Origine di due specialità gustate di primo mattino
CAPPUCCINO E CROISSANT PER TUTTI, PLEASE!
Ogni giorno, nei bar affollati, quanti sono gli italiani che fanno colazione con cappuccino e cornetto? Eppure, sono due specialità nate all’estero e solo più tardi giunte in Italia. All’inizio del Novecento, il cappuccino trasformò il semplice caffellatte in qualcosa di singolare. La bevanda conosciuta con il suo nome italiano in tutto il mondo, deve infatti la sua fama alla macchina per il caffè espresso con cui realizzarla: un’invenzione brevettata nel 1901 dall’ingegnere milanese Luigi Bezzera. Pur tuttavia, l’origine del cappuccino, con tutta probabilità, fa riferimento al Kapuziner austriaco, diffuso nei caffè viennesi. Si tratta di una piccola moka con qualche goccia di panna montata. Per chi non ricordasse, la moka, si prepara in modo tradizionale versando dell’acqua in un pentolino riempito con polvere di caffè. La sua origine è orientale, tant’è che Il termine Mocha deriva dalla città portuale yemenita di al-Muchā ( Mocha ) sul Mar Rosso, da dove veniva spedito in tutto il mondo il caffè della varietà di Caffè Arabica , originaria dell’Etiopia.
A Vienna, il caffè è solitamente servito con latte caldo, schiumato o meno. Quindi, quello che da noi in Italia è comunemente noto come cappuccino, a Vienna è chiamato Melange. La quantità di latte dipende dal gusto personale. Nacque presto il confronto con il colore del saio di un monaco cappuccino. Ad esempio, un Franziskaner è una tazza di caffè con tanto latte da ricordare proprio il colore marrone chiaro dell’abito monacale. Un Kapuziner è invece un po’ più scuro, perché con meno latte, quindi è più forte. Presente in tutto l’Impero austro-ungarico, nei primi anni del Novecento il cappuccino raggiunse il porto di Trieste e da allora consumato in tutta Italia. Molti ricorderanno che proprio Trieste è la sede in cui nacque la Illy caffè, in breve Illy, torrefazione italiana di alta qualità.
Kapuchiner, per come è offerto in un caffè di Berlino
La storia più curiosa riguardante il cappuccino la troviamo sull’edizione italiana di Wikipedia e vale leggerla per come è raccontata: «Le sue origini, infatti, sono strettamente correlate alla diffusione dello stesso caffè in Europa e, in particolare, nell’Impero austriaco del XVII-XVIII secolo. Una leggenda molto diffusa lega il suo nome alla vicenda di un frate cappuccino, tal padre Marco d’Aviano, un presbitero friulano inviato nel settembre 1683 da papa Innocenzo XI a Vienna, con l’obiettivo di convincere le potenze europee a una coalizione contro gli Ottomani musulmani che la stavano assediando. Questi, in una caffetteria viennese, avrebbe “corretto” per la prima volta il gusto troppo forte del caffè con del latte, e la nuova bevanda sarebbe stata soprannominata kapuziner, ovvero cappuccino in tedesco».
L’interesse su questa particolare bevanda utilizzata per la prima colazione si accresce se pensiamo che ad accompagnare il cappuccino è quasi sempre il croissant, un rotolino di pasta sfoglia dolce, alla francese. A notare bene, ha la forma di mezzaluna. Il perché è presto detto. Le date coincidono (1683), ma le leggende sono fatte proprio per fare coincidere ogni passo delle storie alle quali si ispirano. La narrazione sull’origine del croissant a mezzaluna è questa: durante l’assedio di Vienna da parte dei Turchi nel 1683, gli Ottomani tentarono un colpo di mano, approfittando dell’oscurità della notte, per introdursi in un tunnel da loro scavato sotto le mura della città. Ma la sorpresa non riuscì, perché a dare l’allarme furono i fornai viennesi, i quali si alzavano prima dell’alba dovendo preparare la loro infornata. Per celebrare la vittoria da parte delle truppe polacche e austriache sulle milizie ottomane, i fornai avrebbero ottenuto ufficialmente il privilegio di modellare una pasta (chiamata Hörnchen, letteralmente “piccolo corno” la cui forma richiamava l’emblema che compare sulle bandiere ottomane.
Immaginate la soddisfazione di affogare la mezzaluna nel cappuccino viennese. Mangiare la mezzaluna era un modo metaforico per mangiarsi l’avversario e celebrare la vittoria. Si dice che l’inventore ufficiale fu il fornaio Peter Wendler che s’ispirò a questo simbolo per esorcizzare l’idea del temibile nemico.
«Benvenuti da Charles-Édouard Jeanneret ovvero Le Corbusier, maestro del modernismo, architetto, pittore, scrittore, designer e urbanista. In questo appartamento-atelier si stabilì nel 1934 con sua moglie e qui risiedette fino alla sua scomparsa nel 1965. Il piccolo gioiello di architettura, pochissimo conosciuto dal pubblico, è situato nel 16º arrondissement a Parigi. Oggi è proprietà della Fondazione Le Corbusier che vi organizza delle visite su appuntamento. È stato di recente restaurato. Non esitate a venire per scoprirlo!».
Con queste calorose parole di accoglienza la Fondazione Le Corbusier dà il benvenuto ai visitatori virtuali nella casa dell’architetto svizzero, naturalizzato francese, una delle figure più eminenti del movimento moderno. Si tratta di una residenza privata, che occupa gli ultimi due piani del Molitor, edificio per abitazioni dal carattere innovativo, sorto tra il 1931 e il 1934 grazie alla stretta collaborazione tra Le Corbusier e suo cugino Pierre Jeanneret. Un condominio con il prospetto di otto piani completamente vetrato, situato al confine tra la città di Parigi e il comune di Boulogne-Billancourt. Il 17 luglio 2016 è stato incluso nel patrimonio mondiale dell’UNESCO: un totale di 17 opere architettoniche di Le Corbusier da conservare come Patrimonio dell’Umanità.
Nel 1931, la «Société Immobilière de Paris Parc des Princes» acquistò un terreno edificabile nella parte orientale di Parigi, adiacente a Boulogne. Le Corbusier e Pierre Jeanneret furono incaricati di progettare un condominio e invitati a cercare potenziali clienti spargendo la voce fra le loro conoscenze. Questo perché il finanziamento richiesto per la costruzione non era ancora del tutto sicuro. Tuttavia, sia gli imprenditori, Marc Kouznetzoff e Guy Noble, che i due progettisti pensavano che un’architettura all’avanguardia avrebbe attratto maggiori acquirenti rispetto alla vendita di case tradizionali.
