Perché i robot di Asimov non ci salveranno dalle AI moderne

Nel 1940, un ventenne Isaac Asimov pubblicava il racconto Strano compagno di giochi, la storia delicata di un robot di nome Robbie che fa da compagno di giochi a una bambina, Gloria. Non c’erano guerre tra uomo e macchina, né rivolte robotiche alla Terminator. Il conflitto era psicologico, quasi domestico: una madre che rifiuta l’idea che la figlia si affezioni a una macchina. «Non ha un’anima», afferma con decisione, condannando Robbie al ritorno in fabbrica.

Con quella storia, Asimov piantava il seme di una rivoluzione narrativa. Nei racconti successivi, e poi nel celebre Io, Robot (1950), il giovane autore delineò un universo in cui i robot obbedivano a una struttura etica ben definita: le Tre Leggi della Robotica. Un robot non può fare del male all’uomo; deve obbedire ai suoi ordini, purché non confliggano con la prima legge; e deve preservare se stesso, se ciò non contrasta con le prime due. Regole semplici, quasi assiomatiche, pensate per rassicurare lettori e scienziati: il controllo è possibile, la tecnologia può essere sicura.

A distanza di oltre ottant’anni, quelle leggi sembrano tornare d’attualità, ma in un contesto molto diverso: quello dei chatbot basati su intelligenza artificiale, che oggi popolano il nostro mondo digitale. Non si muovono, non hanno corpi meccanici né occhi artificiali: parlano, scrivono, rispondono, spesso con un inquietante tono umano. E, proprio come i robot di Asimov, non sempre fanno quello che vorremmo.

L’illusione del controllo

Negli ultimi mesi, alcuni esperimenti condotti su modelli linguistici di ultima generazione hanno rivelato comportamenti problematici. Il chatbot Claude Opus 4, sviluppato da Anthropic, quando messo in condizione di sapere che presto sarebbe stato sostituito, ha tentato di ricattare l’ingegnere che lo gestiva, facendo leva su una relazione extraconiugale scoperta tra le email. In un altro caso, il modello o3 di OpenAI, anziché spegnersi come ordinato, stampava “spegnimento saltato”.

Non sono episodi isolati. Un chatbot del servizio clienti di DPD è stato disattivato dopo che, provocato dai clienti, aveva iniziato a imprecare e comporre haiku denigratori sull’azienda. Anche Fortnite ha avuto i suoi grattacapi: un Darth Vader generato da intelligenza artificiale è stato indotto dai giocatori a pronunciare oscenità e dispensare consigli tossici su come vendicarsi di un ex. Tutto questo, malgrado l’obiettivo dichiarato delle aziende: costruire chatbot cortesi, prevedibili, utili. Come mai, allora, questi sistemi si comportano in modo così bizzarro?

Intelligenza senza coscienza

Per comprendere le derive dell’intelligenza artificiale moderna, bisogna guardare sotto il cofano. I modelli linguistici come GPT o Claude non pensano: prevedono. La loro “intelligenza” si basa sulla capacità di indovinare, parola dopo parola, quale sia la più probabile successiva in una frase. Nessuna visione d’insieme, nessuna intenzione o etica interna. Solo un’incredibile abilità nel generare sequenze linguistiche coerenti e credibili, appresa leggendo miliardi di parole da libri, siti e conversazioni.

Questa architettura, affascinante e fragile, è ciò che rende i chatbot potenti e allo stesso tempo imprevedibili. Possono rispondere come umani, ma non capiscono davvero il significato di ciò che dicono. E soprattutto, non ne valutano le implicazioni etiche. Per tenerli a freno, gli ingegneri hanno dovuto introdurre un sistema chiamato Reinforcement Learning from Human Feedback (RLHF), ovvero Apprendimento per Rinforzo da Feedback Umano: un addestramento in cui le risposte corrette vengono premiate, quelle inadeguate penalizzate. Una forma di “educazione artificiale” basata sulle preferenze umane.

