Wanick Salgado, la propria agenzia indipendente: Amazonas Images, interamente dedicata alla produzione e alla diffusione del suo lavoro.

Un atlante della condizione umana

I progetti di Salgado non si sono mai limitati al gesto dello scatto. Erano vere e proprie esplorazioni tematiche, sviluppate lungo archi temporali estesi, con uno scrupolo da antropologo e la radicalità di un attivista. Per sei anni viaggia attraverso l’America Latina per documentare le condizioni dei contadini e delle popolazioni indigene. Il risultato è Other Americas, pubblicazione densa e potente, seguita da un’opera ancor più ambiziosa: La mano dell’uomo (1993), un monumentale reportage sul lavoro nei settori produttivi di base, che ha fatto il giro dei più importanti musei del mondo.

Nel decennio successivo, Salgado concentra il suo sguardo sulle migrazioni umane. Ne racconta le cause e gli effetti, la sofferenza e l’ostinazione a vivere, nei volumi In cammino e Ritratti di bambini in cammino. Le immagini che scaturiscono da questi anni sono un pugno nello stomaco: masse in fuga, volti scavati dalla fame, mani tese, piedi nudi che calpestano terre ostili. «Ho visto cose che un uomo non dovrebbe mai vedere», dirà anni dopo nel documentario Il sale della terra, diretto da Wim Wenders insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado.

Il film, candidato all’Oscar nel 2015, è una testimonianza struggente della sua visione. Salgado non guarda mai dall’alto. Si immerge, si sporca, diventa parte di ciò che fotografa. Il suo è un viaggio senza retorica nell’umanità dolente, condotto con la pietas di chi sa che ogni vita merita di essere raccontata, ma anche con la rabbia di chi non accetta l’ingiustizia come destino.

Dal disincanto alla rinascita

Eppure, nemmeno un testimone come Salgado è rimasto indenne alla brutalità che ha osservato. Il punto di rottura arriva dopo il genocidio in Ruanda. Sconvolto da ciò che ha visto, smette di fotografare. Torna nella fattoria di famiglia nel Minas Gerais e trova la terra secca, disboscata, irriconoscibile. È il momento di un nuovo inizio: insieme a Lélia decide di riforestare quell’area devastata. Nasce così l’Instituto Terra, un progetto di riforestazione che nel tempo porterà alla piantumazione di milioni di alberi e alla rinascita di un intero ecosistema.

Da quel gesto germoglierà anche la sua opera forse più visionaria: Genesis. È l’altra faccia della medaglia, il controcanto necessario alle sue precedenti testimonianze. Dopo aver raccontato il collasso, Salgado cerca la purezza, l’origine, l’intatto. Viaggia nelle zone meno contaminate del pianeta: le Galápagos, l’Antartide, le foreste dell’Amazzonia, le tribù isolate, gli animali selvatici. È un inno all’Eden, un promemoria visivo che qualcosa di incontaminato ancora esiste, e che vale la pena salvarlo.

Fotografia come scelta morale

Tutta l’opera di Salgado è pervasa da una coerenza rara. Il suo bianco e nero, incisivo e drammatico, non è mai un artificio. È la rappresentazione di una visione del mondo dove l’ombra e la luce non sono semplici valori tonali, ma categorie morali. Fotografare non significa solo osservare: è un atto di partecipazione, di militanza, di assunzione di responsabilità. In questo senso, Salgado è stato molto più di un fotografo: è stato un interprete del nostro tempo, un custode delle sue contraddizioni, un poeta del dolore e della speranza.

Tra le sue immagini più celebri, restano impresse nella memoria collettiva il cratere umano di Serra Pelada, dove migliaia di minatori scalano pareti fangose in cerca di oro; il volto scheletrico di un bambino sopravvissuto nel Sahel; i profughi del Congo travolti dal panico; e, in Genesis, due leoni marini che si sfiorano con dolcezza sulle coste delle Galápagos. Ogni scatto è una soglia: ci chiama a guardare dove non vorremmo guardare, ad ascoltare ciò che preferiremmo ignorare.

Un’eredità viva

Nel 2013, Salgado sostiene pubblicamente la campagna di Survival International per la tutela degli Awá, la tribù più minacciata del Brasile. Le sue fotografie diventano strumento politico, veicolo di pressione internazionale, amplificatore di diritti negati. È l’ennesima conferma di un approccio che ha sempre messo l’umanità al centro, senza compromessi.

Alla fine del Sale della terra, Salgado riflette: «La fotografia è stata la mia vita. Ma la vita è qualcosa di molto più grande». È una frase che racchiude tutto il suo percorso. Le sue fotografie non sono solo documenti: sono tracce di una visione, frammenti di un’etica, testimonianze di un amore profondo – e a volte ferito – per l’essere umano.

Oggi che Sebastião Salgado non è più tra noi, resta la sua opera a guidarci. Le sue immagini continuano a parlarci, a interrogarci, a ferirci e consolarci. Ci ha lasciato un patrimonio visivo, ma anche – e forse soprattutto – un modo di guardare. Di non voltarsi dall’altra parte. Di credere che, anche nell’oscurità più fitta, possa ancora esserci una luce da custodire.


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Dai mercati rionali al thrifting: il ritorno dell’usato tra moda, ambiente e cultura

Dimenticate l’idea del mercato rionale come luogo periferico, riservato a chi cerca solo il risparmio. Oggi, tra le bancarelle di abiti e oggetti usati, si aggirano influencer con lo smartphone puntato sui capi da mostrare, giovani in cerca del pezzo vintage perfetto e turisti attratti da tour guidati nei mercati più iconici d’Italia. Il mercato dell’usato non è mai stato così al centro della scena. A muovere questa rinascita è un intreccio di fattori economici, culturali e ambientali che rispecchiano la trasformazione dei consumi contemporanei.

Il fascino della seconda mano: da necessità a tendenza culturale

Quello che un tempo era considerato un ripiego, oggi è diventato un gesto carico di significato. L’acquisto di seconda mano si è liberato dallo stigma sociale e si è caricato di un nuovo valore simbolico: è un atto di consapevolezza ecologica, una dichiarazione di stile personale, ma anche una forma di resistenza al consumo massificato. Lo conferma la diffusione del termine inglese “thrifting”, sempre più popolare anche in Italia, che racchiude l’arte di scovare occasioni uniche, ridando vita a ciò che è già stato usato.

La moda vintage, la ricerca dell’affare e una nuova sensibilità ambientale si intrecciano così in un fenomeno sociale trasversale. I mercatini dell’usato accolgono oggi tutte le fasce sociali e si presentano con un’offerta merceologica ampia e diversificata: dai mobili agli abiti, dai dischi alle curiosità da collezione. Alcuni si sono specializzati in settori precisi, come il modernariato, l’infanzia o i libri, mentre altri continuano a proporre una varietà di oggetti che sembrano usciti da una soffitta del Novecento.