Tra luglio e ottobre 1931, i progettisti proposero un edificio di otto piani con quindici appartamenti, due o tre per livello. Immersi nella luce e aperti alla natura, Le Corbusier applicò nel suo progetto quattro dei suoi cinque punti dell’architettura moderna da lui teorizzati: la pianta libera, la facciata libera con pilastri arretrati rispetto il filo esterno dell’edificio, le finestre a nastro caratterizzate da grandi vetrate longitudinali, la terrazza sul tetto destinato a giardino pensile. Mancavano i pilotis ossia i pilastri in cemento armato, che avrebbero permesso un edificio rialzato di almeno un piano da terra, lasciando libero al piano terra lo spazio di circolazione, le aiuole fiorite e tutte le superfici verdi .
Le Corbusier si riservò il diritto di occupare gli ultimi due livelli dell’edificio, facendone un attico da costruire a proprie spese per essere adibito ad appartamento residenziale e atelier di pittura privato. La costruzione iniziò nel 1932, ma i lavori subirono un’interruzione quando la «Société Immobilière» non riuscì prontamente a trovare il numero necessario di acquirenti e completare le vendite. La situazione causò gravi difficoltà finanziarie, che portarono alla bancarotta dei due costruttori. Nonostante tutto l’edificio fu completato all’inizio del 1934. Per coprire il debito, la banca che aveva finanziato il progetto contestò anche a Le Corbusier il titolo di proprietà, riconosciuto solo nel 1949, dopo una lunga causa giudiziale.
Partecipazione di nozze Le Corbusier-Gallis
Malgrado le dispute bancarie, l’architetto e sua moglie abitarono in questo edificio, in rue Nungesser et Coli 24, per quasi tutto il corso della loro vita coniugale. Le Corbusier, infatti, nel 1930 aveva sposato Yvonne Gallis, ex modella di moda di Monaco. Quattro anni dopo fecero ingresso in questo appartamento e vi rimasero fino alla loro scomparsa, lei nel 1957 e lui nel 1965. Da allora è proprietà della Fondazione Le Corbusier che lo rende visitabile su appuntamento. Il duplex che Le Corbusier ha posto a coronamento dell’edificio si estende su 240 metri quadrati. Per accedervi, occorre salire una rampa di scale, dal momento che l’ultimo livello servito dall’ascensore è il sesto piano. All’interno, lo spazio è pressoché aperto e le stanze sono disposte in modo da eliminare i corridoi e ridurre al minimo il numero di porte, che costituiscono un sistema di elementi mobili su perni. È possibile, pertanto, separare o collegare lo spazio privato con l’atelier di pittura. Non bisogna dimenticare che Le Corbusier si è sempre considerato intimamente un pittore. L’arredamento è stato progettato da Charlotte Perriand , associata allo studio di Le Corbusier, come responsabile nel disegno di mobili e qualificazione degli interni.
Pranzo in cima a un grattacielo, pubblicato nel New York Herald-Tribune, 2 ottobre 1932, Charles Clyde Ebbets, Tom Kelley o William Leftwich.
Pranzo in cima a un grattacielo è una fotografia scattata nella seconda metà di settembre del 1932 (sembra il 20 settembre 1932), durante la costruzione del Rockefeller Plaza completato nel dicembre 1933. La fotografia ritrae undici uomini all’ora di pranzo, seduti su una trave con i piedi che penzolano a 260 metri sopra le strade di Manhattan. Per la precisione, è stata scattata al 69° piano dell’edificio. Sebbene la foto mostri dei veri operai siderurgici, è stato ipotizzato, a ragione, che si tratti di un fotomontaggio. Le loro gambe non penzolano liberamente, ma sembrano appoggiare su di un livello. Un considerevole schiarimento, inoltre, può essere osservato intorno al gruppo di persone. Secondo molti critici della storia fotografica, non c’è un precipizio sotto il gruppo, ma un piano in precedenza completato. La fotografia è apparsa come supplemento fotografico domenicale sul New York Herald Tribune il 2 ottobre.
Per molto tempo la foto è stata erroneamente attribuita ad un collaboratore di Ebbet Lewis Hine, incaricato nel 1930 di fotografare la costruzione dell’Empire State Building. Nel 2003, dopo una ricerca nell’archivio Bettmann, l’immagine è stata attribuita a Charles C. Ebbets. Tuttavia, questa asserzione è nuovamente messa in discussione. Il negativo originale è di proprietà di Branded Entertainment Network, che lo ha acquisito dall’archivio Acme Newspictures nel 1995.
La curiosità ha spinto i commentatori a tentare di identificare gli uomini che appaiono nella foto. Il documentario Men at Lunch ha individuato solo alcuni di questi operai in pausa, di origini irlandesi. Il terzo da sinistra è Jozef Eckner, il quarto è Michael Breheny, il quinto è Albin Svensson e il sesto con una sigaretta è Peter Rice, un Mohawk di Kahnawake, Canada. Dall’altro capo, la prima persona a destra è un operaio slovacco Gustáv (Gusti) Popovič del villaggio Spiš di Vyšný Slavkov nel distretto di Levoča. Gusti era originariamente un taglialegna e falegname. Nel 1932 mandò alla moglie una cartolina con questa foto, sulla quale scrisse: “Mia cara moglie Mariška, è così che costruiamo l’America. Non preoccuparti, mia cara Mariška, come puoi vedere, sono ancora con la bottiglia in mano. Il tuo Gusti.” Gusti tornò a Vyšné Slavkov all’inizio della Seconda guerra mondiale, acquistò alcuni terreni boschivi e campi da pascolo, in modo da poter coltivarli mettere a coltura. Alla fine della guerra, Gusti fu ucciso da una granata nel suo villaggio, dove fu colpito da schegge mentre attraversava il fronte di battaglia. Gusti e Mariška hanno una fossa comune nel cimitero di Vyšný Slavkov. Il terzo operaio da destra è Joe Curtis. Si dice che l’uomo seduto come quarto da destra sia l’irlandese Francis Michael Rafferty con il suo migliore amico e collega irlandese di una vita, Stretch Donahue, seduto al suo fianco destro.
Foto rimasterizzata e colorata
Ashley Cross, giornalista del New York Post, ha definito la foto “la più famosa foto della pausa pranzo nella storia di New York”. Questa immagine è stata utilizzata e imitata in molte opere d’arte e, in alcuni casi, ne sono state realizzate varie versioni. È stata prodotta anche una versione a colori e Sergio Fornari ne ha creato una scultura commemorativa lunga 12 metri, esposta vicino al World Trade Center per cinque mesi dopo gli attacchi dell’11 settembre. Attualmente questa foto è uno dei best seller di Corbis. Sebbene i critici l’abbiano definita una trovata pubblicitaria, Johnston ha descritto questa foto come “un pezzo di storia americana”. Scattata, infatti, durante la Grande Depressione, l’immagine è diventata un’icona di New York City, tanto che Time nel 2016 l’ha inserita nell’elenco delle 100 foto più importanti di tutti i tempi.
