La Val di Zoldo si prepara in vista del Dolomiti Extreme Trail

Iniziato in Val di Zoldo, nelle Dolomiti Bellunesi, il conto alla rovescia per la KAILAS FUGA Dolomiti Extreme Trail, l’evento per gli appassionati della corsa in montagna che si svolge dal 2013 sui sentieri della Val di Zoldo, nel cuore delle Dolomiti Bellunesi, sito patrimonio dell’umanità Unesco, i prossimi 6-7-8 giugno 2025. 

In vista dell’appuntamento, l’agenzia Gruppo Matches che segue il prestigioso marchio sportivo cinese, ha ideato per domenica 27 aprile, un training camp insieme al Team KAILAS FUGA, l’azienda cinese specializzata nella realizzazione di scarpe, abbigliamento e accessori per gli sport outdoor che da questo 2025 è il nuovo title sponsor della manifestazione per i prossimi tre anni. 

Il KAILAS FUGA TRAINING CAMP si svolgerà alla Sporting Area di Pralongo, nei pressi di Forno di Zoldo. La formula è quella del test sul campo: dalle ore 10 della domenica, si potranno provare i prodotti KAILAS FUGA dedicati al trail running con un test di corsa che si svilupperà su un tracciato di 10,5 chilometri e di 690 metri di dislivello positivo, lungo un tratto dei sentieri che saranno percorsi anche dalle gare di giugno. A coordinare il test sarà Donatello Rota, ultra-runner (vanta, tra le altre prestazioni, un secondo posto al Tor des Géants 2024) e preparatore atletico.  

Tutto questo solo per i primi 50 atleti ed appassionati che si iscriveranno entro  il 23 aprile 2025 nel link dedicato:

Un nuovo progetto di sport per Gruppo Matches – ha detto il suo Ceo Andrea Cicini –, che supporta la promozione del brand  KAILAS FUGA, un brand che ha creduto nell’agenzia e nel DXT, al fine di far conoscere a sempre più atleti del settore trail prodotti innovativi e ad alte performance per le lore prestazioni sportive. L’annunciata sinergia col marchio per il prossimo triennio è la conferma che il Dolomiti Extreme Trail sta facendo bene, riuscendo a posizionarsi nel tempo tra le alte vette delle migliori manifestazioni di trail in Europa. Sicuramente tra le più tecniche”.

KAILAS FUGA Dolomiti Extreme Trail 2025 si svolgerà dal 6 all’8 giugno 2025 e proporrà diverse distanze: 103 K (la gara più lunga e difficile, con 7.150 metri di dislivello positivo e altrettanti di dislivello negativo), la 72 K (5.550 metri di dislivello), la 55 K (la prima nata, 3.800 metri di dislivello), la nuova nata 35 K (2 mila metri di dislivello), la 22 K (1.300 metri di dislivello) e la 11 K (470 metri di dislivello). Quest’ultima sarà esclusivamente in forma non competitiva. Per i più piccoli ci sarà la Mini Dxt, su tracciato-gymkana di 2 chilometri. La 103 K, la 72 K, la 55 K, la 35 K e la 22 K sono gare qualificanti per l’UTMB Mont-Blanc e partecipano a ITRA National League oltre che al campionato Europe Trail Cup.

Media | Press Office Gruppo Matches
e-mail: media@gruppomatches.com


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Se la cura del viso diventa naturalmente cura di sé

Massaggio al viso, non una novità

Le origini del massaggio manuale al viso affondano le radici nelle antiche civiltà orientali, in particolare in Cina e in India, dove veniva praticato già migliaia di anni fa come rituale di bellezza e strumento di riequilibrio energetico. Nella medicina tradizionale cinese, il massaggio del viso era parte integrante delle tecniche di digitopressione (come il Tui Na) per stimolare i meridiani e favorire il benessere dell’intero organismo. In Giappone, l’arte del Kobido — riservata originariamente alle imperatrici — è un esempio raffinato di trattamento che unisce manualità e filosofia. In Europa, il massaggio facciale si diffonde a partire dal Rinascimento, evolvendosi nel tempo fino a diventare, tra Ottocento e Novecento, una componente fondamentale dei trattamenti estetici professionali.

Il “nuovo” di Annaluisa Corvaglia

Nel panorama dell’estetica e del benessere, Anna Luisa Corvaglia si distingue tuttavia come una professionista innovativa, per aver creato (e brevettato) la Riflessologia Facciale Rimodellante, una tecnica che unisce la riflessologia facciale ai benefici del massaggio connettivale, unica in Italia e in Europa, combinando tecniche manuali avanzate con la potenza della stimolazione dei punti e delle zone riflesse del viso. La parte strutturale del metodo è quindi rappresentata da manovre profonde sui muscoli facciali, sulle suture craniche e sulla postura, ma è integrata dalla efficacia del massaggio Guà Sha. Originario della medicina tradizionale cinese, questo massaggio (Guà, “raschiare” e Sha “comparsa di temporanei rossori”) nasce come tecnica di guarigione per il corpo, finalizzata a liberare i ristagni energetici e a stimolare una migliore circolazione linfatica e sanguigna. Diventa così una straordinaria componente in una routine di bellezza per la sua capacità di stimolare il drenaggio dei liquidi, rilassare la muscolatura e favorire un aspetto più disteso e luminoso. Si effettua con l’ausilio di appositi strumenti levigati, solitamente in pietra di giada o quarzo rosa, che scorrono delicatamente sulla pelle seguendo linee specifiche con movimenti decisi, ma controllati, e a volte in combinazione con oli o sieri naturali. A completare il metodo di Annaluisa Corvaglia, poi, il lavoro sui meridiani.