Mercatino dell’Antiquariato e del Collezionismo – Mobili ed Oggetti Antichi ad Altivole

Un nuovo pubblico: giovani, social e cultura urbana

Una delle novità più rilevanti è l’abbassamento dell’età media dei frequentatori dei mercati. Ragazzi e ragazze li visitano non solo per acquistare, ma anche per vendere, creando intorno alla seconda mano una vera e propria estetica condivisa sui social. Video e post mostrano gli “haul” – le raccolte di capi trovati al mercato – con tanto di prezzi, consigli e abbinamenti. Alcuni creator si sono specializzati nella caccia al pezzo raro, magari firmato, trasformando le bancarelle in veri e propri luoghi di ricerca e selezione sartoriale.

L’interesse è tale che sono nate anche visite guidate ai mercatini. Non si tratta di esperienze turistiche tradizionali, ma di occasioni per imparare a distinguere un capo di qualità dal fast fashion, a trattare i tessuti in modo corretto, a riconoscere l’autenticità di un oggetto. Una forma di didattica urbana, spesso guidata da influencer o esperti di moda sostenibile, che mira a condividere competenze e coltivare un senso di comunità.

Dietro le quinte: il lavoro del mercatino

Il mondo dell’usato non è però solo una passerella per gli appassionati di moda retrò. Dietro le quinte, i mercatini rappresentano una filiera articolata che richiede competenze specifiche. Chi lavora nel settore deve avere una solida conoscenza della storia della moda, saper riconoscere i materiali, fare ricerche approfondite, valutare il valore commerciale degli oggetti. Il margine economico non si genera soltanto con la rivendita, ma attraverso un’attività complessa di selezione, restauro, presentazione.

I modelli organizzativi sono vari: ci sono mercatini basati sul conto vendita, altri che recuperano oggetti da attività di sgombero, e altri ancora che funzionano come veri e propri negozi sociali, gestiti da cooperative o associazioni. In questi casi, il ricavato finanzia progetti di inclusione lavorativa o attività di volontariato. Il valore dell’oggetto, dunque, non è solo commerciale, ma anche sociale.

Una coscienza ecologica in crescita

Un’altra componente chiave è quella ambientale. Acquistare o vendere usato significa ridurre la produzione di rifiuti e contenere il consumo di energia. Gli oggetti già prodotti incorporano quella che gli esperti chiamano energia grigia: acqua, petrolio e materie prime impiegate nella loro realizzazione. Dare nuova vita a un vestito o a un mobile significa evitare che quell’energia vada sprecata. È una logica circolare che risponde a una crescente sensibilità verso il cambiamento climatico e il consumo sostenibile.

Questa coscienza ha radici anche all’estero, dove il fenomeno dei mercatini dell’usato è più strutturato. Negli Stati Uniti i thrift shop sono una realtà consolidata, e il thrifting è entrato nel linguaggio quotidiano. In Australia si chiamano op shop, nel Regno Unito charity shop, legati a enti come la Croce Rossa o Oxfam, che aprì il suo primo punto vendita a Oxford nel 1948. In tutti questi casi, il riuso è un atto che intreccia etica, economia e stile di vita.

Una tendenza ciclica

Secondo molti sociologi, l’interesse per i mercati rionali è una tendenza ricorrente nella storia. Riappare in momenti di trasformazione sociale e culturale, spesso come reazione a modelli di consumo dominanti. L’attuale rinascita dei mercatini si inserisce in una più ampia ridefinizione dei valori legati al possesso, all’identità, alla sostenibilità. È un ritorno all’essenziale, ma anche una ricerca di autenticità, di storie, di relazioni che si intrecciano attraverso gli oggetti.

Così, tra le file di giacche anni ’80 e vinili anni ’60, il mercato dell’usato si riscopre luogo di cultura urbana, spazio sociale e laboratorio di consumo consapevole. Un punto di incontro dove passato e futuro si scambiano di posto, e dove il vintage smette di essere una moda per diventare una forma di pensiero.


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Quando anche bere diventa un’esperienza sensoriale

Fino a pochi anni fa, parlare di “acqua di lusso” poteva sembrare una provocazione. O una boutade da pubblicitari in cerca di originalità. Eppure oggi, in un panorama dominato dal culto della qualità e dell’origine, l’acqua sta assumendo un ruolo sempre più simile a quello del vino, del caffè o della birra artigianale: non solo una bevanda, ma un’esperienza. Con le sue fonti incontaminate, i suoi residui minerali, le sue sfumature di gusto. Una rivoluzione liquida che coinvolge sommelier, degustazioni, cantinette dedicate e persino influencer da milioni di follower.

A confermarlo sono le immagini che arrivano da eventi come il “Fine Waters Taste and Design Awards” di Atlanta, dove oltre cento varietà di acqua vengono degustate alla cieca da una giuria specializzata. I bicchieri sono gli stessi usati per il vino, i gesti pure: si osserva il colore, si ruota il liquido, si annusa, si degusta con lentezza. Ogni campione riceve un punteggio secondo criteri analoghi a quelli usati per i grandi rossi di Borgogna. Siamo nell’ambito raffinato della cultura del gusto.

Acqua fine: un concetto nuovo per un gesto antico

A guidare questo movimento è Michael Mascha, fondatore di Fine Waters e tra i principali promotori del concetto di “acqua fine”. Un’espressione che distingue l’acqua naturale non trattata, legata a un territorio e a una storia geologica precisa, dalle acque purificate o commerciali. Come accade per il vino, il terroir è tutto: la composizione del suolo, il tipo di roccia attraversato, la profondità della falda. L’acqua, insomma, racconta un luogo. E i consumatori – sempre più esigenti, consapevoli e attenti al benessere – sembrano pronti ad ascoltare.

Non è un caso se, negli Stati Uniti, il mercato dell’acqua premium rappresenta già il 15% dei 47,4 miliardi di dollari complessivi del comparto. Le bottiglie variano da pochi dollari a diverse centinaia, come nel caso della giapponese Fillico, prelevata sotto il Monte Rokko, venduta in flaconi decorati con cristalli Swarovski e pensata per collezionisti del lusso estremo.

Dal cibo all’acqua: nasce una nuova arte del pairing

Parallelamente al successo commerciale, sta emergendo una vera e propria arte della degustazione dell’acqua. Proprio come accade per il vino, anche per le acque minerali esiste una precisa metodologia di assaggio: si parte dalla temperatura – 11-13°C per le lisce, 8-10°C per le frizzanti – fino alla scelta dei bicchieri in cristallo, studiati per non alterare il flusso del liquido sulla lingua. La procedura è dettagliata: primo sorso per la freschezza, valutazione visiva della limpidezza e del perlage, test olfattivo per eventuali odori anomali, degustazione completa con attenzione al retrogusto e alla persistenza.