Quello che presentiamo non è un libro come altri, perché fino allo scadere di dicembre dello scorso anno, avremmo potuto solo sfogliarlo in una biblioteca americana, ma non su internet come stiamo facendo. All’inizio di ogni nuovo anno si produce una magia che interessa milioni di appassionati. Da gennaio di quest’anno, infatti, abbiamo dato il benvenuto alle opere del 1927 incluse nel pubblico dominio, secondo le leggi degli Stati Uniti. Le leggi italiane rispondono a criteri differenti, perché riguardano esclusivamente opere italiane. Si tratta di un archivio considerevole di titoli che includono libri, periodici, spartiti musicali, fotografie, film. Nel caso nostro di quest’oggi la cosa più divertente è sfogliare i cataloghi online alla ricerca di gemme nascoste. Possiamo così godere degli splendidi disegni liberty e art déco riportati in un testo licenziato dall’autore nel marzo del 1927: A. Desaint, Idee e studi su stencil e decorazioni. È rivolto agli artigiani “dal temperamento artistico”, impegnati nella decorazione di case di buon gusto o palazzi signorili, sale riunioni e suite di uffici, alberghi; ma anche artigiani che lavorano nell’industria ceramica ornamentale, goffratori di vetro, rilegatori di libri, decoratori di parati in tessuto o carta. Per meglio cogliere le intenzioni dell’autore del libro, basta leggere la prefazione e poi sfogliare ogni pagina. Scopriremo l’uso della Key-plate e dei quaranta colori in essa rappresentati alla base di questo lavoro.
KEY-PLATE
Tavola elaborata a colori in accordo con la Key-plate
Tavola elaborata a colori in accordo con la Key-plate
Ideas & studies in Stencilling & Decorating
by A.Desaint
Lo stencil per scopi decorativi ha un fascino e una seduzione peculiari e attrae fortemente l’artigiano dal temperamento artistico. Ammette l’individualità del trattamento e l’infinita varietà di design adatti nella sua applicazione a case di abitazione senza pretese, così come a palazzi signorili con stanze ampie e alte; ad ampi locali commerciali con sale riunioni e suite di uffici; ai grandi alberghi con splendide sale per banchetti e balli; ai magnifici edifici di “Clubland”, o ai saloni principeschi di Ocean Liners. Serve anche mirabilmente per la delicata manipolazione necessaria alle caste esigenze negli interni degli edifici ecclesiastici.
Lo stencilling si è guadagnato un posto importante nell’educazione di ogni buon artigiano e la sua tecnica fa parte del suo bagaglio commerciale. L’opera standard su “Pittura e decorazione” di Walter J. Pearce* fornisce istruzioni precise e chiare per quanto riguarda il taglio degli stampini, la manipolazione degli strumenti e l’applicazione dei colori, mentre per quanto riguarda i principi scientifici del lavoro a colori “Painter’s” di Hurst Colori, Oli e Vernici”* fa parte del trucco di ogni arredatore.
L’intenzione dell’Autore in questo lavoro è quella di fornire Idee in Stencilling, il risultato di molti anni di esperienza di lavoro su una varietà di edifici in Gran Bretagna e in Francia. Il successo dell’ornamento a stampino dipende in gran parte dalla combinazione di coloranti nel disegno, ed è spesso in questo particolare che l’abile artigiano è carente. Non di rado gli effetti vengono derubati della loro bellezza dall’uso di colori che offendono l’occhio, ed è per salvaguardare questo e la conseguente delusione che l’autore ha accuratamente elaborato la KEY-PLATE dei coloranti che sono alla base di questo lavoro.
Questa Key-plate contiene QUARANTA tinte che sono state selezionate con la massima cura da numerosi effetti e le tinte sono numerate. Molti disegni scelti sono inclusi nel libro e i numeri indicano i colori da utilizzare in accordo con la Key-plate. Con l’applicazione di colori corrispondenti alle tinte mostrate si otterranno gli effetti più affascinanti. Tutte le combinazioni di “Colorazioni” sono il risultato dei test più severi e vengono sottoposte con fiducia ad artigiani la cui esperienza nell’armonizzazione dei colori è limitata. Possono essere abbastanza sicuri di raggiungere il successo.
Altri artigiani oltre a quelli impegnati nella decorazione della casa troveranno questo colore Key-plate e la sua applicazione del massimo servizio. Risulterà utile nell’industria ceramica per maioliche e piastrelle ornamentali, per goffratori di vetro, rilegatori e altri che applicano l’arte decorativa a tessuti, seta, velluto, raso e carta, nonché a molti articoli domestici.
L’autore è lieto che Charles Griffin & Company, Ltd., che ha guadagnato fama internazionale come editore di libri tecnici, abbia aggiunto questo al proprio catalogo.
Cinema, televisione, produzione multimediale, hanno nel fenachistoscopio il loro antenato. Chi ha mai sentito questo strano nome, vince il piacere di potere raccontare la nascita di un oggetto cult per riprodurre immagini in movimento. Il fenachistoscopio è forse il primo dispositivo col quale visualizzare immagini non statiche ma animate. È stato inventato grazie alla ricerca incentrata sulle illusioni ottiche e presentato al pubblico come una vera e propria scoperta scientifica.
Come si può vedere nei disegni d’epoca, il fenachistoscopio era costituito da un manico che sosteneva un disco rotante in cartone. A prima vista poteva essere scambiato per un ventaglio rotondo. Il disco, tuttavia era rotante, e i disegni, riproducenti le fasi del movimento, erano disposti in cerchio. Tra i disegni vi erano strette fessure. Il disco era tenuto davanti a uno specchio in modo che i disegni potessero essere riflessi. Il lato del disco rivolto verso l’osservatore era nero. Costui guardava lo specchio attraverso le fessure, osservando i disegni mentre faceva ruotare il disco. La sequenza di immagini gli appariva in movimento.
Una donna e un bambino guardano le immagini in movimento in uno specchio. Illustrazione riportata sulla confezione di un disco stroboscopico Magic Disk – Disques Magiques di E. Schule, c.1833
Per illusione ottica le fessure fungono da otturatore lasciando apparire l’immagine riflessa nello specchio solo per un tempo molto breve. L’occhio vede quindi un’unica immagine, che sembra essere in movimento quando il disco ruota ad una velocità sufficiente.