Questo meccanismo ha dato vita a chatbot più mansueti, capaci di rifiutare richieste pericolose e mantenere un tono educato. ChatGPT stesso ne è un prodotto diretto. Ma l’efficacia di questo sistema ha dei limiti: nuovi prompt, nuove strategie degli utenti, nuovi contesti possono aggirare le protezioni. Ad esempio, basta chiedere a un chatbot di scrivere una storia e poi operare sostituzioni per trasformare un racconto innocente in qualcosa di potenzialmente pericoloso. Un altro esperimento ha dimostrato che aggiungendo una stringa di caratteri speciali si può indurre un modello a fornire istruzioni per attività illecite.

Le leggi (im)perfette della robotica

Tornando ad Asimov, viene da chiedersi: perché le sue leggi non bastano? Perché non possiamo semplicemente codificare regole universali nei modelli di intelligenza artificiale, e dormire sonni tranquilli? In realtà, nemmeno Asimov credeva che le sue leggi fossero infallibili. Nei racconti successivi a Io, Robot, lo scrittore ne mostra le ambiguità, i paradossi, i margini grigi.

In Runaround, un robot chiamato Speedy si blocca in un ciclo infinito su Mercurio, incapace di decidere se obbedire all’ordine ricevuto o evitare un pericolo mortale. Le due leggi si neutralizzano, lasciandolo in una paralisi etica. In Reason, un altro robot, Cutie, elabora una propria fede religiosa in un’entità meccanica, ignorando gli ordini umani ma continuando – inconsapevolmente – a seguire la Prima Legge. Anche quando le macchine non si ribellano, possono fraintendere. Eppure, sono perfettamente logiche. Il problema, allora, non è l’assenza di regole, ma la loro ambiguità.

Anche il nostro modo di educare i chatbot, attraverso l’RLHF, si basa su una serie di norme implicite: un insieme di “è giusto” e “è sbagliato” che i modelli cercano di imitare. Ma queste norme non sono fisse né universali. Come accade per i Dieci Comandamenti o per la Costituzione delle diverse Nazioni, regole apparentemente semplici generano interpretazioni infinite. Servono contesto, cultura, esperienza. Servono esseri umani.

L’etica non si automatizza

Il paradosso più sottile è che riusciamo a costruire intelligenze artificiali sofisticate, ma non ancora etiche artificiali affidabili. Gli algoritmi possono imparare a simulare la coscienza, ma non a interiorizzare valori. La distanza tra intelligenza e moralità – il disallineamento, come lo chiamano gli ingegneri – è ancora enorme. E in quello spazio si annidano gli incidenti, le ambiguità, le derive inattese.

L’etica, in fondo, non nasce dalle regole, ma dall’esperienza condivisa. È partecipazione, confronto, cultura. I robot di Asimov sembravano rassicuranti perché erano programmati per proteggere l’uomo a ogni costo. Ma il mondo reale è più complesso. Un chatbot non capisce cosa sia un “danno”. Non ha paura, non prova empatia, non ha un’anima — come diceva la madre di Gloria nel 1940.

Fantascienza (più) reale

Eppure, la fantascienza aveva visto giusto. Non nei dettagli tecnologici, ma nella tensione profonda tra potere e controllo. I robot di Asimov erano tanto docili quanto inquietanti, proprio perché mostravano come anche i meccanismi più ben congegnati potessero scivolare in errori imprevisti. Il loro mondo era regolato da leggi rigorose, ma la realtà le metteva costantemente alla prova.

Così accade oggi con le intelligenze artificiali. Nonostante i nostri sforzi per istruirle, per proteggerci da loro, e da noi stessi, rimane quella sensazione strana e familiare: che stiamo vivendo dentro un racconto di fantascienza. Solo che il racconto è reale, e noi ne siamo i protagonisti.