Le caratteristiche sensoriali dell’acqua – livello di residuo fisso, tipo e quantità di minerali, acidità, effervescenza – diventano criteri fondamentali per l’abbinamento con i cibi. Acque frizzanti e ricche di minerali si prestano a piatti grassi e saporiti, mentre acque piatte o poco mineralizzate si sposano meglio con pietanze delicate, come il pesce al vapore o un’insalata leggera. Il pairing (abbinamento) acqua-cibo, fino a poco tempo fa trascurato anche nei ristoranti più attenti, sta conquistando spazi sempre maggiori.

Una nuova cultura dell’acqua: tra benessere, territorio e sostenibilità

Questa rinascita dell’acqua come oggetto di culto non riguarda soltanto il gusto. Ad alimentarla è anche una crescente attenzione alla salute e all’origine del prodotto. In molti casi, l’acqua fine rappresenta una risposta all’omologazione dell’acqua purificata, ottenuta da rubinetto e trattata chimicamente. Negli Stati Uniti, marchi come Crazy Water (arricchita naturalmente di litio) o Tahoe Artesian Water (acqua artesiana raccolta ai piedi della Sierra Nevada) stanno conquistando quote di mercato grazie al legame con un territorio specifico e alla totale assenza di interventi industriali.

Anche in Europa il fenomeno si allarga. In Inghilterra, il “Sommelier dell’Acqua Barbuta”, Doran Binder, ha scoperto una sorgente naturale all’interno di un parco nazionale e ne ha fatto una piccola impresa che coniuga attenzione ambientale e comunicazione social. In Portogallo, l’acqua Pedras, effervescente e filtrata naturalmente dal granito, è ormai considerata parte del patrimonio gastronomico nazionale, capace di accompagnare con eleganza i piatti più corposi della cucina lusitana.

Il design come linguaggio e status symbol

Oltre al contenuto, conta la forma. Le bottiglie delle acque di lusso sono oggetti di design, con etichette curate, vetro soffiato, linee minimaliste o barocche, a seconda dei marchi. Alcune cantine domestiche si stanno trasformando in veri e propri “water cellar”, armadi refrigerati per conservare le bottiglie a temperatura ideale. Nei ristoranti più raffinati compaiono le water list accanto alle wine list. E nei grandi alberghi, tornano i sommelier dell’acqua: esperti in grado di consigliare la bottiglia giusta in base al pasto, ma anche all’umore del cliente.

Tutto ciò non è esente da critiche. La questione ambientale resta centrale: l’imbottigliamento massiccio, il trasporto su lunghe distanze, l’uso della plastica sono aspetti controversi. Inoltre, la commercializzazione dell’acqua naturale da parte di grandi aziende solleva interrogativi etici, soprattutto in comunità locali che vedono depauperate le proprie riserve idriche. In questo contesto, la difesa delle piccole sorgenti indipendenti, spesso a gestione familiare, diventa un tema non solo culturale ma politico.

Dall’idoneità all’identità: l’acqua entra nella nostra narrazione quotidiana

Bere acqua non è più solo un gesto necessario. È un atto identitario. Così come la cucina è diventata un campo di espressione individuale, anche l’acqua che scegliamo parla di noi: del nostro rapporto con il territorio, con la salute, con il gusto. Come dice Simona Celante, fondatrice di Tahoe Artesian Water e veterana dell’industria delle bevande, “parliamo sempre della provenienza del vino, del burro, delle verdure. Ma mai del percorso dell’acqua. È tempo di farlo”.

La terza ondata dell’acqua – dopo le cure termali dell’Ottocento e il boom Perrier negli anni Settanta – è quindi una riscoperta. Una nuova attenzione all’essenziale, ma con una consapevolezza inedita: l’acqua non è tutta uguale. E assaggiarla con cura, imparare a distinguerla, raccontarla, può essere una forma di cultura, di rispetto, persino di piacere. Come per il vino, il caffè o il pane buono.

In fondo, anche in un mondo saturo di stimoli, a volte bastano due dita d’acqua, limpida e fresca, per sentire che il mondo – e la nostra attenzione – può ancora riflettere qualcosa di raro.


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Google Meet e la nuova era della comunicazione senza frontiere

In un mondo sempre più interconnesso, la barriera linguistica resta uno degli ultimi ostacoli concreti alla comunicazione globale. Superarla è da sempre un’ambizione dell’uomo, tanto che nel corso dei secoli sono stati tentati esperimenti di ogni genere: dalla creazione di lingue artificiali con vocazione universale all’adozione di idiomi condivisi nelle relazioni internazionali. Oggi, però, il sogno di una comprensione reciproca senza sforzi si avvicina alla realtà grazie all’intelligenza artificiale. Il recente annuncio di Google al Cloud Summit segna un passo importante in questa direzione: la traduzione vocale automatica di Google Meet è pronta a debuttare anche in Italia.

Questa nuova funzionalità consente agli utenti di ascoltare in tempo reale la voce dell’interlocutore tradotta nella propria lingua. Non si tratta solo di una trasposizione semantica rapida, ma di un’esperienza che riproduce fedelmente intonazioni, timbro ed emozioni dell’originale. È merito di AudioLM, la tecnologia sviluppata da Google per generare voce sintetica a partire da input audio reali, mantenendo le sfumature personali di ciascun parlante. Il risultato è sorprendente: la voce tradotta non ha nulla del suono metallico e impersonale che spesso associamo alle macchine, ma restituisce la naturalezza dell’espressione umana.

Il Corriere della Sera ha potuto testare in anteprima il servizio, rilevando una notevole precisione nelle traduzioni tra inglese e italiano. Il sistema ha mostrato una comprensione fluida, senza errori o incertezze, anche in conversazioni articolate. È una conquista che, al netto delle implicazioni tecniche, pone interrogativi rilevanti sul futuro della comunicazione umana, sul ruolo dei professionisti della traduzione e sull’impatto ambientale delle tecnologie ad alta intensità energetica.

La traduzione vocale automatica non è una novità assoluta: anche Microsoft, con la funzione Interpreter integrata in Teams, e aziende come Samsung o Apple hanno avviato lo sviluppo di strumenti simili. Tuttavia, molte di queste soluzioni non sono ancora disponibili in lingua italiana o mancano della fluidità necessaria per un uso realmente pratico. Google, invece, riesce a offrire questa tecnologia restando all’interno del perimetro delle normative europee in materia di interoperabilità e protezione dei dati, dimostrando che il rispetto dei vincoli regolatori non è necessariamente un ostacolo all’innovazione.

Il riferimento alla Torre di Babele, simbolo ancestrale della frammentazione linguistica dell’umanità, è inevitabile. Nell’antico racconto biblico, la confusione delle lingue spezzò l’unione degli uomini. Oggi, l’intelligenza artificiale promette di ricucire quello strappo, non imponendo una lingua universale — come ci provarono, tra Otto e Novecento, idiomi artificiali come l’esperanto, il volapük o l’idiom neutral — ma offrendo uno strumento capace di tradurre automaticamente il parlato, istantaneamente, in qualsiasi idioma.