Tra le righe delle rughe

Come si vede, si tratta di un approccio olistico che mette al centro il riequilibrio delle energie, permettendo di ottenere risultati sia a livello estetico, con un rimodellamento dei tratti ben visibile, sia un miglioramento generale del benessere della persona. Ogni viso e ogni ruga vengono osservati attentamente, letti, per capire infatti anche gli aspetti emotivi che possono influire sull’aspetto di quel viso. Non solo per risolvere inestetismi, ma anche per attenuare disturbi comuni come tensioni muscolari, dolori cervicali e i diversi sintomi legati allo stress, attraverso un invito a rallentare e a riconnettersi col proprio corpo. Ai tempi del multitasking e della sovrastimolazione digitale, Annaluisa Corvaglia fa del suo metodo un rituale di bellezza sì, ma anche un rituale di ascolto e rigenerazione, “raschiando” via lo stress, un gesto alla volta.

SkinGym, non solo uno luogo fisico

Come “terapista facciale”, Annaluisa Corvaglia apriva quest’anno a Roma, al quartiere Parioli, lo studio SkinGym, dove esercita e che è diventato un crogiolo di professionalità, in costante dialogo tra loro, tutte rivolte alla cura e al benessere fisico e psichico della persona. Dopo anni di esercizio della professione di estetista esperta, quindi, ha lasciato che “il sogno di un’altra cosa” divenisse possibile. Per lei, certo, per le donne e gli uomini che si rivolgono a lei. Ma non solo.

SkinGym è infatti anche una piattaforma che promuove l’auto trattamento delviso attraverso un metodo naturale e indolore, con esercizi mirati, permettendo così a chiunque e da dovunque di prendersi cura della propria pelle in modo naturale e consapevole.  In quest’ambito anche la pubblicazione del libro “Visogym. Il lifting viso che ti fai tu!”, non solo una guida pratica all’automassaggio facciale, rendendo democraticamente accessibili almeno parte tecniche avanzate praticate in studio anche a casa, ma anche un testo capace di regalare un surplus di consapevolezza sulla necessità di conoscere la propria pelle, e più in generale il proprio corpo, per assecondarne inclinazioni e bisogni. E sentirsi meglio. Il viso, la testa, il collo, sono infetti crocevia di muscoli, stazioni linfonodali, punti ricettivi per la riflessologia, e quindi anche a queste parti del corpo fa bene andare “in palestra”, con benefici l’aspetto della pelle, invitata e guidata a tornare tonica, elastica, luminosa, ma anche per l’intero corpo e la psiche stessa della persona.

Di che parliamo quando parliamo di Bellezza

Oggi come ieri, infatti, la bellezza di un viso come di un corpo ha molto a che fare con quanto di bello il nostro viso e il nostro corpo celano di noi stessi. Quello che siamo è quello che poi, in qualche modo, il nostro viso e il nostro corpo lasciano trapelare. Per questo arrivare a concepire una routine di bellezza “naturale”, che funziona solo attraverso pratiche di massaggio manuale, vecchie e nuove, e che promette però di andare “un po’ più a fondo” a liberare positività e ricercare equilibrio, un metodo di ricerca a tutto tondo di uno stato di benessere mentale fisico, è un qualcosa che Annaluisa Corvaglia ha voluto inseguire e per il quale non smette di studiare, e che per noi può valere la pena di sperimentare ed imparare.


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Il bicchiere da Martini: geometria della modernità

Nel panorama dei cocktail classici, nessun altro riesce a evocare con tanta forza l’eleganza senza tempo, la raffinatezza e l’immaginario cinematografico quanto il Martini. Dietro la trasparenza tagliente del drink e la silhouette impeccabile del bicchiere, si cela una storia ricca di intrecci tra scienza, medicina, costume e design. Un racconto che attraversa secoli, nazioni e stili di vita, fino a condensarsi in un gesto: il tintinnio sottile di un calice triangolare, impugnato con due dita, tra un brindisi e una battuta di spirito.

L’identità alcolica del Martini affonda le radici nel XVII secolo, quando un professore olandese di medicina, Francois de Boe Sylvius, mise a punto una miscela di alcol di cereali e bacche di ginepro per curare i disturbi renali e purificare il sangue. Era il genever, precursore del moderno gin. Il successo fu immediato: la bevanda non solo era economica e facilmente producibile, ma suscitava un’euforia piacevole. Il suo consumo si diffuse ben oltre le intenzioni terapeutiche, diventando parte integrante della cultura del bere in Europa.

Il secondo ingrediente del Martini, il vermouth, nasce in Italia nel Settecento come infuso di vino bianco, spezie ed erbe medicinali. Il nome stesso – vermouth – deriva dal tedesco wermut, cioè assenzio, pianta utilizzata per combattere i parassiti intestinali. A lungo, il vermouth fu consumato come digestivo, in alternativa all’acqua potabile spesso contaminata. Le prime versioni erano scure, dolci, ricche di aromi: l’attuale formulazione, più secca e chiara, si sarebbe affermata solo nel corso del Novecento.

Il matrimonio tra gin e vermouth diede vita al Martini, un cocktail il cui nome stesso è oggetto di innumerevoli leggende. C’è chi lo attribuisce a Jerry Thomas, pioniere della mixology americana, che avrebbe creato un Martinez per un cercatore d’oro diretto a Martinez, in California. C’è chi indica invece un barista del Knickerbocker Hotel di New York, Martini di Arma di Taggia, che lo avrebbe servito nel 1911 a John D. Rockefeller. C’è infine chi riconduce il nome alla ditta italiana Martini & Rossi, che già nel 1871 esportava il suo vermouth negli Stati Uniti. Tutte ipotesi plausibili, nessuna definitiva.

Se il Martini è diventato una leggenda, è anche grazie al suo contenitore. Il bicchiere da Martini – trasparente, affilato, essenziale – è una delle forme più iconiche del design del Novecento. La sua comparsa ufficiale risale agli anni Venti, in un periodo in cui il gusto estetico si andava rapidamente evolvendo verso linee pulite, minimaliste, geometriche.

Alla base del successo di questo oggetto c’è una precisa esigenza funzionale: i cocktail come il Martini vanno serviti freddi, senza ghiaccio. Lo stelo lungo consente quindi di tenere il bicchiere senza riscaldare il contenuto con il calore della mano. La coppa ampia, che si apre in un angolo netto, avvicina la superficie del liquido al naso, favorendo la percezione degli aromi, soprattutto quelli del gin. I lati inclinati impediscono la separazione dei componenti del drink e sostengono con grazia le classiche guarnizioni: un’oliva verde, una scorza di limone, o uno spiedino da cocktail.