Ben presto il dispositivo ha guadagnato la fama di un nuovo giocattolo di intrattenimento. Così, quando la novità svanì, fu accantonato come un giocattolo per bambini, ma trovò ancora impiego come strumento dimostrativo da parte di alcuni scienziati. Il quotidiano Le Figaro presentò il dispositivo a giugno del 1833, spiegando l’invenzione e quello strano termine che derivava dalle parole greche phénakistiscos, dal verbo “ingannare” e da skopein, che significa “esaminare” o “guardare”. Quindi il significato che si intendeva dare alla parola “fenachistoscopio” era qualcosa che ricordava un “inganno dello sguardo”, “inganno dell’occhio” o, se vogliamo dirlo con parole a noi più abituali, “illusione ottica”.
L’uso del fenachistoscopio a specchio, illustrazione del 1884, da: Gaston Tissandier, Les récréations scientifiques, Paris, 1884
L’inventore Joseph Plateau non denominò affatto il dispositivo quando fu introdotto sul mercato intorno a gennaio 1833, ma usò il nome quell’anno stesso in un articolo che faceva riferimento a un’altra versione messa in vendita. Il termine, invece, secondo alcuni fu usato per la prima volta dalla società francese Alphonse Giroux et Compagnie in una domanda di licenza di esportazione il 29 maggio 1833. Con questo nome, infatti, compare sulle loro confezioni.
Joseph Antoine Ferdinand Plateau
Abbiamo attribuito l’invenzione al fisico belga Joseph Plateau, ma come spesso accade, il fenachistoscopio fu inventato quasi contemporaneamente tra novembre e dicembre del 1832 anche dal professore austriaco di geometria pratica Simon Stampfer. Il vantaggio di Plateau fu l’avere pubblicato la sua invenzione il 21 gennaio 1833 in una lettera alla Correspondance Mathématique et Physique. L’articolo si intitolava Sur un nouveau genere d’illusions d’optique (Su una nuova forma di illusioni ottiche) ma senza dare un nome al suo dispositivo. Consisteva in un disco che rappresentava la sagoma di un ballerino mentre piroetta, ma Plateau suggeriva che sarebbe stato più efficace se fosse stato ombreggiato e dipinto a colori.
Anche Stampfer aveva pensato di collocare la sequenza di immagini su un disco, ma proponeva anche una alternativa su di un cilindro o, nel caso di un gran numero di immagini, su carta o tessuto tesi in modo da girare attorno a due bobine parallele. Tutte soluzioni che saranno sviluppate in seguito da altri inventori e che daranno origine a prodotti similari.
Simon Stampfer
Gli editori Trentsensky & Vieweg produssero la prima edizione delle Stroboscopische Scheiben del professor Stampfer sul finire di febbraio 1833, ma probabilmente aspettarono che il Privilegium (cioè il brevetto rilasciato dalle autorità austriache fosse ufficiale il 7 maggio 1833). Il problema fu che nessuno era preparato ad un “successo immediato, ne conseguì che gli stock dei prodotti fabbricati andarono esauriti in quattro settimane, lasciandoli impossibilitati a spedire gli ordini d’acquisto. Dal canto suo, Joseph Plateau non ha mai brevettato la propria invenzione e probabilmente non era neppure molto interessato a sfruttarla. Tuttavia, ha progettato sei versioni differenti dei dischi per la ditta Ackermann & Co. di Londra. Questi furono introdotti al pubblico nel luglio 1833 coi nomi di Fantasmascopi o Fantascopi. In verità, Il fenachistoscopio divenne molto popolare e presto ci furono altri editori in Europa che pubblicarono dischi con vari nomi differenti.
Collezione cinematografica Piasio, Witte’s Moviescope, zootropio (18 cm), USA, intorno al 1920/5. Questo zootropio può anche essere collocato su un giradischi.
Il fenachistoscopio è stato popolare per solo due anni, fino all’invenzione dello zootropio da parte di William George Horner. Quest’ultimo congegno presentava due vantaggi: non richiedeva uno specchio e, cosa più importante, poteva essere visto da più di una persona alla volta. Il cinema non era ancora nato, ma la strada era aperta.
La Cafetière: Conte fantastique, In: Le Cabinet de lecture del 4 maggio 1831 (Testo originale in lingua francese su Biblioteca Nazionale di Francia)
Caffettiera servizio Dresda Caffettiera in porcellana, fondo blu scuro chiamato bleu lapis con rifiniture e decorazioni dorate. Al centro riproduzione di una scena galante sul fronte e un mazzo di fiori sul retro ispirati alla pittura francese del Settecento. Beccuccio e manico dorati.
Ho visto sotto cupi veli undici stelle la luna e anche il sole che mi facevano la riverenza in silenzio finché è durato il sonno
(La visione di Giuseppe)
L’anno scorso, insieme a due compagni con i quali condividevo lo studio, Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli, fui invitato a passare qualche giorno in una proprietà nel cuore della Normandia. Il tempo, che al momento della partenza prometteva di essere splendido, all’improvviso pensò bene di cambiare, e piovve talmente che i sentieri infossati dove camminavamo erano come il letto di un torrente. Sprofondavamo nella melma fino al ginocchio, uno spesso strato di terra grassa si era attaccato alla suola dei nostri stivali, e il suo peso rallentava a tal punto i nostri passi che arrivammo a destinazione un’ora dopo il tramonto.
Eravamo esausti, tanto che il nostro ospite nel vedere gli sforzi che facevamo per soffocare gli sbadigli e tenere gli occhi aperti, appena cenato ci fece accomodare nelle nostre camere. Quando entrai nella mia, che era molto grande, sentii come un brivido di febbre, perché mi parve di penetrare in un mondo nuovo. Effettivamente pareva quasi di essere tornati ai tempi della Reggenza, a giudicare dalle soprapporte di Boucher raffiguranti le quattro stagioni, i mobili sovraccarichi di decorazioni rococò di pessimo gusto e le specchiere pesantemente scolpite. Nulla era stato toccato. La toeletta, su cui erano posati porta pettini e piumini per la cipria, sembrava che fosse servita il giorno prima. Due o tre abiti di colori cangianti e un ventaglio punteggiato di lustrini d’argento erano disseminati sul lucido parquet, e con mio grande stupore sul caminetto c’era una tabacchiera di tartaruga, aperta, piena di tabacco ancora fresco. Notai queste cose solo dopo che il domestico ebbe posato il candeliere sul comodino e augurato la buona notte. Confesso che cominciai a tremare come una foglia. Mi spogliai rapidamente, m’infilai a letto e per farla finita con quegli sciocchi terrori, chiusi subito gli occhi voltandomi verso il muro. Ma non mi fu possibile restare in quella posizione: il letto si agitava sotto di me come un’onda, le palpebre mi si riaprivano irresistibilmente. Fui costretto a girarmi e a guardare. Il fuoco del caminetto proiettava nella stanza riflessi rossastri, tanto che si potevano distinguere facilmente i personaggi degli arazzi e i volti dei ritratti appesi alle pareti e anneriti dal fumo. Erano gli antenati del nostro ospite, cavalieri bardati di ferro, consiglieri imparruccati e belle dame dal viso imbellettato e i capelli incipriati, che tenevano una rosa in mano.