Con l’attivazione del servizio Google Ai Pro o Ultra, la nuova funzionalità sarà disponibile nelle prossime settimane anche per gli utenti italiani, inizialmente per le coppie linguistiche inglese-italiano e viceversa. È il primo passo verso una comunicazione interlinguistica naturale, immediata, potenzialmente estesa a milioni di utenti nel mondo.

Ma se da un lato questa evoluzione annuncia un’era di conversazioni senza interpreti e di riunioni internazionali finalmente libere da fraintendimenti, dall’altro solleva questioni cruciali. Che ne sarà delle professioni linguistiche? Come si potrà garantire una traduzione affidabile in contesti complessi, come le trattative diplomatiche o i dibattiti scientifici? E soprattutto: quale sarà il costo ecologico di questo nuovo paradigma?

I modelli neurali alla base di queste tecnologie, infatti, richiedono una capacità di calcolo imponente, che si traduce in un consumo energetico significativo. Il nodo della sostenibilità — già centrale nel dibattito sull’intelligenza artificiale generativa — rischia di diventare ancora più pressante man mano che strumenti di questo tipo si diffondono su scala globale.

In ogni caso, la direzione è tracciata. Non è più fantascienza immaginare un mondo in cui la comunicazione tra persone di lingue diverse avvenga senza mediazioni, né sforzi. La voce dell’interlocutore, tradotta fedelmente nella nostra lingua, potrà accompagnare ogni dialogo, ogni incontro, ogni negoziazione. Un traguardo che fino a pochi anni fa sembrava irraggiungibile, e che oggi si prepara a entrare nelle nostre vite quotidiane, un’applicazione dopo l’altra.


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Emil Nolde, l’artista controverso: tra mito, propaganda e verità storica

Copertina del libro “Lezione di tedesco (Deutschstunde)”
pubblicato nel 1968 di Siegfried Lenz

Per decenni Emil Nolde è stato celebrato come una delle principali vittime artistiche del regime nazista: un genio solitario, perseguitato per la sua arte libera e visionaria, difensore della bellezza contro la barbarie ideologica del Terzo Reich. Ma a più di settant’anni dalla caduta del nazismo, quel ritratto eroico inizia a mostrare crepe profonde. Le ricerche storiche condotte negli ultimi anni hanno restituito un’immagine ben diversa di Nolde: non un oppositore, bensì un sostenitore del regime, un uomo animato da idee profondamente antisemite e nazionaliste. Un artista che tentò fino all’ultimo di farsi accettare dal potere che lo aveva bandito.

Nato nel 1867 nel villaggio di Nolde, nello Schleswig-Holstein, allora parte dell’Impero tedesco, Emil Hansen – che in seguito assunse il nome d’arte Nolde – si avvicinò alla pittura relativamente tardi, a trentun anni. Dopo aver studiato presso la scuola di Adolph Hoelzel a Dachau e all’Académie Julian di Parigi, mosse i primi passi nel solco dell’impressionismo, affascinato dai maestri francesi. Ma presto se ne discostò: la sua cifra espressiva divenne via via più audace, fatta di colori violenti, segni nervosi, spiritualità primitiva. La sua adesione al gruppo Die Brücke nel 1906 segnò l’ingresso nella stagione dell’espressionismo tedesco, di cui sarebbe diventato uno dei principali esponenti.

Nolde esplorò tecniche diverse – olio, acquerello, xilografia – e si avventurò anche in tematiche religiose, con opere visionarie come la serie Leben Christi. L’intensità della sua pittura e il radicalismo formale ne fecero un innovatore dirompente, ammirato dalla giovane avanguardia. Eppure, accanto alla sperimentazione artistica, conviveva in lui una visione politica altrettanto radicale.

Già nel 1934, l’artista si iscrisse al Partito Nazionalsocialista. Condivideva le ambizioni del regime di dar vita a una nuova “arte germanica”, radicata nell’anima del popolo, libera dalle influenze internazionali e, soprattutto, da quelle ebraiche. Nolde non solo simpatizzava per l’ideologia nazista, ma ne condivideva profondamente le premesse razziste. Non esitò a diffamare colleghi e mercanti d’arte ebrei, cercando di affermarsi come interprete autentico dello “spirito tedesco”.

In un paradosso che ancora oggi colpisce, proprio lui fu tuttavia tra gli artisti più duramente colpiti dalla campagna del regime contro quella che veniva definita Entartete Kunst, l’”arte degenerata”. Oltre mille sue opere vennero confiscate nel 1937, molte delle quali esposte nella famigerata mostra itinerante voluta da Goebbels per denunciare la presunta decadenza estetica e morale dell’avanguardia. Nolde fu estromesso dall’Accademia delle Arti e, nel 1941, gli fu proibito di esporre, vendere e persino dipingere.

Da quel momento, si ritirò nella sua casa di Seebüll, nel nord della Germania, dove continuò a lavorare in segreto, realizzando una serie di acquerelli che battezzò Ungemalten Bilder (“quadri non dipinti”). A lungo considerati come atti eroici di resistenza artistica, questi lavori vennero presentati nel dopoguerra come la testimonianza di un artista perseguitato ma non domo, capace di continuare a creare nonostante il divieto imposto dal regime.

È da qui che nasce il mito di Emil Nolde martire del nazismo. Un mito alimentato dallo stesso pittore, che nelle sue memorie raffigurò se stesso come un dissidente silenzioso, e consolidato da uno dei più noti romanzi tedeschi del dopoguerra: Lezione di tedesco (Deutschstunde), pubblicato nel 1968 da Siegfried Lenz.

Il libro, oggi considerato un classico della letteratura tedesca del dopoguerra, venduto in oltre due milioni di copie e tradotto in più di venti lingue, contribuì in modo decisivo a fissare l’immagine di Nolde come simbolo della repressione artistica nazista. Ambientato nella Germania degli anni Cinquanta, il romanzo racconta la storia di Siggi, giovane detenuto che ricorda la propria infanzia durante il Terzo Reich. Suo padre, un agente di polizia, aveva ricevuto l’ordine di impedire a un pittore – Max Ludwig Nansen, alter ego trasparente di Nolde – di continuare a dipingere. Nansen, in risposta, aveva iniziato a produrre in segreto una serie di “quadri invisibili”.

Nel racconto, il giovane Siggi si trova diviso tra l’autoritarismo del padre e l’integrità del pittore, che considera un eroe. Il nazismo non viene mai nominato esplicitamente, ma è costantemente evocato: la Gestapo è riconoscibile nei “cappotti di pelle”, il divieto di dipingere rimanda chiaramente alle politiche sull’arte degenerata. La figura di Nansen si impone come quella di un artista puro, perseguitato per la sua libertà creativa. Il fatto che questo personaggio sia ispirato a Nolde, conferì all’artista un’aura di martirio che l’opinione pubblica tedesca, ancora alle prese con la propria memoria storica, accolse senza troppe domande.