Dal punto di vista estetico, il bicchiere da Martini rappresenta l’incarnazione del modernismo applicato agli oggetti quotidiani. Non a caso, fu formalmente introdotto all’Esposizione di Parigi del 1925 come rielaborazione modernista della coppa da champagne, allora simbolo di raffinatezza e mondanità. La forma, derivata dall’Art Deco, rifletteva le tendenze dell’epoca anche nell’architettura e nell’arredamento: linee spezzate, angoli decisi, funzionalismo elegante.

Esistono versioni più pittoresche sulla nascita del bicchiere, come quella che lo vuole ideato durante il proibizionismo americano per consentire di svuotare velocemente il contenuto in caso di raid della polizia nei bar clandestini. Se pure apocrifa, questa storia contribuisce al fascino misterioso che circonda l’oggetto.

Negli anni Trenta, il bicchiere da Martini si impose nella cultura visiva occidentale. Appariva nei film, sulle riviste patinate, nei salotti dell’alta società tra New York e Hollywood. Con la diffusione dei servizi da cocktail per uso domestico, diventò accessibile anche al ceto medio, incarnando il sogno di una sofisticazione a portata di mano. Gli shaker in acciaio lucido, i cucchiai curvi, i colini, le pinze per olive: tutto contribuiva a creare un immaginario fatto di glamour, ritmo jazz e conversazioni scintillanti.

Attrici come Katharine Hepburn, nei film quanto nella vita reale, seppero farne un accessorio di stile. Il Martini – e con lui il suo bicchiere – entrò nel linguaggio del cinema, diventando emblema di personaggi affascinanti, indipendenti, sofisticati. Divenne il drink preferito di James Bond (“shaken, not stirred”), il protagonista di brunch letterari e il compagno immancabile nei pomeriggi oziosi delle commedie sofisticate.

Oggi, il bicchiere da Martini non ha subito modifiche sostanziali. La sua silhouette è rimasta intatta, riverita da designer, illustratori, registi. Ogni tentativo di aggiornarla si è scontrato con la perfezione di una forma ormai archetipica, capace di coniugare bellezza e funzionalità in un equilibrio che sfida il tempo.

Il Martini non è soltanto un cocktail: è un’icona culturale. È il distillato di una lunga tradizione che unisce l’arte della miscelazione alla storia del design. È un gesto, uno stile, un’immagine sedimentata nell’immaginario collettivo. Ed è soprattutto una prova di come, nella semplicità apparente di un bicchiere e due ingredienti, possa vivere una complessità fatta di storie, invenzioni, influenze e aspirazioni. Una complessità che, proprio come un buon Martini, va gustata lentamente.


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Il rosa Pompadour: quando un colore racconta un’epoca

Tra le molte sfumature che hanno colorato la storia dell’arte, poche portano con sé il peso culturale, politico ed estetico del cosiddetto “rosa Pompadour”. A lungo rimasta un enigma nelle botteghe e negli archivi, la composizione chimica di questa tonalità raffinata e inconfondibile è stata recentemente svelata grazie a un’indagine scientifica condotta in occasione della mostra “Boucher e Fragonard alla corte del re”, ospitata fino al 25 maggio 2025 presso la Casa Museo Fondazione Paolo e Carolina Zani, a Cellatica, Brescia.

Il risultato è una scoperta che, seppur tecnica nei presupposti, getta nuova luce su un’intera estetica settecentesca e su una delle figure più influenti dell’Ancien Régime: Madame de Pompadour.

Nato dalla volontà di esaltare il fascino e l’eleganza di Jeanne-Antoinette Poisson – meglio conosciuta come Madame de Pompadour –, il rosa Pompadour non fu soltanto una moda cromatica, ma un autentico simbolo di gusto, stile e influenza culturale. La favorita ufficiale di Luigi XV fu molto più di una figura decorativa della corte: donna colta, stratega politica, mecenate appassionata delle arti, contribuì in modo decisivo all’affermazione del rococò francese.

Tra i molti artisti da lei sostenuti, il più celebre fu François Boucher, che divenne primo pittore del re nel 1765. Fu lui a dare forma pittorica all’estetica Pompadour, prediligendo nei suoi dipinti una gamma di colori morbidi e sensuali, tra cui spiccava una tonalità di rosa pallido, vibrante e cangiante. Questo colore, codificato ufficialmente nel 1757 presso le manifatture di porcellana di Sèvres grazie al chimico Jean Hellot, divenne subito riconoscibile e ricercato, sia nell’arte che nell’arredo, nella moda e nella decorazione.

Rosa Pompadour su un porcellana. Fonte Wikipedia

Una formula svelata tra arte e scienza

La composizione del rosa Pompadour è stata finalmente chiarita attraverso sofisticate indagini diagnostiche condotte da Gianluca Poldi dell’Università di Udine, nell’ambito della mostra organizzata dalla Fondazione Zani. I risultati, presentati nel corso di un incontro intitolato “In leggerezza. Come dipinge Boucher alla luce delle analisi scientifiche”, hanno rivelato una formula sorprendentemente articolata.

Per ottenere quella sfumatura morbida, carnosa e luminosa – così cara alla ritrattistica di Venere, di putti e amorini, e ovviamente della stessa Pompadour – veniva impiegata una miscela di bianco di piombo, vermiglione finemente macinato (ottenuto dal cinabro), lacca carminio estratta dalla cocciniglia e un tocco di pigmento giallo. Una composizione studiata non solo per rendere la tinta più espressiva, ma anche per ottenere variazioni tonali capaci di evocare la fragilità dei petali di rosa e l’incarnato idealizzato della femminilità settecentesca.

La preparazione dei colori, all’epoca, era un procedimento interamente artigianale, affidato a mani esperte all’interno delle botteghe. Nulla era lasciato al caso: ogni materiale veniva selezionato per la sua resa cromatica, la sua stabilità, la sua capacità di assorbire o riflettere la luce. Il rosa Pompadour ne è esempio perfetto: un tono che riesce a fondere la grazia naturale con l’artificio della corte.