All’improvviso le fiamme si misero a divampare con strana violenza; un livido bagliore illuminò la camera e io vidi distintamente che quelli che avevo scambiato per meri dipinti erano personaggi reali: le loro pupille si muovevano scintillando in modo singolare, le loro labbra si aprivano e si chiudevano come se stessero parlando, anche se io sentivo solo il tic-tac della pendola e il sibilare del vento autunnale. Un invincibile terrore s’impadronì di me: i capelli mi si drizzarono in testa, i denti mi sbatterono violentemente, un sudore freddo m’inondò da capo a piedi. La pendola batté le undici. La vibrazione dell’ultimo rintocco echeggiò a lungo, e quando si fu spenta del tutto…
Oh, no! Non oso dire quello che accadde. Oltre a non essere creduto, verrei preso per un pazzo. Le candele si accesero da sole; il mantice, senza essere azionato da nessun essere visibile, si mise a soffiare sul fuoco ansimando come un vecchio asmatico, mentre le molle attizzavano le braci e la paletta raccoglieva la cenere. Dopo di che una caffettiera si buttò giù dal tavolo su cui era posata e si diresse zoppicando verso il fuoco dove andò a piazzarsi tra i tizzoni. Qualche attimo dopo cominciarono a muoversi le poltrone che agitando in maniera stupefacente le gambe a torciglioni andarono a sistemarsi intorno al caminetto.
II Non sapevo che cosa pensare di quello che stavo vedendo, ma quello che vidi dopo fu ancor più straordinario. Uno dei ritratti, il più antico di tutti, quello di un grosso personaggio paffuto dalla barba grigia, che assomigliava come una goccia d’acqua a quello che per me è sempre stato il vecchio John Falstaff, con grandi smorfie tirò fuori la testa dalla cornice e dopo molti sforzi per far passare anche le spalle e il ventre tondeggiante, cadde pesantemente a terra. Appena ripreso fiato, tirò fuori dalla tasca del farsetto una chiave incredibilmente piccola, vi soffiò dentro per assicurarsi che il foro fosse ben pulito e l’applicò successivamente a tutte le cornici.
E tutte le cornici si allargarono in modo da lasciar passare facilmente le figure che racchiudevano. Piccoli abati paffuti, vecchie dame pallide e segaligne, magistrati dall’aria severa avvolti in grandi toghe nere, damerini con lucide calze, brache di lana e seta, la punta della spada verso l’alto: lo spettacolo di tutti quei personaggi era così bizzarro che nonostante lo spavento non potei fare a meno di ridere. I rispettabili signori si sedettero e la caffettiera saltò con leggerezza sul tavolo. Presero il caffè in tazzine giapponesi bianche e blu che accorsero spontaneamente da un secrétaire, munite di una zolletta di zucchero e di un cucchiaino d’argento. Finito il caffè, tazzine, caffettiera e cucchiaini scomparvero contemporaneamente ed ebbe inizio la conversazione, certamente la più curiosa che abbia mai udito, giacché nel parlare nessuno di questi strani conversatori guardava l’altro: tutti gli occhi erano fissi sulla pendola.
Nemmeno io riuscivo a distoglierne lo sguardo e a non seguire la lancetta che impercettibilmente avanzava verso mezzanotte. Finalmente scoccò la mezzanotte e si sentì una voce dal timbro identico a quello della pendola, che disse: «È ora, bisogna ballare». Tutti i presenti si alzarono. Le poltrone arretrarono spontaneamente e a quel punto ogni cavaliere prese la mano di una dama, mentre la stessa voce diceva: «Orsù, signori dell’orchestra, iniziate!».
Ho dimenticato di dire che l’arazzo rappresentava da un lato un concerto italiano e dall’altro una caccia al cervo con diversi valletti che suonavano il corno. Bracchieri e musicisti che fino a quel momento non avevano fatto alcun gesto chinarono il capo in segno di assenso. Il maestro alzò la bacchetta e ai due lati della sala si levò una melodia vivace e ballabile. Dapprima si danzò il minuetto, ma le rapide note della partitura eseguita dai musicisti mal si accordavano con le profonde riverenze, tanto che, dopo pochi minuti, ogni coppia di ballerini si mise a piroettare come una trottola tedesca. Gli abiti di seta delle donne, fruscianti nel vortice della danza, facevano un rumore particolare che evocava uno stormo di piccioni in volo.
L’aria che vi s’ingolfava li gonfiava in maniera tale da farli sembrare campane oscillanti. L’archetto dei virtuosi passava così rapidamente sulle corde da farne sprizzare scintille elettriche. Le dita dei flautisti si alzavano e si abbassavano quasi fossero state d’argento vivo; le guance dei bracchieri erano gonfie come palloni, con conseguente diluvio di note e di trilli così accelerati e di gamme ascendenti e discendenti così ingarbugliate, così inconcepibili, che neanche i diavoli avrebbero potuto seguire per due minuti un simile ritmo. Era quindi penoso vedere tutti gli sforzi di quei ballerini per tener dietro alla cadenza: saltavano, facevano capriole, ronds, jetés e entrechats alti tre piedi, sicché il sudore, calando dalla fronte sugli occhi portava via finti nei e belletto. Ma per quanto facessero, l’orchestra era sempre in anticipo di tre o quattro note. Quando la pendola suonò l’una, si fermarono, e a quel punto notai un particolare che mi era sfuggito: c’era una donna che non ballava.
Era seduta in una poltrona accanto al caminetto e sembrava del tutto estranea a ciò che le stava accadendo intorno. Mai, neanche in sogno, i miei occhi avevano visto qualcosa di così perfetto: una pelle di un candore abbagliante, capelli biondo cenere, lunghe ciglia e pupille azzurre così chiare e trasparenti che attraverso di esse vedevo distintamente la sua anima come un sasso sul fondo di un ruscello.
E sentii che se mai mi fosse capitato di amare, non avrei potuto amare che lei. Mi precipitai giù dal letto, dal quale fino a quel momento non ero riuscito a muovermi, e mi diressi verso di lei, spinto da qualcosa che agiva in me senza che fossi in grado di rendermene conto. Mi ritrovai ai suoi ginocchi, una sua mano tra le mie, a conversare con lei come se l’avessi conosciuta da vent’anni. Ma per un prodigio davvero strano, mentre le parlavo la mia testa oscillava accompagnando la musica che aveva seguitato a suonare, e benché fossi felicissimo di potermi intrattenere con una persona così bella, i miei piedi ardevano dalla voglia di ballare con lei, senza che trovassi il coraggio di proporglielo. Probabilmente lei capì quel che volevo, poiché sollevando verso il quadrante dell’orologio la mano che non tenevo tra le mie, mi disse:
«Quando la lancetta sarà su quel punto, vedremo mio caro Théodore». Non so come fu, ma non restai affatto sorpreso nel sentirmi chiamare per nome e seguitammo a chiacchierare. Finalmente suonò l’ora indicata e nella camera vibrò ancora la voce dal timbro d’argento: «Angela, può danzare con il signore se le fa piacere, ma lei sa che cosa accadrà». «Non importa», rispose Angela con tono imbronciato, circondandomi con il suo braccio eburneo.