Così, mentre i suoi dipinti tornavano a essere esposti in musei e gallerie, Emil Nolde fu assunto simbolicamente come figura di riscatto: un esponente dell’avanguardia capace di resistere alla censura del totalitarismo. Le sue opere arrivarono persino negli uffici dei cancellieri tedeschi: Helmut Schmidt, e più tardi Angela Merkel, scelsero suoi dipinti per decorare le pareti degli spazi istituzionali.

Eppure, la verità era ben diversa. Le mostre retrospettive di Nolde organizzate nel 2014 a Francoforte e nel 2019 alla Galleria Nazionale di Berlino hanno ricostruito con rigore documentale il reale atteggiamento dell’artista nei confronti del regime. I quadri non dipinti, presentati come frutto di una resistenza clandestina, furono in realtà realizzati dopo la guerra. E il divieto imposto a Nolde non riguardava l’atto stesso del dipingere, ma solo l’esposizione e la vendita pubblica. Inoltre, i suoi scritti e le lettere private testimoniano un antisemitismo viscerale e reiterato, accompagnato da tentativi ossessivi di convincere Hitler e Goebbels che la sua arte non era “degenerata” ma profondamente “tedesca”.

Perché allora la verità è emersa con così tanto ritardo? Perché la Germania ha atteso oltre mezzo secolo prima di mettere in discussione un mito così radicato?

Una risposta sta forse nella funzione catartica che Nolde ha incarnato per l’immaginario tedesco del dopoguerra. In un paese devastato dalla colpa e dalla rimozione, c’era bisogno di figure simboliche che permettessero di raccontare una Germania diversa, capace di bellezza e libertà anche sotto il giogo del nazismo. Nolde – o meglio, il Nolde reinventato da Lenz – offriva questo conforto. Era l’artista che aveva sofferto, ma non si era piegato. Un simbolo attraverso cui la Germania poteva iniziare a venire a patti con il proprio passato senza confrontarsi troppo direttamente con la complicità diffusa nel nazionalsocialismo.

Oggi, questo racconto semplificato non regge più. Il caso Nolde è diventato emblematico di un problema più vasto: la difficoltà di distinguere tra realtà storica e costruzione memoriale, tra biografia e mito. Come scrive Lenz nel suo romanzo, “inizierai a vedere correttamente solo quando inizierai a creare ciò che devi vedere”. Per decenni, la Germania ha “creato” in Nolde ciò che aveva bisogno di vedere. Ma ora è tempo di vedere anche ciò che preferiva ignorare.


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Daniel Buren a Pistoia: l’arte come processo in continuo divenire

A Pistoia, una mostra che sfida ogni convenzione museale offre al pubblico l’occasione di confrontarsi con sessant’anni di ricerca artistica attraverso lo sguardo radicale e mobile di Daniel Buren. Intitolata Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situ e situati 1968–2025, l’esposizione promossa da Fondazione Pistoia Musei si presenta come molto più di una retrospettiva: è un’indagine dinamica sull’opera di uno degli artisti più influenti del secondo Novecento, in cui il tempo si intreccia al luogo, e il passato si reinventa nel presente.

Il progetto espositivo parte da due sale iniziali, dedicate alle ricerche pittoriche dei primi anni Sessanta, per poi dispiegarsi in una narrazione che prende l’Italia come nodo centrale di una lunga e profonda relazione. Dal 1968, infatti, il nostro Paese è stato per Buren teatro di esperimenti, confronti, azioni urbane e site-specific: un laboratorio aperto che oggi diventa anche una mappa per orientarsi nella sua opera.

Il titolo scelto per la mostra – Fare, Disfare, Rifare – non è soltanto un richiamo a un approccio artistico, ma una dichiarazione poetica ed esistenziale. Per Buren, l’arte non è mai oggetto statico o definitivo, bensì processo vivo, destinato a mutare nel tempo e a riflettersi nello spazio che lo accoglie. Il paradosso di “esporre” un artista che ha sempre rifiutato la permanenza e la trasportabilità dell’opera viene superato con un gesto radicale: non raccogliendo lavori preesistenti, ma ripensandoli, rigenerandoli, talvolta smontandoli per ricomporli altrove. Rifare, dunque, equivale anche a disfare.

Molti degli interventi in mostra sono rielaborazioni di lavori precedenti, adattati o riconfigurati per il contesto pistoiese. La nozione di opera in situ – ovvero creata per un luogo specifico e in stretta relazione con esso – è centrale nella pratica di Buren. Molte di queste installazioni non possono essere trasferite, altre ancora vengono reinterpretate in nuovi ambienti, trasformandosi di volta in volta. Non si tratta di repliche, ma di variazioni: la loro identità si definisce nel momento dell’installazione, nel rapporto dialogico con l’architettura, la luce, la storia del luogo.

Un esempio emblematico è Découpé / Étiré, installato nella corte interna di Palazzo Buontalenti. L’opera, che nasce da un lavoro realizzato nel 1985 per la galleria torinese di Antonio Tucci Russo, si presenta come una successione di portici incastrabili, che dal più grande al più piccolo si aprono e si espandono in una sorta di piano prospettico. Nella sua nuova versione, la struttura originaria viene ripensata: cambiano i colori, si trasforma l’interazione con lo spazio, il contesto ridefinisce l’opera stessa. Non un semplice remake, dunque, ma una riscrittura visiva e concettuale.

La mostra non si esaurisce all’interno delle sedi museali, ma si irradia in vari luoghi pubblici della città, aprendo una riflessione sulla relazione tra arte e spazio urbano. In piazza del Duomo, ad esempio, i tessuti a bande bianche e nere di Facciata ai venti – sospesi al loggiato dell’Antico Palazzo dei Vescovi e mossi da ventilatori – instaurano un gioco di corrispondenze e contrasti con la monumentalità marmorea della Cattedrale e del Battistero. L’opera introduce un elemento cinetico che rompe l’equilibrio della pietra e invita a una lettura inedita del paesaggio storico.

Più discreto ma altrettanto efficace è Dalla terrazza alla strada: livello, visibile tra Palazzo de’ Rossi e lo Sdrucciolo del Castellare: una banda di carta a righe bianche e nere che si adatta alla superficie muraria, rievocando le azioni urbane degli Affichages sauvages che Buren realizzava alla fine degli anni Sessanta. Anche qui, l’intervento effimero dialoga con il tessuto urbano, innestando nel quotidiano un gesto artistico che lo disturba e lo valorizza.