Il contesto di questa scoperta non è secondario. La mostra “Boucher e Fragonard. Alla corte del re” è un viaggio immersivo nella cultura visiva della Francia di Luigi XV, attraverso opere provenienti da una delle più importanti collezioni d’arte barocca in Italia. La Casa Museo Fondazione Zani ospita oltre 1.200 opere, tra dipinti, arredi e sculture, che testimoniano lo splendore e la teatralità della vita di corte.

Tra le opere esposte spicca L’Allegoria della Terra, dipinta da Boucher nel 1741 per il castello di Choisy, parte di una serie dedicata ai quattro elementi, commissionata dallo stesso re. Il destino delle altre tre tele – Acqua, Fuoco e Aria – è tuttora ignoto, aggiungendo un alone di mistero al percorso espositivo.

Altro capolavoro in mostra è Venere nella fucina di Vulcano, la più grande opera di Boucher conservata in Italia, dove il dinamismo barocco e la sensualità mitologica trovano un equilibrio visivo di rara potenza. Il dipinto anticipa la versione custodita oggi al Louvre, e costituisce uno dei vertici della produzione dell’artista.

Accanto ai dipinti, il percorso si arricchisce di oggetti d’arte che rafforzano il legame con Madame de Pompadour. Emblematici i due cigni dorati che ornavano la sua toilette all’Hôtel d’Évreux, oggi sede del palazzo dell’Eliseo. Realizzati nel 1755 su disegno di Lazare Duvaux, questi pezzi testimoniano l’attenzione maniacale al dettaglio che permeava ogni aspetto dell’estetica di corte.

Fragonard e la leggerezza narrativa del rococò

Se Boucher rappresenta l’eleganza codificata del potere, Jean Honoré Fragonard incarna il lato più malizioso, narrativo e borghese del rococò. Allievo del maestro, ne proseguì e rinnovò la lezione con una pennellata più sciolta e un gusto marcato per il racconto erotico e aneddotico.

In mostra è esposta Annette a vent’anni, un dipinto appartenuto al visconte Adolphe du Barry, nipote dell’ultima favorita del re, Madame du Barry. L’opera si ispira a un racconto morale dell’illuminista Marmontel, fondendo letteratura e pittura in una scena intima e rivelatrice, emblema dell’universo galante che Fragonard seppe illustrare come pochi.

La rivelazione della formula del rosa Pompadour non è soltanto un dettaglio tecnico, ma un tassello prezioso per comprendere l’universo visivo del Settecento francese. In quel secolo dominato dalla teatralità, dalla grazia e dall’invenzione, ogni elemento era carico di significati. Il colore, in particolare, diventava uno strumento di rappresentazione del potere, della seduzione, della cultura.

Madame de Pompadour riuscì a trasformare un semplice tono cromatico in un segno distintivo del suo stile, tanto da farlo codificare nelle manifatture reali, impiegarlo nei ritratti ufficiali, negli arredi, nella porcellana. Con l’aiuto di artisti come Boucher e Fragonard, rese quel rosa simbolo di un’epoca – tanto lieve nella superficie quanto sofisticata nella sostanza.

A secoli di distanza, il rosa Pompadour continua a parlare. E oggi, grazie alla scienza e all’arte, possiamo ascoltarlo con rinnovata consapevolezza.


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L’insidia dello zucchero: un dolce inganno per la salute

La pagina illustra i pericoli del consumo eccessivo di zucchero nei prodotti alimentari industriali. Lo spunto è offerto da un articolo di Marco Brando sulla rivista Atlante di Treccani.

L’articolo menziona gli effetti negativi sulla salute come diabete, obesità e ipertensione. Spiega anche le ragioni psicologiche e neurologiche alla base del nostro desiderio di zucchero, citando esperti e studi. Il documento evidenzia ulteriormente il ruolo dell’industria alimentare e del marketing nel promuovere il consumo di prodotti malsani e ricchi di zucchero. Infine, suggerisce potenziali soluzioni sia a livello individuale che sociale, sottolineando l’importanza dell’istruzione e delle scelte informate.

L’eccessivo consumo di zucchero, spesso nascosto in molti alimenti insospettabili, sta diventando una seria preoccupazione per la salute pubblica. Le conseguenze di questa iper-assunzione, che spesso avviene senza che ne siamo pienamente consapevoli, sono molteplici e vanno dal diabete all’obesità, dall’ipertensione ad altre patologie correlate.

Il nostro amore per i sapori dolci ha radici profonde. Come spiega la professoressa Simona Bertoli, specialista in nutrizione e obesità, il senso del gusto si sviluppa sin dalla nascita e il primo sapore che sperimentiamo è proprio quello dolce del latte materno. Questa esperienza primordiale crea un legame emotivo con i dolci, associandoli a momenti di gioia e conforto.

Tuttavia, questa preferenza innata viene sfruttata dall’industria alimentare. Uno studio del Max Planck Institute for Metabolism Research di Colonia, in collaborazione con l’Università di Yale, ha dimostrato che il consumo di cibi ricchi di zuccheri (e grassi) stimola il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore che induce una sensazione di piacere. Questo meccanismo crea un circolo vizioso, spingendoci a consumare quantità sempre maggiori di questi alimenti per ottenere la stessa gratificazione.

L’industria alimentare è ben consapevole di questi meccanismi e utilizza sapientemente questi fattori per rendere i propri prodotti sempre più appetibili, spesso a scapito della nostra salute. Come sottolinea ancora la professoressa Bertoli, l’abitudine di consumare quotidianamente bevande zuccherate, ad esempio, comporta l’introduzione di “calorie vuote”, prive di nutrienti essenziali, che favoriscono l’obesità e il diabete.

Il professor Giovanni Ballarini, decano dell’antropologia nutrizionale, in un suo commento, evidenzia un paradosso: mentre la denutrizione e l’obesità sono in aumento, proliferano alimenti che appagano i nostri sensi ma non apportano benefici nutrizionali, se non addirittura dannosi. Questi prodotti, promossi da un’industria che ha sviluppato il concetto del “buono da vendere, buono da mangiare”, vengono prodotti, distribuiti e consumati in grandi quantità, spesso grazie a strategie di marketing mirate.