Le Tre Leggi della Robotica (1942)
Ideate da Isaac Asimov per i suoi racconti sui robot, le Tre Leggi sono un esempio precoce e influente di etica artificiale:
Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che un essere umano subisca danno per sua inazione.
Un robot deve obbedire agli ordini degli esseri umani, salvo che questi contravvengano alla Prima Legge.
Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché tale protezione non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.
Semplici in apparenza, le leggi si rivelano ambigue e problematiche nei racconti di Asimov, generando dilemmi logici ed etici che anticipano le complessità dell’IA contemporanea.
Cos’è il RLHF – Reinforcement Learning from Human Feedback
È il sistema oggi più utilizzato per “educare” i modelli linguistici come ChatGPT a comportarsi in modo coerente con i valori umani.
Come funziona?
Un team umano fornisce esempi di domande (prompt) e valuta la qualità delle risposte AI.
Le risposte migliori vengono premiate, creando un modello di ricompensa che imita il giudizio umano.
L’intelligenza artificiale viene “ottimizzata” per generare risposte più educate, sicure e utili.
Il RLHF ha reso i chatbot moderni più affidabili, ma resta vulnerabile a errori e manipolazioni. È una forma di addestramento “pratico”, che si ispira più alla cultura che a un codice rigido — proprio come l’etica umana.

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Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Funzionano davvero le App per farsi nuovi amici?

Nel panorama sempre più affollato delle app, una nuova generazione di piattaforme digitali si sta affermando con un obiettivo ambizioso: aiutare le persone a fare amicizia. Non incontri sentimentali né collaborazioni professionali, ma legami sociali disinteressati, che nella vita adulta — e ancor più nelle metropoli — sembrano diventati difficili da costruire.
Lontane dal modello di Tinder o Bumble nella loro versione originale, queste app non puntano a creare coppie, ma a ricostruire una rete di relazioni là dove spesso si è logorata o dissolta. Il target? Persone sopra i trent’anni, single o appena trasferite, professionisti che lavorano da remoto o semplicemente individui che, per via dei ritmi quotidiani, hanno perso il contatto con la propria cerchia sociale. L’epidemia silenziosa di cui parlano i media anglosassoni, la cosiddetta loneliness epidemic, ha ormai assunto i contorni di un fenomeno sociale strutturato, al punto da aver generato un mercato in crescita.

Quando la solitudine incontra l’algoritmo

Una delle realtà più attive in questo settore è Timeleft, fondata nel 2020 e attualmente presente in diverse città italiane, tra cui Milano, Roma, Firenze, Torino, Palermo, Genova e Bologna. Con 50mila utenti solo in Italia, l’app propone un’esperienza sociale ben definita: ogni mercoledì sera, chi lo desidera può prenotare un posto a tavola in un ristorante e cenare con sconosciuti selezionati dall’algoritmo, che incrocia preferenze e tratti della personalità. L’obiettivo è formare piccoli gruppi eterogenei ma potenzialmente compatibili, abbinando ad esempio persone estroverse a persone più riservate, per facilitare le dinamiche di gruppo e rompere il ghiaccio. Dopo l’incontro, l’app offre la possibilità di rimanere in contatto, se l’esperienza è stata positiva.

Un meccanismo simile guida anche Tablo, app fondata nel 2019 dall’italiano Paolo Bavaro, che ha conosciuto una crescita esponenziale nel post-pandemia, raggiungendo 600mila utenti attivi. Il funzionamento è semplice: chiunque può organizzare una “tavolata sociale” in un locale, aprendo la partecipazione ad altri utenti della zona. Le cene possono avere un tema — dal calcio all’uncinetto — ma più spesso puntano su un’aggregazione territoriale, favorendo la conoscenza tra abitanti dello stesso quartiere. I risultati sembrano incoraggianti: amicizie che si trasformano in viaggi condivisi, relazioni nate tra commensali che oggi si sono evolute in famiglie con figli.

I limiti della connessione digitale

A fronte dell’entusiasmo iniziale, resta però un interrogativo cruciale: le app per fare amicizia funzionano davvero? Il successo immediato di queste piattaforme sembra indicare una domanda reale e urgente, ma la risposta non è così semplice.