A rendere ancora più ampio il respiro dell’iniziativa, c’è l’estensione del percorso oltre i confini cittadini. La mostra coinvolge luoghi sparsi nella campagna e nei centri storici della Toscana, da Quarrata alla Fattoria di Celle a Santomato, fino a Colle di Val d’Elsa e al Castello di Ama. In questi siti si trovano numerose opere in situ permanenti di Buren, ognuna pensata in relazione a un preciso contesto architettonico o paesaggistico. Si tratta di installazioni che non possono esistere altrove, perché nate da un’intima corrispondenza con il luogo che le accoglie.

In questo modo, la mostra si trasforma in un itinerario diffuso, un invito al viaggio attraverso un territorio che diventa esso stesso spazio espositivo. Non solo un omaggio all’artista francese, ma un’occasione per riflettere sul rapporto tra arte, tempo e spazio, e su come il contesto possa trasformare radicalmente il significato dell’opera. Ogni tappa offre una prospettiva diversa, una variazione sul tema dell’identità e della metamorfosi artistica.

Il catalogo pubblicato a corredo dell’esposizione si propone come uno strumento fondamentale per approfondire la presenza e l’evoluzione del lavoro di Buren in Italia, configurandosi come un punto di riferimento per gli studi futuri.

In definitiva, Daniel Buren. Fare, Disfare, Rifare è molto più che una mostra: è un’esperienza estetica e concettuale che invita a ripensare le categorie stesse di esposizione, permanenza e creazione artistica. Un’occasione per interrogarsi sul ruolo del luogo nell’arte contemporanea e, al tempo stesso, un tributo alla capacità dell’artista di reinventarsi e di reinventare lo spazio che lo circonda.


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Roy Lichtenstein “Golf Ball”, 1962

Nel 1962 Roy Lichtenstein espone per la prima volta alla Galleria Leo Castelli di New York. L’attesa è tale che i biglietti per l’inaugurazione si esauriscono ancor prima dell’apertura. Tra le opere in mostra spicca una tela destinata a diventare un emblema della sua prima adesione alla Pop Art: Golf Ball. Un’opera solo in apparenza semplice, che nasconde invece una sofisticata riflessione sul linguaggio visivo moderno, sulla percezione e sul ruolo dell’oggetto nel contesto artistico.

Golf Ball raffigura, letteralmente, una pallina da golf. Ma la rappresentazione è tutt’altro che banale. Lichtenstein isola il soggetto in uno spazio grigio e neutro, privato di qualsiasi riferimento ambientale o paesaggistico. La sfera è costruita attraverso una trama di archi bianchi e neri che si intersecano con regolarità matematica, modellando una tridimensionalità illusoria su una superficie rigorosamente bidimensionale. Il chiaroscuro è assente, così come la prospettiva: resta solo la superficie, e con essa il gioco percettivo che lo spettatore è chiamato a decifrare.

L’effetto è ambiguo, volutamente straniante. Come ha osservato la storica dell’arte Diane Waldman, la pallina di Lichtenstein assume un’autonomia formale, una “forma indipendente” che sembra oscillare tra l’oggetto e il segno grafico. La tensione tra volume e piattezza, tra illusione e astrazione, diventa così il vero soggetto dell’opera. La Golf Ball è una provocazione che sfida la tradizionale idea di rappresentazione, ribaltandone le regole in modo tanto radicale quanto ironico.

Lichtenstein stesso descrisse l’opera come “l’antitesi di ciò che si pensava avesse un ‘significato artistico’”. E in effetti, con la sua frontalità assoluta, con la mancanza di profondità e il rifiuto di qualsiasi elemento emozionale o narrativo, Golf Ball appare come un oggetto puro, una sorta di icona impersonale e al tempo stesso carica di tensione. Non è un caso che alcuni critici abbiano paragonato la sua presenza nel quadro alla solidità della Rocca di Gibilterra: un’immagine immobile, definitiva, imperturbabile.

Nel lessico visivo dell’opera si avverte l’eco delle composizioni in bianco e nero di Piet Mondrian – in particolare Composizione in bianco e nero del 1917 – ma anche dei suoi ovali astratti pre-bellici come Pier and Ocean (1915). Lichtenstein stesso parlava, non a caso, di “Mondrian Plus e Minus” per definire certe sue fonti di ispirazione. La scelta cromatica sobria e l’impostazione grafica sembrano infatti un tributo ironico e insieme devoto a quella linea di astrazione geometrica radicale. Tuttavia, mentre Mondrian inseguiva l’armonia universale attraverso la riduzione, Lichtenstein piega l’astrazione al servizio della cultura di massa.

In quegli stessi mesi del 1962, l’artista realizzò una serie di opere simili per soggetto e approccio: oggetti quotidiani isolati, privati del loro contesto e ricodificati attraverso un linguaggio visivo mutuato dalla pubblicità e dal fumetto. La “regolarità ripetitiva” delle superfici, come è stata definita, diventa una cifra stilistica. Ma a differenza delle immagini pubblicitarie, sempre più seduttive e sofisticate, Lichtenstein sceglie una frontalità disarmante, che priva l’oggetto di qualunque glamour. Il suo approccio è insieme analitico e ludico, minimalista ma non privo di senso dell’umorismo.

La Golf Ball è tornata più volte nel lavoro di Lichtenstein. La si ritrova, ad esempio, in Still Life with Goldfish Bowl (1972) e in Go for Baroque (1979), a testimonianza di come quel primo esperimento conteneva già in sé molte delle tensioni che avrebbero attraversato l’intera produzione dell’artista: la dialettica tra figurazione e astrazione, la sfida ai codici visivi dominanti, la riflessione sul ruolo dell’immagine nella società dei consumi.

L’opera rappresenta un punto di svolta anche sotto il profilo formale. I contorni sono netti, standardizzati, privi di incertezze: un segno del controllo che Lichtenstein andava affinando nel suo lavoro, lontano anni luce dalle gestualità esasperate degli espressionisti astratti. Eppure, in quell’apparente freddezza si cela un’attenzione puntuale alle dinamiche percettive. L’artista gioca con le attese del pubblico, ne manipola la percezione, lo costringe a interrogarsi sul modo in cui costruisce mentalmente lo spazio.

Con Golf Ball, Lichtenstein non si limita a raffigurare un oggetto: ne fa il campo di battaglia su cui si misurano astrazione e realismo, profondità e superficie, significato e insignificanza. In questo senso, l’opera va ben oltre l’aneddoto o la curiosità pop. È un manifesto di metodo, un esercizio visivo e teorico travestito da immagine elementare. Un classico esempio di come, nella Pop Art, l’apparente semplicità possa rivelare una complessità sottile e persistente.

A oltre sessant’anni dalla sua realizzazione, Golf Ball resta un’opera di grande attualità. Non solo perché anticipa molti dei temi che oggi alimentano la riflessione sull’immagine, ma perché testimonia con forza la capacità di un artista di trasformare un oggetto ordinario in un potente dispositivo critico. Lichtenstein ci invita a guardare, ma soprattutto a pensare a ciò che guardiamo. Anche – e forse soprattutto – quando ciò che vediamo è solo una pallina da golf.