L’avvento dell’era digitale ha amplificato ulteriormente il potere del marketing alimentare. Social media, food blogger, influencer e campagne pubblicitarie raggiungono un pubblico vasto e variegato, promuovendo cibi e bevande spesso poco salutari.

Come possiamo proteggerci da questa “trappola dolce”? A livello individuale, è fondamentale prestare attenzione alla spesa, limitando il consumo di cibi trasformati e privilegiando alimenti freschi e naturali. A livello statale, è indispensabile promuovere l’educazione alimentare, a partire dalle scuole dell’infanzia fino alle mense aziendali, per fornire ai cittadini gli strumenti necessari per fare scelte alimentari consapevoli. La strada è ancora lunga, ma la consapevolezza e l’informazione corretta sono il primo passo per invertire la tendenza e tutelare la nostra salute.

PER SAPERNE DI PIÙ

Marco Brando – Cibo, l’invasione degli ultrazuccherati
Simona Bertoli – Zuccheri a cosa servono e quando fanno male
Giovanni Ballarini – Buono da vendere, buono da mangiare
Uno studio scientifico del Max Planck Institute for Metabolism Research

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Microsoft: 50 anni di tecnologia e rivoluzioni

Cinquant’anni fa, in un modesto motel di Albuquerque, due giovani appassionati di computer posero le basi di quella che sarebbe diventata una delle aziende più influenti della storia dell’informatica. Era il 4 aprile 1975 quando Bill Gates e Paul Allen, allora poco più che ventenni, firmarono il loro primo contratto con la MITS per fornire un linguaggio di programmazione destinato all’Altair 8800, un rudimentale microcomputer appena arrivato sul mercato.

Quel progetto, nato tra pile di manuali e notti insonni, fu l’inizio di Microsoft. All’epoca, i computer erano oggetti ingombranti e costosi, confinati a università e grandi aziende. L’idea che ogni casa potesse averne uno sembrava pura fantascienza. Ma Gates aveva una convinzione: un giorno, ogni scrivania e ogni famiglia avrebbe avuto il proprio computer. Una visione che, a distanza di mezzo secolo, si è concretizzata: secondo le stime attuali, nel mondo circolano oltre 3 miliardi di computer, la maggior parte con sistema operativo Windows.

Nel giro di pochi anni, Microsoft consolidò la sua posizione con l’MS-DOS e, soprattutto, con Windows, l’interfaccia grafica che rese i computer più accessibili al grande pubblico. Negli anni ’90, la società dominava incontrastata: software come Word ed Excel divennero standard globali e Windows 95 fu un successo planetario. Ma l’egemonia attirò anche le attenzioni delle autorità antitrust americane, che accusarono Microsoft di soffocare la concorrenza.

Dopo il boom degli anni ’90, Microsoft visse un periodo di transizione. Steve Ballmer, subentrato a Gates nel 2000, puntò a rafforzare l’azienda su più fronti: dalla nascita della console Xbox, alla diffusione di software aziendali, fino all’acquisto di Skype. Ma la vera rivoluzione stava avvenendo altrove.

Apple lanciava l’iPhone, Google Android, e il mondo si spostava rapidamente verso il mobile. Microsoft, troppo legata ai propri modelli tradizionali, reagì con lentezza. I tentativi di entrare nel mercato degli smartphone arrivarono tardi e senza successo duraturo. La società, pur solida, sembrava aver perso lo slancio innovativo dei suoi primi anni.

Il vero cambio di passo arrivò nel 2014 con l’ascesa di Satya Nadella alla guida dell’azienda. Ingegnere di formazione e manager pragmatico, Nadella mise al centro della strategia il cloud computing, l’intelligenza artificiale e la cultura dell’apertura.

Microsoft smise di considerare Linux un nemico, rese disponibili i propri software su iOS e Android, e investì pesantemente in Azure, la sua piattaforma cloud, oggi seconda solo ad Amazon. L’acquisizione di GitHub, il successo di Teams e, più recentemente, la partnership strategica con OpenAI hanno riportato Microsoft al centro della scena. Nel 2023, la capitalizzazione ha toccato i 3.000 miliardi di dollari, e la società è tornata ad essere considerata uno dei motori dell’innovazione globale.

Cinquant’anni dopo quel primo contratto, Microsoft è ben più di un produttore di software. È una forza trainante nella trasformazione digitale del pianeta, protagonista nell’intelligenza artificiale, nella produttività, nell’educazione e nei servizi cloud. Ha vissuto alti e bassi, è stata idolatrata e criticata, ha vinto e perso battaglie cruciali, ma ha saputo restare rilevante in un settore dove l’obsolescenza è sempre dietro l’angolo.

Se i prossimi cinquant’anni saranno altrettanto turbolenti e rivoluzionari, Microsoft avrà bisogno di un nuovo tipo di visione. Ma la storia insegna che, a Redmond, le idee per reinventarsi non mancano mai.


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Antoni Gaudí tra modernismo, fede e identità catalana

Con l’arrivo della primavera, le gite scolastiche in Europa diventano un’occasione entusiasmante per esplorare città meravigliose come Parigi, Londra, Berlino, Amsterdam, Praga, Vienna, Budapest, Atene e Lisbona. Tra queste mete spicca Barcellona, il vibrante capoluogo della Catalogna, situato sul mar Mediterraneo e circondato dai Pirenei. Barcellona è stata la ventesima città più visitata nel mondo nel 2011 da turisti internazionali, e la 5ª in Europa dopo Londra, Parigi, Istanbul e Roma, attirando ben 5,5 milioni di visitatori! Passeggiare lungo la famosa strada pedonale Las Ramblas è un’esperienza indimenticabile che contribuisce alla sua popolarità.