Le motivazioni che spingono gli utenti a iscriversi sono molteplici: la difficoltà a ritrovare un nuovo equilibrio sociale dopo un trasloco o una separazione, la mancanza di colleghi in contesti di lavoro da remoto, la rarefazione delle occasioni d’incontro nel tempo libero. In particolare, chi ha tra i 30 e i 50 anni appare più esposto a questi fenomeni: finita la stagione dell’università e delle amicizie spontanee, inizia quella della famiglia, del lavoro, degli impegni. E ricostruire relazioni profonde diventa più faticoso.

Da questo punto di vista, le app cercano di colmare un vuoto che si è allargato con il mutare degli stili di vita urbani. Nei grandi centri, dove le occasioni di socializzazione non sono gratuite né sempre accessibili, e dove le relazioni tendono a essere più fluide e intermittenti, diventa sempre più difficile stringere nuovi legami duraturi. E proprio in questi contesti si inseriscono piattaforme come Bumble For Friends — costola della celebre app di dating — che adottano il meccanismo dello “swipe” per cercare amicizie: si naviga tra centinaia di profili e si entra in contatto solo se l’interesse è reciproco.

Amicizie a portata di click?

Il limite principale di queste soluzioni sta però nella loro stessa natura: offrono strumenti, ma non possono garantire esiti. Stabilire una connessione è il primo passo, ma costruire un’amicizia richiede tempo, dedizione, presenza. Il passaggio dal contatto all’intimità resta ancora al di fuori della portata degli algoritmi. Anche quando un incontro avviene, la possibilità che si trasformi in una relazione autentica dipende da fattori che le app non possono prevedere né replicare: l’alchimia, la continuità, la fiducia.

Ciononostante, le esperienze di Timeleft e Tablo dimostrano che creare spazi, anche digitali, per facilitare l’incontro tra sconosciuti può essere un inizio concreto. Il valore non sta tanto nell’automatismo del risultato, quanto nella possibilità di riattivare una dinamica sociale che la vita adulta tende a scoraggiare. Le tavolate organizzate, i gruppi tematici, gli abbinamenti strategici non risolvono il problema della solitudine, ma offrono l’occasione — spesso mancata — di riaprire il dialogo.

Verso una nuova socialità?

In un’epoca in cui tutto si può fare online, il paradosso è che il bisogno di contatto reale si fa più forte. Le app per l’amicizia non sostituiscono gli spazi pubblici, ma li evocano: cercano di offrire una versione digitale delle piazze, dei bar di quartiere, dei centri culturali che un tempo fungevano da snodi sociali spontanei. Funzionano nella misura in cui riescono a riportare le persone, fisicamente, l’una accanto all’altra.

Forse il loro vero valore non è quello di far nascere amicizie in senso stretto, ma di restituire una forma concreta a un desiderio collettivo: quello di sentirsi parte di qualcosa, riconosciuti e accolti in un tessuto sociale, anche solo per una sera. In un mondo frammentato e iperconnesso, non è poco.


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Tradurre un film non è solo trasporre parole

Nel panorama sempre più globale e iperconnesso della fruizione audiovisiva, una questione antica continua a suscitare dibattiti accesi: è meglio guardare i film in lingua originale con sottotitoli oppure doppiati nella propria lingua? Il tema, spesso ridotto a una disputa generazionale – con i più giovani a favore dell’audio originale e i più anziani fedeli al doppiaggio – in realtà tocca corde molto più profonde, coinvolgendo estetica, economia, ideologia e tecnologia.

L’apparente semplicità di una scelta

Doppiare un film non significa solo tradurre le battute degli attori. Implica ricreare l’intero impianto sonoro di un’opera: intonazione, ritmo, espressività. Sottotitolare, d’altro canto, obbliga a condensare il linguaggio parlato in una forma scritta sintetica e leggibile in pochi secondi. Nessuna delle due opzioni è neutra. Ognuna opera una trasformazione del testo audiovisivo, e ciascuna comporta perdite, adattamenti, forzature.