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L’intelligenza artificiale riscrive la storia della Bibbia

Uno degli enigmi più affascinanti della storia delle religioni, quello dei Rotoli del Mar Morto, sta conoscendo una nuova stagione di scoperte grazie a un’inedita alleanza tra scienza e tecnologia. Secondo un recente studio internazionale, pubblicato sulla rivista Plos One, molti dei celebri manoscritti rinvenuti a metà del Novecento nelle grotte di Qumran, in Cisgiordania, sarebbero più antichi di quanto finora ipotizzato. Per la prima volta, alcuni frammenti biblici sono stati datati con una precisione tale da poter essere collocati nell’epoca stessa in cui si ritiene siano vissuti gli autori dei testi sacri.

Il progetto, finanziato dal Consiglio Europeo della Ricerca e condotto dall’Università di Groningen nei Paesi Bassi in collaborazione con gli atenei di Pisa e Southern Denmark, ha sfruttato un nuovo modello predittivo chiamato Enoch – dal nome del patriarca biblico – che unisce intelligenza artificiale, paleografia e datazione al radiocarbonio. L’obiettivo: superare i limiti finora invalicabili nella datazione dei singoli manoscritti antichi, aggirati grazie a una sinergia fra discipline tradizionalmente distanti.

I Rotoli del Mar Morto, rinvenuti tra il 1947 e il 1956 in undici grotte nei pressi di Khirbet Qumran, rappresentano una delle più significative scoperte archeologiche del XX secolo. Si tratta di circa 900 documenti, tra testi religiosi e commentari biblici, redatti in ebraico, aramaico e greco, che hanno rivoluzionato la conoscenza del giudaismo del Secondo Tempio e gettato nuova luce sulle origini del cristianesimo. La loro datazione, però, è sempre stata incerta, oscillando genericamente tra il III secolo a.C. e il II secolo d.C., con margini d’errore che ne compromettevano il pieno valore storico.

Il nuovo studio ha rivoluzionato questo scenario. Grazie a Enoch, basato su una rete neurale profonda denominata BiNet, è stato possibile analizzare in modo automatizzato le microscopiche tracce di inchiostro e la morfologia dei caratteri nei manoscritti digitalizzati. I dati paleografici così ottenuti sono stati integrati con i risultati della datazione radiometrica, creando un modello predittivo capace di stimare l’età dei manoscritti con un’incertezza di appena 30-50 anni. Una precisione senza precedenti, che ha permesso di colmare un vuoto cronologico di riferimento fra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C.

Dei quasi mille rotoli scoperti, ne sono stati analizzati 135: il modello ha fornito stime giudicate realistiche nel 79% dei casi dagli esperti paleografi coinvolti. Il risultato più clamoroso riguarda due frammenti di testi biblici, il Libro di Daniele (4QDanielc) e il Qohelet o Ecclesiaste (4QQoheleta), datati rispettivamente al II e al III secolo a.C., ovvero alla stessa epoca in cui si ritiene siano stati scritti i testi originali. È la prima volta che manoscritti biblici possono essere associati con tanta affidabilità al periodo di vita dei loro presunti autori, fornendo una base concreta agli studi sulla trasmissione delle Scritture.

Un altro elemento di grande rilievo riguarda l’evoluzione degli stili grafici. Le scritture definite “asmonee”, finora attribuite al periodo tra il 150 e il 50 a.C., risulterebbero in realtà anteriori di decenni, collocabili già tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. Lo stesso vale per lo stile “erodiano”, che secondo le nuove analisi avrebbe cominciato a circolare già nella seconda metà del II secolo a.C., molto prima di quanto ipotizzato.

Fondamentale è stato anche il contributo degli studiosi dell’Università di Pisa, che hanno messo a punto un protocollo chimico innovativo per la pulizia dei frammenti da contaminanti residui, in particolare da vecchi restauri. Come spiega la professoressa Ilaria Degano, del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale, «il nostro compito è stato assicurare che i materiali inviati per la datazione fossero il più possibile puliti e privi di residui che potessero alterare i risultati». Un lavoro di estrema delicatezza, reso necessario dalla fragilità dei reperti, e destinato a diventare uno standard per le analisi future su materiali antichi.

Il progetto “Le mani che scrissero la Bibbia”, come è stato battezzato dal Consiglio Europeo della Ricerca, ha dunque aperto una nuova frontiera nella ricerca biblica e filologica. La possibilità di associare uno stile grafico a una precisa finestra temporale consente non solo di datare con maggiore precisione i testi, ma anche di avanzare ipotesi sulle scuole scribali e sui contesti di produzione, in un periodo storico cruciale per la formazione delle tradizioni ebraiche.

Se la Bibbia, come ogni testo sacro, è da sempre oggetto di interpretazioni teologiche e dispute filologiche, questa ricerca introduce un elemento di oggettività in un terreno spesso dominato da ipotesi: per la prima volta, le “mani” che hanno scritto la Bibbia si lasciano intravedere con una nitidezza sorprendente. E in controluce, emerge un ritratto più preciso del mondo che le ha generate. Un passo decisivo per ricostruire, con rigore scientifico, il lungo cammino della parola scritta nella storia dell’umanità.


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Anoressia: una malattia, una lotta, una voce che cerca ascolto

Per Hadley Freeman, l’anoressia non è stata solo una malattia, ma una lunga parentesi esistenziale, durata vent’anni, in cui il cibo, o meglio il suo rifiuto, ha rappresentato l’unico linguaggio possibile per esprimere dolore, rabbia e paura. Oggi giornalista del Sunday Times, Freeman racconta quella discesa negli abissi in un libro intenso e crudo, Good Girls: A Story and Study of Anorexia, ora pubblicato anche in Italia da 66thand2nd con il titolo Brave ragazze. Una storia di anoressia, nella traduzione di Milena Sanfilippo. Il volume, a metà tra memoir e saggio, esplora le radici intime, storiche e culturali del disturbo alimentare che l’ha accompagnata dall’adolescenza all’età adulta.

L’identità anoressica: quando la malattia diventa una maschera

Nel libro, Freeman non si sottrae a una scelta linguistica precisa: chiama sé stessa e le altre semplicemente “anoressiche”. Non per mancanza di delicatezza, ma perché, come spiega, in certi momenti della malattia si è solo quello. Non esiste più la persona, ma solo la patologia. Il corpo, il controllo, il digiuno diventano l’unico centro gravitazionale. Per questo motivo, il termine neutro “persona con anoressia” risulta per lei inadeguato: la ragazza anoressica vive un’identificazione totale con la malattia. L’anoressia, infatti, è egosintonica: non si percepisce come un problema, ma come un punto di forza, una conquista. È la fame stessa a diventare una forma di potere, una prova della propria capacità di dominarsi.