La città è nota per essere la culla del genio architettonico Antoni Gaudí, le cui opere straordinarie attraggono ogni anno turisti da tutto il mondo. La sua creazione più iconica, la Sagrada Família, è un imponente simbolo di Barcellona. Immagina visitare questa maestosa chiesa che è in costruzione dal 1882 e prevede la sua ultimazione intorno al 2026! Finanziata solo dalle offerte e dai biglietti dei visitatori, la Sagrada Família è una testimonianza vivente della dedizione e della fede.

Le meraviglie di Gaudí non finiscono qui: si può esplorare il colorato Parco Güell, stupirsi davanti alla Casa Milà chiamata “La Pedrera”, ammirare la creatività di Casa Batlló, visitare Palazzo Güell e scoprire Casa Vicens. Ogni angolo di Barcellona invita a vivere un’avventura unica e affascinante!

Nella Barcellona di fine Ottocento, infatti, Antoni Gaudí i Cornet emerge come una figura anomala e rivoluzionaria. In un’epoca in cui la Spagna appare culturalmente marginale rispetto al fervore europeo, Gaudí anticipa le tendenze dell’Art Nouveau con un linguaggio personale che intreccia misticismo, nazionalismo catalano e una libertà formale senza precedenti.

Nato nel 1852, Gaudí si forma in un contesto dove il revival gotico è carico di un’identità culturale molto sentita. Per lui l’anno decisivo è il 1888, quando Gaudí partecipa all’Esposizione Universale di Barcellona. Qui viene notato dall’industriale Eusebi Güell, che diventerà il suo più importante mecenate. Il sodalizio tra i due darà vita a una serie di quelle opere emblematiche che lo hanno reso famoso.

Tra il 1903 e il 1914, Gaudí lavora al Parc Güell, originariamente concepito come complesso residenziale ispirato all’ideale della città-giardino. Il progetto, trasformato in parco pubblico, rappresenta una delle espressioni più compiute della sua fantasia costruttiva: padiglioni dai tetti frastagliati ricoperti di ceramiche policrome, portici sorretti da colonne inclinate rivestite in pietra grezza, strutture che si fondono con il paesaggio in un gioco continuo tra artificio e natura.

Ma è nella Sagrada Família che Gaudí incarna pienamente la sua visione spirituale e architettonica. Iniziato nel 1883, il progetto lo assorbe completamente a partire dal 1914. Gaudí abbandona ogni altro incarico, si trasferisce nel cantiere e arriva a chiedere elemosina per finanziare i lavori. Le forme gotiche vengono dilatate in strutture ardite, ai limiti della statica, mentre le superfici curve e policrome celebrano una religiosità popolare e intensa. La basilica resta incompiuta alla sua morte, ma la Facciata della Natività e le torri laterali testimoniano la potenza visionaria del suo disegno originario.

L’ultima immagine di Gaudí è tragica e simbolica. Il 7 giugno 1926 viene investito da un tram mentre cammina verso la Sagrada Família. A causa dell’aspetto trasandato, viene scambiato per un senzatetto e portato all’ospedale dei poveri, dove morirà tre giorni dopo, all’età di 73 anni. Rifiuta di essere trasferito altrove: “Il mio posto è qui, tra i poveri”, dirà. Il genio che aveva trasformato la pietra in preghiera si congeda così, nella stessa umiltà con cui aveva vissuto.


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Vino dealcolato: una rivoluzione nel bicchiere?

Il vino dealcolato è un nuovo prodotto ottenuto attraverso processi di lavorazione che permettono di rimuovere l’alcol dal vino tradizionale, mantenendone il più possibile le caratteristiche organolettiche, come profumo e sapore.

Si distinguono due categorie principali:
Vino dealcolato: con un contenuto alcolico inferiore allo 0,5%
Vino parzialmente dealcolato: con un contenuto alcolico compreso tra 0,5% e 8,5%

Dopo anni di discussioni e incertezze, l’Italia si è aperta al vino dealcolato. Il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF), con il decreto ministeriale n. 672816, firmato il 20 dicembre 2024, ha recepito il regolamento europeo in materia UE 1308/2013. Con ciò ha autorizzato ufficialmente la produzione e la commercializzazione di vino con contenuto alcolico ridotto o nullo, in linea con le normative europee.

Il decreto rappresenta un punto di svolta nel panorama vitivinicolo italiano. Apre nuove prospettive per i produttori e soddisfa le esigenze di un pubblico sempre più vasto e diversificato come quello dei più giovani. La svolta, da affrontare in questi primi mesi del 2025, riguarda anche quei consumatori che scelgono di bere moderatamente, senza astenersi completamente dall’alcol in ottemperanza del nuovo Codice della strada.

Cosa ne pensano i protagonisti? Le associazioni di categoria (Federvini, Ulv, Assoenologi) hanno accolto positivamente la novità, sottolineando le opportunità che essa rappresenta per il settore. La Presidente di Federvini Micaela Pallini ha dichiarato: “La firma del decreto è un risultato significativo per il comparto vitivinicolo italiano, in una cornice normativa che non lasciava molti margini di manovra. Continueremo a lavorare per valorizzare la tradizione e il patrimonio enologico italiano anche attraverso l’introduzione di nuovi prodotti capaci di rispondere alle esigenze di un pubblico, soprattutto internazionale, sempre più attento e diversificato”.

Tutti, soddisfatti e concordi, sono perciò pronti a ridurre parzialmente o totalmente il tenore alcolico dei vini, ottenendo così un prodotto del tutto nuovo la cui componente alcolica, secondo la norma, va da 0 a 0,5% (dealcolati), e da 0,5% a 8,5% (parzialmente dealcolati). Sono, per fortuna, esclusi dal procedimento i vini Igt, Doc e Docg. Gli amanti del buon vino dovrebbero dormire, quindi, su sette cuscini.

Battute di spirito a parte, per la verità, Il vino dealcolato rappresenta una spinta alternativa al mercato tradizionale. Superato il vuoto normativo, si può fare di necessità virtù. Questo perché l’Italia è la culla della dieta mediterranea. Occorre sempre ricordarlo. La possibilità di produrre e vendere vino analcolico in Italia e all’estero è utile per perseguire le trasformazioni del mercato globale del vino.