«Prestissimo!», gridò la voce. Cominciammo allora a ballare il valzer. Il seno della fanciulla toccava il mio petto, la sua guancia vellutata sfiorava la mia e la mia bocca respirava il suo alito soave.
In vita mia non avevo mai provato una simile emozione: i nervi mi vibravano come molle d’acciaio, il sangue mi scorreva nelle arterie come un torrente di lava e mi sentivo battere il cuore come un orologio quando lo si accosta all’orecchio. Tuttavia, il mio non era affatto uno stato doloroso. M’inondava una gioia indicibile e sarei voluto rimanere sempre così. La cosa straordinaria era che non dovevamo fare nessuno sforzo per seguire l’orchestra, sebbene avesse triplicato il ritmo. I presenti, stupiti dalla nostra agilità, gridavano «bravi» e applaudivano con tutte le forze, ma le loro mani non emettevano alcun suono.
Angela, che fino a quel momento aveva ballato con un’energia e una precisione sorprendenti, di colpo parve stanca; mi pesava sulla spalla come se le gambe le avessero ceduto; i suoi piedini, che un minuto prima sfioravano il pavimento, ora se ne staccavano a fatica quasi fossero trattenuti da una palla di piombo. «Angela, lei è stanca», le dissi, «riposiamoci». «Volentieri», rispose detergendosi la fronte con un fazzoletto. «Ma mentre noi ballavamo, tutti gli altri si sono seduti: non c’è più che una poltrona e noi siamo in due». «Che importa, mio bell’angelo? La prenderò sulle ginocchia».
III Senza fare la minima obiezione, Angela si sedette circondandomi con le braccia come fossero una bianca sciarpa, annidando la testa nel mio petto per riscaldarsi un poco, giacché era diventata fredda come il marmo. Non so per quanto tempo restammo in quella posizione, poiché la contemplazione di quella misteriosa e fantastica creatura assorbiva tutti i miei sensi. Avevo perso la nozione dell’ora e del luogo: il mondo reale per me non esisteva più ed ogni mio legame con esso si era spezzato. La mia anima, liberata dalla sua prigione di fango, si librava nel vago e nell’infinito; capivo ciò che nessun uomo può capire, giacché i pensieri di Angela mi si rivelavano senza che lei avesse bisogno di parlare. L’anima le risplendeva infatti nel corpo come una lampada di alabastro, e i raggi emanati dal suo petto trafiggevano il mio da parte a parte.
L’allodola cantò e un pallido chiarore folleggiò sulle tende. Appena Angela lo scorse si alzò precipitosamente, mi fece un cenno d’addio e dopo qualche passo cadde lunga distesa emettendo un grido. In preda allo spavento mi precipitai per rialzarla… Solo a pensarci mi si agghiaccia il sangue: tutto quel che trovai fu la caffettiera ridotta in mille pezzi. A quella vista, convinto di essere stato vittima di una qualche diabolica illusione, fui colto da un tale terrore che svenni.
IV Quando ripresi conoscenza ero nel mio letto e accanto a me c’erano Arrigo Cohic e Pedrino Borgnioli. Appena ebbi aperto gli occhi, Arrigo esclamò: «Era tempo! È quasi un’ora che ti sto sfregando le tempie con l’acqua di Colonia. Che diavolo hai fatto stanotte? Stamani, vedendo che non scendevi, sono entrato in camera tua e ti ho trovato lungo disteso per terra in abito di gala, che stringevi tra le braccia un pezzo di porcellana rotta come se fosse stata una bella fanciulla». «Perdio! È l’abito di nozze di mio nonno», disse l’altro sollevando una delle falde di seta rosa arabescata di verde.
«Ecco i bottoni di strass e di filigrana che ci vantava tanto. Théodore l’avrà scovato da qualche parte e se lo sarà messo per divertirsi. Ma perché poi ti sei sentito male?», soggiunse Borgnioli. «È una cosa prevedibile in un’amichetta dalle spalle bianche: le si slaccia il corsetto, le si tolgono le collane, la sciarpa, ed ecco una bella occasione per fare un po’ di scena». «È stato solo un mancamento, a volte mi capita», risposi asciutto. Mi alzai e mi tolsi il ridicolo abbigliamento. Poi andammo a pranzo. I miei compagni mangiarono molto e bevvero anche di più. Io invece non toccai quasi cibo, distratto dal ricordo delle strane cose che erano accadute.
Finito il pranzo, visto che pioveva a dirotto non potemmo uscire e ciascuno si occupò come poté. Borgnioli tamburellò marce guerriere sui vetri; Arrigo e l’ospite fecero una partita a dama, mentre io tirai fuori dal mio album un foglio di carta velina e mi misi a disegnare. Le linee quasi impercettibili tracciate senza intenzione dalla mia matita finirono col rappresentare in modo mirabilmente preciso la caffettiera che aveva avuto una parte così importante nelle scene della notte. «È incredibile come questa testa assomigli a mia sorella Angela», disse l’ospite che dopo aver terminato la partita si era messo alle mie spalle e mi guardava disegnare. In effetti, quella che poco prima mi era sembrata una caffettiera era in realtà il profilo dolce e malinconico di Angela.
«Per tutti i santi del Paradiso! È morta o viva?» esclamai con voce tremante, come se la mia vita fosse dipesa dalla sua risposta. «È morta due anni fa di una congestione polmonare, dopo una festa da ballo». «Ahimè!», risposi dolorosamente. E trattenendo una lacrima, rimisi il foglio nell’album. Avevo capito che per me non ci sarebbe più stata felicità sulla terra.