Lo aveva scritto già nel 1978 la psichiatra Hilde Bruch in La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale: alcune pazienti non solo negano la fame, ma ne traggono piacere. Lo stomaco vuoto, la sensazione di leggerezza, diventano una fonte di euforia e gratificazione.

Il commento che accende l’incendio

Hadley Freeman nasce a New York nel 1978 in una famiglia ebrea benestante, si trasferisce a Londra a undici anni e frequenta scuole private. Brava e obbediente, trova rifugio nelle regole, che divengono per lei un sistema di sicurezza. È proprio in quell’ambiente apparentemente ordinato che si consuma la frattura. Durante un’ora di educazione fisica, una compagna, notoriamente la più magra della classe, le sussurra all’orecchio: “Magari fossi normale come te”. È la parola “normale” ad accendere la miccia. Non vuole essere normale, vuole essere speciale. E da quel giorno, tutto cambia.

Come spiegano i clinici, l’anoressia non ha un’unica causa: si tratta di un disturbo multifattoriale, in cui genetica, ambiente, personalità e storia personale si intrecciano. Ma spesso esiste un evento scatenante, un momento preciso che apre la voragine.

Una fame che è paura

L’etimologia stessa del termine “anoressia” – dal greco an- (senza) e orexis (appetito) – è fuorviante. Nessuna come un’anoressica è affamata. Ma è proprio il terrore della fame, del desiderio, del bisogno, a generare il rifiuto. Si tratta, come ha osservato Massimo Recalcati nel recente L’ultima cena. Anoressia e bulimia (2024), di una patologia del rifiuto: non solo del cibo, ma dell’Altro, della relazione, dell’essere al mondo.

Freeman si chiude in se stessa, diventa ostile, incomprensibile. Corre, salta, si allena fino allo sfinimento, si chiude in bagno per fare esercizi, evita i pasti in famiglia. “La solitudine è il ricordo più vivido”, scrive. Non capiva quello che le stava succedendo e nessuno intorno a lei sapeva come aiutarla.

Contro il mito delle passerelle

Ridurre l’anoressia a una conseguenza dell’industria della moda o dei social media è non solo semplicistico, ma anche pericolosamente fuorviante. L’anoressia è un disturbo complesso, legato a dinamiche storiche e culturali molto profonde. La pressione a essere perfette, docili, silenziose, accomuna generazioni di ragazze. “Sii la brava ragazza che devi essere sempre” canta Elsa in Frozen, il film Disney del 2013. Come lei, molte adolescenti imparano fin da piccole a reprimere ogni desiderio.

Ma come ribellarsi a un modello di perfezione irraggiungibile? Come sottrarsi alla sessualizzazione dell’adolescenza, alla perdita dell’infanzia, al caos della crescita? Per molte, l’unico modo sembra passare dal corpo: affamarlo, controllarlo, cancellarlo.

Una storia lunga un millennio

Il digiuno femminile come forma di ribellione ha una lunga storia. Già tra l’VIII e il X secolo, la principessa portoghese Vilgefortis, promessa sposa al re di Sicilia, rifiutò il matrimonio imposto e, dopo essersi convertita al cristianesimo, fece voto di castità e smise di mangiare. Morì crocifissa per mano del padre, ma fu venerata per secoli in Europa come santa Liberata. Il suo corpo, affamato e ricoperto di peluria – come spesso accade nei casi di malnutrizione estrema – fu immortalato in numerose opere d’arte, tra cui il Trittico di santa Liberata di Hieronymus Bosch.

Lo storico Rudolph M. Bell, nel saggio La santa anoressia (1998), ha analizzato il fenomeno del digiuno mistico tra il XII e il XVII secolo, mettendo in parallelo la mortificazione corporale di sante come Caterina da Siena o Veronica Giuliani con i comportamenti autodistruttivi delle anoressiche moderne. Cambia il contesto, ma non la dinamica: la fame diventa linguaggio, strumento di potere, gesto estremo per affermare un’identità. Come se il corpo fosse l’unico mezzo per esprimere un rifiuto radicale.

Il piatto come campo di battaglia

Nella sua riflessione Il piatto. Una storia di donne, di appetiti e di emancipazione in un oggetto quotidiano (2025), la giornalista Annabelle Hirsch racconta come la tavola sia stata, per secoli, uno dei luoghi dove si è giocata la battaglia per l’emancipazione femminile. Lo sciopero della fame fu un’arma di lotta per le suffragette inglesi guidate da Emmeline Pankhurst, che ottennero il diritto di voto nel 1918. Quando le parole non bastavano più, fu il corpo stesso a farsi veicolo politico.

In questa prospettiva, l’anoressia contemporanea appare come l’estremizzazione di una tensione antica: un tentativo disperato di ritagliarsi uno spazio di controllo, di potere, di significato.

Il corpo come linguaggio muto

L’anoressica non vuole essere vista, ma nel contempo vuole che il suo dolore venga riconosciuto. Vuole sparire e al tempo stesso gridare. Per questo motivo, il corpo diventa una sorta di manifesto vivente. “L’anoressia è una patologia afona”, scrive Freeman. Non si urla, non si piange, non si spiegano i propri stati d’animo: li si scrive addosso, osso dopo osso.

Il corpo asessuato, spogliato dei suoi attributi femminili, è un modo per sottrarsi allo sguardo altrui, ma anche per fermare il tempo, evitare la crescita, la maternità, la sessualità.

Un’uscita senza trionfo

Freeman è sopravvissuta, ma non trionfante. Dopo nove ricoveri, una lunga terapia e una vita riconquistata centimetro per centimetro, la parola “guarigione” le appare comunque ambigua. C’è sempre una parte di sé che rimane là, nel corridoio dell’ospedale, con i biscotti sbriciolati e i passi lenti. Le capita ancora oggi di incrociare per strada ragazze magrissime che le fanno scattare dentro un riconoscimento immediato e doloroso. Sono spettri, apparizioni, richiami.

Non esiste una fine netta, ma un equilibrio da mantenere. “Essere malate è una rogna, per sé e per gli altri”, scrive. E aggiunge: “Non bisogna arrivare a distruggersi per sentirsi autorizzate alla rabbia”.Una possibilità di ritorno

L’anoressia è un percorso che lascia cicatrici. Ma, come racconta Freeman, arriva a volte un momento – piccolo, silenzioso – in cui qualcosa cambia. Si insinua un pensiero: non voglio più che la mia vita sia questa. Se nel Medioevo l’unico esito possibile era la crocifissione o il rogo, oggi – almeno in parte – è possibile trovare nuove vie. L’identità anoressica, così seducente nella sua assolutezza, può essere sostituita da qualcosa di più imperfetto ma più umano: il desiderio, il legame, il ritorno alla vita.

Perché la fame che brucia dentro – quella vera – è fame di riconoscimento, di ascolto, di senso. E non può essere colmata da una ciotola vuota.


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