Ma in cosa consiste il vino senza alcol? La produzione avviene mediante diverse tecniche, le quali permettono all’alcol di evaporare a basse temperature preservando, tuttavia, le sue caratteristiche organolettiche (profumo e sapore). Viene assicurato che, alla fine della lavorazione, il vino ottenuto avrà ancora il sapore di vino. Gli scettici, che non mancano mai, commentano sarcasticamente che finiranno col chiudere i battenti anche le enoteche e che ci convertiremo al latte e alla birra, come facevano i popoli nordici nel medioevo. Una nuova sfida da affrontare al Sud, dove il buon vino è stato sin dall’antichità il punto forte di quei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.


Clarice Cliff ci apre la sua stanza dei colori

Clarice Cliff

Ancora oggi, a oltre 40 anni dalla sua morte, vengono scoperti nuovi oggetti sconosciuti del suo design. Clarice Cliff, considerata la più grande artista nel campo della ceramica, continua a stupire oggi come ieri, grazie all’enorme varietà dei suoi elaborati: disegni astratti e geometrici, paesaggi e raffigurazioni floreali

“The Color Room” è un Biopic britannico della regista australiana Claire McCarthy, uscito nelle sale cinematografiche nel 2021 . L’azione si svolge negli anni Venti e Trenta ed è basata sulla vita della ceramista e icona femminista Clarice Cliff. La giovane, appartenente alla classe operaia, vive con la madre vedova Ann e la sorella minore Dot Cliff. Lavora in una fabbrica di ceramiche nelle Midlands britanniche. Piena di idee per ottenere nuove forme e colori, si muove da una fabbrica all’altra del gruppo imprenditoriale, dimentica quasi del maschilismo che la circonda. È tuttavia in grado di impressionare l’eccentrico proprietario, Arthur Colley Austin Shorter, che rimane colpito dalle sue idee e le appoggia apertamente, al contrario del fratello più tradizionalista. Shorter sostiene la linea Art Déco denominata “Bizarre” proposta da Cliff. Così, nel mezzo della Grande Depressione economica, le idee innovative e audaci della giovane designer riusciranno ad assicurare la sopravvivenza della fabbrica stessa, aprendo la strada a Clarice Cliff verso una carriera come una delle più grandi designer moderne.

Il primo timbro sul retro stampato “Bizarre” utilizzato sugli articoli 

Alcuni critici d’arte descrivono le ceramiche di Clarice Cliff come l’epitome dello stile Art Déco britannico. Clarice Cliff è considerata, infatti, una delle ceramiste inglesi più prolifiche e importanti del XX secolo grazie alle sue innovazioni nel design, nello stile e nel colore dei vasi da lei disegnati e in seguito anche prodotti.

Primo motivo “Original Bizarre” su una brocca a forma di Atene

Lo stile Art Déco da lei adottato presenta linee rette e forme geometriche, segni distintivi che caratterizzeranno le sue ideazioni. “Bizarre” era il nome della prima serie di piatti da lei concepiti. I piatti erano decorati con colori accesi, un po’ grezzi e con motivi in parte figurativi e in parte astratti. Il loro prezzo a quel tempo era relativamente basso, per questo piaceva soprattutto ad un pubblico femminile e il loro successo commerciale fu immediato ed esplosivo.

Modello croco

Dopo il successo, Clarice Cliff ha aggiunto centinaia di altri esempi. Nel 1928 concepì un dipinto a mano con semplici pennellate di tre crochi in arancione, blu e viola con foglie verdi tra di loro. Il modello a fiori incentrato su bulbi di crochi olandesi ebbe un enorme successo e diventò il suo simbolo di design. Una squadra di 20 pittori venne impegnata solo nella decorazione dei crochi. La sua carriera decollò.

Particolare dei crochi, 1928

Cliff e il suo team producevano ceramiche per uso domestico: tazze e piatti, brocche, teiere, tutto in stile Art Déco. L’artista non si accontentò di dipingere-decorare, ma passò alla progettazione di forme innovative degli utensili e con molto talento riuscì a trasferire le caratteristiche dello stile geometrico-astratto, nonché le caratteristiche del cubismo nel campo degli utensili da cucina: manici triangolari per tazze, forma cono-cono per teiere e saliere, brocche a più livelli, brocche e piatti a forma poligonale.

Nel 1929 la sua squadra contava 70 dipendenti che l’aiutarono a portare il modernismo nell’ambiente cucina. I suoi elementi di punta erano l’uso della ceramica e i colori a smalto. I nomi delle serie danno l’idea dei suoi orizzonti ideali: alba, cottage di campagna, casa estiva, ombrelli, farfalla, hotel, campanelli eolici, raggio di sole, giorno e notte.

Modello ‘Autunno Rosso’ 1930

Verso la metà degli anni ’30, i gusti cambiarono. La serie My Garden realizzata a partire dal 1934 ha aperto la strada, con piccoli fiori modellati come manico o base, a forme più arrotondate. Queste stoviglie furono interamente dipinte con colori vivaci – il corpo dei piatti ricoperto da sottili pennellate di colore – “Verdant” è verde, “Sunrise” giallo e così via. La gamma comprende vasi, ciotole, brocche, una scatola di biscotti molto apprezzata come singolo articolo da regalo. La serie fu prodotta a colori più tenui fino all’inizio della guerra nel 1939.

Altre forme modellate includono la “Raffia del 1937 basata sul tradizionale vimini dei nativi americani, decorata in uno stile simile a loro con piccoli blocchi di colore. Più popolari sono gli articoli della serie Harwest, le brocche e le ciotole con mais e frutta. Dopo la guerra questa linea fu ampiamente commercializzata in Nord America, ma prodotta ancora in Inghilterra.

Nel 1940, dopo la morte della moglie Shorter sposò Cliff e insieme vissero nella sua casa di Chetwynd House Northwood Lane a Clayton, Staffordshire. Una casa Arts and Crafts progettata nel 1899 fra le prime commissioni degli architetti britannici Richard Barry Parker e Raymond Unwin.