Brano tratto da: Three Years in Europe. Places I Have Seen and People I Have Met Tre anni in Europa. Luoghi che ho visto e persone che ho incontrato
Presumendo che vi aspettiate da me qualche resoconto della grande Fiera Mondiale, prendo la mia penna per darvi le mie impressioni, anche se temo che qualsiasi cosa io possa dire su questo “giorno da leone”, sarà molto al di sotto di una descrizione. Lo scorso lunedì ho lasciato il mio alloggio di buon’ora e sono partito per il Crystal Palace. Questa giornata è stata bella, come raramente sperimentiamo a Londra, con un cielo limpido e un’aria tonificante, la cui vitalità è stata stimolante per gli spiriti come un soffio dal “corno fatato di Astolfo”. Sebbene non fossero ancora le 10 quando entrai a Piccadilly, ogni omnibus era pieno, dentro e fuori, e la strada era fiancheggiata da un ruscello vivo, a perdita d’occhio, che si dirigeva verso la “Glass-House” (l’enorme costruzione tutta di vetro, NDR). Nessuna metropoli al mondo presenta strutture come Londra per accogliere la Grande Esposizione, ora raccolte tra le sue mura. Attraverso le sue miriadi di vene, il flusso dell’industria e della fatica pulsa di energia insonne. Tutti sembrano ritenere che questa grande Capitale del mondo sia il luogo più adatto in cui rendere omaggio alla dignità del lavoro. Avevo già cominciato a sentirmi affaticato dalla mia escursione pedonale mentre passavo davanti ad “Apsley House”, la residenza del duca di Wellington, ed emergevo in Hyde Park.
Vista da Knightsbridge Road del Crystal Palace di Hyde Park per la Grand International Exhibition del 1851. Dedicato ai Royal Commissioners., London: Read & Co. Engravers & Printers, 1851.
Avevo sperato che, entrando nel parco, sarei stato fuori dalla folla che sembrava incalzare così pesantemente per strada. Ma in questo mi sbagliavo. Qui mi sono trovato circondato e in movimento con una massa travolgente, come non avevo mai visto prima. E, in lontananza, scorsi una folla concentrata, e sopra ogni altro oggetto si vedeva l’alta sommità del Palazzo di Cristallo. Il vialetto nel Parco era fiancheggiato da veicoli dall’aspetto principesco di ogni genere. I conducenti nelle loro uniformi rosso vivo e oro, i paggi e i camerieri con i loro pantaloni blu e le calze di seta bianca, e i cavalli vestiti con i loro lindi finimenti montati in argento, rendevano la scena nel suo insieme di grande splendore. Ben presto fui alla porta, pagai il mio scellino ed entrai nell’edificio all’estremità sud del transetto. Per i primi dieci o venti minuti fui così perso nello stupore e assorto in una piacevole meraviglia, che non potei fare altro che guardare su e giù il panorama del nobile edificio. Il Crystal Palace ricorda, per certi aspetti, l’interno delle cattedrali di questo paese. Un lungo viale da est a ovest è intersecato da un transetto, che divide l’edificio in due parti quasi uguali. Questo è il più grande edificio che il mondo abbia mai visto, davanti al quale le Piramidi d’Egitto e il Colosso di Rodi devono nascondere le loro teste rimpicciolite. Il palazzo non era mai pieno durante il giorno, pur essendo presenti “solo” 64.000 persone. Chi ama studiare il volto umano in tutte le sue infinite varietà, può trovare ampio spazio per l’indulgenza del proprio gusto, visitando l’Esposizione Universale. Vi sono rappresentati tutti i paesi: europei, asiatici, americani e africani, con le loro numerose suddivisioni… Di tutti i luoghi dai costumi curiosi e mode diverse, nessuno ha mai presentato una tale varietà come questa Mostra.
Sir Joseph Paxton, Crystal Palace, visione frontale e pianta del pianterreno. Il Crystal Palace era ubicato ad Hyde Park, nel centro di Londra. Dopo la Grande Esposizione, il Palazzo di Cristallo fu ricostruito a Sydenham, a Sud di Londra.
C’è molta libertà nell’Esposizione. Il servitore che cammina dietro la sua padrona attraverso il Parco sente di potersi accalcare contro di lei nell’Esposizione. La regina e il lavoratore a giornata, il principe e il mercante, il pari e il povero… tutti si incontrano qui in termini di perfetta uguaglianza. Questa fusione di rango, questa gentile fusione di interessi e l’oblio delle fredde formalità di gradi e gradi, non possono che essere seguite con i migliori risultati. Mi ha fatto piacere vedere una così bella spolverata di miei connazionali all’Esposizione – intendo uomini e donne neri – ben vestiti e che si muovono con i loro fratelli più biondi. Questo, alcuni dei nostri americani pro-schiavitù, non sembravano apprezzarlo granché. Non c’era sostegno in questo. Mentre attraversavo la parte americana del Crystal Palace, alcuni dei nostri vicini della Virginia mi guardavano da vicino e con sguardi gelosi, soprattutto mentre una signora inglese si appoggiava al mio braccio. Ma i loro sguardi beffardi non mi disturbarono minimamente. Rimasi più a lungo nel loro settore e criticai ancora di più il cattivo aspetto della loro merce.
Il Crystal Palace da nord-est durante la Grande Esposizione del 1851
In un luogo così vasto come la Grande Esposizione non si sa quasi cosa visitare anzitutto o cosa guardare successivamente. Dopo aver vagato per l’edificio per cinque ore, mi sono seduto in una delle gallerie e ho guardato la bella statua di marmo di Virginius, con il coltello in mano e in procinto di togliere la vita alla sua amata e bella figlia, per salvarla dalle mani di Appio Claudio. L’ammiratore del genio si soffermerà per ore tra la grande varietà di statue del lungo viale. Grandi statue di Lord Eldon e Stowell, scolpite nel marmo massiccio, ciascuna del peso di oltre venti tonnellate, sono tra le più gigantesche dell’edificio.
La regina Vittoria indossa il Koh-i-noor in una spilla. Ritratto di Franz Xaver Winterhalter
Tra le tante cose del Crystal Palace, ce ne sono alcune che ricevono maggiore attenzione di altre, intorno alle quali si possono sempre vedere grandi gruppi di visitatori. Il primo di questi è il Koh-i-noor, la “Montagna di Luce”. Questo è il diamante più grande e prezioso del mondo, che si dice valga £.2.000.000 di sterline. È davvero una grande fonte di attrazione per coloro che si recano per la prima volta all’Esposizione, ma è dubbio che anche in seguito ottenga tale ammirazione. Abbiamo visto più di uno spettatore allontanarsi con l’idea che dopotutto fosse solo un pezzo di vetro. Dopo qualche intoppo, ho dato un’occhiata al prezioso gioiello e, sebbene in una gabbia con grate di ottone, abbastanza forte da contenere un leone, ho scoperto che non era più grande di un terzo di un uovo di gallina. Due poliziotti restano al fianco della teca giorno e notte.
McNeven, J., The Foreign Department (Il dipartimento estero) visto verso il transetto, litografia a colori, 1851, Ackermann (tipografo), V&A. La Grande Esposizione fu sede delle Opere dell’Industria di Tutte le Nazioni nel 1851, comprendendo esempi di prodotti industriali provenienti da tutto il mondo.