Motivo “Ravel” di Clarice su caffettiera di forma conica,
zucchero e panna, 1930

Durante la Seconda guerra mondiale, era consentita dalle norme di guerra solo la semplice ceramica bianca (per oggetti di utilità), quindi Cliff aiutò a gestire la fabbricazione, ma non fu impegnata nel lavoro di progettazioneb e decorazione. Concentrò il suo talento creativo nel giardinaggio dell’enorme giardino di 4 acri (1,6 ettari) a Chetwynd House, diventato la sua passione condivisa con Shorter.

Dopo la guerra, sebbene a volte Cliff fosse nostalgica per gli anni “strani”, come evidenziato nelle lettere personali agli amici, in modo realista accettò che il gusto commerciale fosse mutato verso articoli tradizionalistici. Per Clarice Cliff quei folli giorni degli anni Trenta non si sarebbero mai più riproposti.

Di recente una mostra e il primo libro “Clarice Cliff” di Peter Wentworth-Sheilds e Kay Johnson, uscito nel 1976, hanno segnato l’inizio di un rinnovato interesse per il lavoro dell’artista ceramista, che continua ad essere apprezzato dai collezionisti di ceramiche Art Déco.


Due passi nella filosofia tra cose difficili rese semplici

Nella filosofia post-kantiana, si sviluppa l’idealismo tedesco. Il primo esponente di questa corrente fu Johann Gottlieb Fichte, il quale per modernizzare il pensiero kantiano sintetizzò ragion pura e ragion pratica, avendo origine dall’identico “Io”. Se Kant sosteneva che il soggetto plasmava l’esperienza, Fichte gli contrappone la creazione dell’oggetto da parte dell’esperienza, anche se attuata dall’inconscio, salvando uno dei punti realistici della filosofia kantiana (detta criticismo).

Sempre rimanendo nell’idealismo tedesco, a Fichte seguì Schelling. Egli propose l’oggetto (il non-io), posto dall’io (la natura). Ambedue sostenevano un soggetto e oggetto, che rimanevano distinti ed uniti, allo stesso tempo, a livello puramente intuitivo. Schelling sintetizzò, così, l’idealismo critico di Fichte col razionalismo di Spinoza.

Fichte e Schelling velocemente lasciarono il palcoscenico, sostituiti da Hegel (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, 1770-1831). Questo, rielaborando il pensiero circolare di Cartesio, propose un soggetto e oggetto non più uniti ma mediati, sostenendo un’interpretazione dove il divenire logico della Storia, generato dall’Assoluto, serve a rendere ragione dello stesso. Nel suo ragionamento Hegel va oltre la logica sequenziale di Aristotele affermando la supremazia della razionalità sull’intuizione (“ciò che è reale è razionale”), dove ogni principio ha già in sé il suo contrario. Secondo il pensiero hegeliano la filosofia si conclude nella dialettica stessa, che la motiva. Si supera quindi ogni rapporto con una dimensione assoluta dove si ha un azzeramento del pensiero filosofico.

L’eredità di Hegel venne, successivamente, reinterpretata da Feuerbach e Karl Marx (1818-1883) proponendo, quest’ultimo, il suo materialismo dialettico. Secondo Marx, infatti, la teoria hegeliana è sostanzialmente materialista. Per Marx, quindi, l’Assoluto coincide con la Storia. Così come i due principi, la ragione e la realtà, per Marx sono in contrapposizione con la struttura economica e la sovrastruttura culturale. Struttura e sovrastruttura, per il momento differenziate, troveranno alla fine della Storia  la loro unità. Dalla teoria hegeliana, Marx rielabora la sua filosofia sulla prassi, da cui in seguito scaturirà il suo impegno politico e sociale, che svilupperà insieme a Friedrich Engels.

Tra gli altri filosofi del XIX secolo, da annotare: John Stuart Mill (esponente britannico) e Ralph Waldo Emerson (del trascendentalismo americano). Quindi, Søren Kierkegaard (1813-1855), che fu fondatore dell’esistenzialismo, che ebbe un atteggiamento critico verso la teoria hegeliana, sostenendo che nella storia operino principi che non si possono conciliare, né unire o mediare dalla ragione. Infine, Friedrich Nietzsche (1844-1900), portatore del superuomo, teoria che ebbe conseguenze nel successivo Novecento. Il filosofo criticò aspramente i contenuti portati dalla religione e dalla metafisica europea, a suo avviso tendenzialmente nichilisti.

Søren Kierkegaard e Friedrich Nietzsche gettarono le fondamenta di quello che sarà l’esistenzialismo, movimento proprio del Novecento. Se la filosofia dell’Ottocento aveva perso la strada, inseguendo universi metafisici, Kierkegaard cercò di ricondurla sulla strada di Socrate, e cioè soggettività, fede ed impegno, per tornare a ragionare della condizione umana, unica per tutti. Il filosofo rilevava gravi mancanze nel suo tempo, caratterizzato “dal disprezzo assoluto nei confronti del singolo uomo”. Anche Nietzsche, discutendo dei valori morali del sua epoca, fu molto critico per quelli tradizionali. Nietzsche, infatti, rilevava una moralità signore-servo, cioè, la differenza tra la moralità degli “schiavi” ed una più consona per i loro padroni.

Nel secolo successivo (XX) si creò una divergenza di vedute tra pensiero europeo (con una grande varietà di tendenze e correnti, dove prevarrà un pensiero ontologico e gnoseologico) e pensiero anglosassone (con un rapporto più utilitaristico, che condurrà alla filosofia analitica). Il dibattito che ne scaturì nel continente (inizio secolo) fu rielaborato e discusso, comunque, nella fucina di idee e proposte rappresentata dal Circolo di Vienna. Questo fu fondato da Moritz Schlick, aperto nel 1922 e chiuso nel 1936, ad opera del nazismo. Al Circolo parteciparono filosofi, scienziati, psicologi e quanto di meglio nel mondo della cultura di allora. Ebbe una grande importanza sul pensiero mondiale, fino alla sua costretta chiusura.

VEDI ANCHE:
Di giorno in giorno – Logos – L’idealismo tedesco


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