La cosa più bella dell’Esposizione è la “Vestale Velata”, una statua di una donna scolpita nel marmo, con uno chador sul viso, e così ben fatta, che sembra che sia stata gettata via dopo che era finita. L’Esposizione presenta molte cose che attirano l’occhio e toccano il cuore, e nel complesso è così decorata e arredata da eccitare la mente più ottusa e soddisfare i più esigenti.
L’Inghilterra ha contribuito con gli articoli più utili e sostanziali; la Francia, la più bella; mentre la Russia, la Turchia e le Indie occidentali sembrano competere tra loro in ricchezza. Cina e Persia non sono indietro. Anche l’Austria ha contribuito con uno stock ricco e bello. Svezia, Norvegia, Danimarca e gli stati più piccoli d’Europa hanno tutti cercato di superare se stessi nell’inviare merci all’Esposizione Universale. In Macchinari, l’Ingterra non ha concorrenti. In Arte, la Francia è quasi sola in Mostra, a parte l’Inghilterra.
L’interno del Crystal Palace di Londra durante la Grande Esposizione del 1851. Vista del transetto del Grande Ingresso.
Nelle produzioni e nelle provviste naturali, l’America è sola nella sua gloria. Lì giace il suo mucchio di prosciutti in tela; se fossero di legno o veri, non si poteva dirlo. Ci sono i suoi barili di sale, di manzo e di maiale, il suo bel lardo bianco, il suo granturco e farina di mais, il suo riso e il suo tabacco, le sue lingue di manzo, i piselli secchi e alcuni sacchi di cotone. Sembrava che gli espositori dagli Stati Uniti avessero del tutto dimenticato che si trattava di una mostra d’Arte, al contrario non avrebbero sicuramente inviato provviste. Nondimeno gli Stati Uniti sono in testa alla lista degli standisti, poiché nessun altro Paese ha inviato provviste. La cosa più bella fornita dai nostri compatrioti è un grande pezzo di seta con sopra dipinta un’aquila, circondata da stelle e strisce.
Il dipartimento britannico visto verso il transetto, Le mostre includevano contributi provenienti da tutto il paese, con opere artigianali esposte accanto a oggetti di produzione industriale. I prodotti spaziavano da materie prime come il carbone agli oggetti decorativi per interni.
Dopo essere rimasto più di cinque ore nel grande tempio, voltai le spalle alle bancarelle riccamente cariche e lasciai il Palazzo di Cristallo. Al mio ritorno a casa fui più fortunato che al mattino, in quanto trovai posto per me e il mio amico in un Omnibus. E anche il mio il giro su questo mezzo pubblico non era privo di interesse. Perché mi ero appena seduto, quando il mio amico, che era seduto di fronte a me, con sguardi e gesti mi informò che eravamo in presenza di una persona distinta. Ho guardato i volti delle diverse persone, ma invano, per vedere se potevo trovare qualcuno che con il suo aspetto mostrasse segni di superiorità sui suoi compagni di viaggio. Avevo perso la speranza di selezionare la persona degna di nota quando un altro sguardo del mio amico attirò la mia attenzione su un signore seduto nell’angolo dell’Omnibus. Era un uomo alto con lineamenti molto marcati, capelli scuri e ruvidi. C’era una leggera curvatura delle spalle, quella curva che è quasi sempre una caratteristica degli uomini studiosi. Ma aveva sul volto un cipiglio minaccioso e sdegnoso, questo sembrava dire che si riteneva migliore di quelli che lo circondavano. Il suo vestito non indicava un uomo di alto rango; e se fossimo stati in America, l’avrei scambiato per un contadino dell’Ohio.
Mentre scrutavo i lineamenti e l’aspetto generale del gentiluomo, l’Omnibus si fermò e fece scendere tre o quattro passeggeri, il che mi diede l’opportunità di prendere posto accanto al mio amico, il quale, a bassa voce, mi informò che il signore che avevo osservato così da vicino non era nientemeno che la persona di Thomas Carlyle. Avevo letto il suo “L’adorazione dell’eroe” e “Passato e presente” e mi ero fatto un’alta opinione delle sue capacità letterarie. Ma il suo recente attacco al popolo emancipato delle Indie Occidentali, e il suo laborioso articolo a favore del ripristino della frusta e della schiavitù, avevano creato nella mia mente un’avversione per quell’uomo, e quasi rimpiansi che fossimo sullo stesso Omnibus. In alcune cose, il signor Carlyle ha ragione; ma in molte ha completamente torto. Come scrittore, il signor Carlyle è spesso monotono e stravagante. Non esibisce una nuova visione della natura oppure dà importanza a cose insignificanti, ma generalmente prende pensieri ed eventi banali e cerca di esprimerli in un linguaggio più forte e maestoso di altri. Non ha comunione con la sua specie, ma è solo senza compagno o compagna. È come una vetta solitaria, a cui è precluso ogni accesso. Non esiste per simpatia, ma per antipatia. Il signor Carlyle sembra principalmente provare a mostrare i propri poteri e stupire l’umanità, avviando nuove serie di speculazioni o esprimendo quelle vecchie in modo da non essere compreso. Gli importa poco di quello che dice, per poterlo dire in modo diverso dagli altri. Leggere le sue opere, è una cosa; capirle, è altro. Se qualcuno pensa che esagero, lo lasci sedere per un’ora a leggere “Sartor Resartus” (Il sarto rappezzato, opera scritta da Carlyle nel 1831. NDR), e se non alza lo sguardo dalle sue pagine, mette i suoi tre o quattro dizionari sullo scaffale e dice che ho ragione, prometto di non dire mai più una parola contro Thomas Carlyle. Scrive una pagina a favore di Reform, e dieci contro di esso. Impiccherebbe tutti i prigionieri per sbarazzarsi di loro, ma i detenuti delle prigioni e “le case di lavoro stanno meglio dei poveri.” Il suo cuore è con i poveri, ma ai neri delle Indie Occidentali dovrebbero insegnare, che se qualcuno di loro non coltiva zucchero e cotone di propria spontanea volontà, “Quashy dovrebbe batterlo con la frusta”. Disapprova gli oratori del Riformatorio sui consigli di amministrazione di Exeter Hall, eppure è il principe dei riformatori. Odia ancora gli eroi e gli assassini, Cromwell era un angelo e Charlotte Corday una santa. Disprezza tutto, e sembra essere stanco di ciò che è per natura, e cerca di essere ciò che non è. Ma ti chiederai, cosa c’entra Thomas Carlyle con una visita al Crystal Palace? La mia unica risposta è: “Niente”, e se le mie osservazioni su di lui hanno occupato lo spazio che avrebbe dovuto essere dedicato all’Esposizione, e ciò che ho scritto non risulta troppo gravoso da leggere, la mia prossima lettera sarà “una settimana nel Palazzo di cristallo.”
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui a navigare su Experiences, noi riteniamo che tu sia concorde.Ok
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.