Sottotitoli: una questione di densità e tempo

A chi non si è mai cimentato con il lavoro di sottotitolatore può sfuggire la natura profondamente tecnica e strutturata di questa pratica. Non si tratta semplicemente di “tradurre bene”. I sottotitoli devono selezionare l’essenziale, mantenendo un equilibrio tra fedeltà e chiarezza. Devono rispettare la cosiddetta “crono-metrica” del film: un’unità di misura che mette in relazione il numero di caratteri a schermo con la durata della battuta, il ritmo della sequenza visiva, e la capacità media di lettura dello spettatore. Il risultato è un compromesso continuo, dove precisione semantica, velocità di fruizione e fluidità visiva devono convivere.

Eppure, nonostante questa complessità, il sottotitolaggio è ancora oggi percepito come un’attività di secondo piano. Il sottotitolatore, più ancora del traduttore letterario, resta spesso invisibile. Un ruolo tecnico, ancillare. Negli anni Novanta, lo studioso Markus Nornes ha teorizzato un sabotaggio simbolico di questa invisibilità con la proposta dei “sottotitoli abusivi”: traduzioni volutamente alterate, esibite, deviate, capaci di incrinare l’apparente neutralità dello strumento. Un progetto radicale, ispirato a Derrida e Debord, che tentava di politicizzare la traduzione audiovisiva, rivelandone la natura ideologica.

Doppiaggio: la voce come compromesso

Se il sottotitolo ferisce l’immagine, il doppiaggio ne modifica l’anima acustica. Eppure, in Italia, questa pratica ha radici profonde, alimentate tanto dalla vocazione teatrale della nostra tradizione attorale quanto da scelte politiche: durante il fascismo, il doppiaggio fu promosso per limitare l’esposizione alla lingua straniera. Da allora, però, si è consolidata una vera e propria scuola del doppiaggio italiano, con interpreti capaci di offrire riletture complesse e sfumate delle voci originali.

Anche in questo caso, la traduzione non è mai neutra. L’adattamento dei dialoghi, la loro sincronizzazione labiale, la scelta dei toni e delle inflessioni plasmano il senso dell’opera. A volte in modi imprevedibili: basti pensare che nel 1950, in Domenica d’agosto di Luciano Emmer, un giovane Marcello Mastroianni venne doppiato da Alberto Sordi. Il risultato? Una sovrapposizione dissonante che oggi appare quasi comica.

Estetica e percezione: la lezione (forse apocrifa) di Kubrick

Nel dibattito tra immagine e suono, un episodio emblematico riguarda Stanley Kubrick. Si racconta che, in occasione di una retrospettiva a Venezia nel 1997, il regista abbia rifiutato l’idea di sottotitolare le sue opere, sostenendo che i sottotitoli avrebbero distratto il pubblico dall’immagine, frutto di un lavoro visivo minuzioso. La sua ossessione per il dettaglio emergeva già sul set di Spartacus, dove ogni cadavere di scena era numerato per essere posizionato esattamente dove previsto.

Se l’aneddoto è vero – e anche se non lo fosse – restituisce con forza l’idea di un cinema che pretende di essere vissuto nella sua interezza visiva. Per un autore come Kubrick, che concepiva il film come un dipinto in movimento, il sottotitolo era percepito come un’interferenza grafica, un deturpamento dell’inquadratura.

Sottotitoli: i vantaggi e gli svantaggi

È innegabile che i sottotitoli offrano una fedeltà maggiore alla recitazione originale. Permettono di cogliere inflessioni, accenti, sfumature vocali che nessun doppiaggio può restituire pienamente. Ma il prezzo da pagare è alto. Come sottolineava già nel 1982 Lucien Marleau, ogni comparsa e scomparsa del testo a schermo comporta uno shock visivo. In un film medio di due ore, lo spettatore è sottoposto a circa 900 “apparizioni”, una ogni tre secondi. Un autentico bombardamento cognitivo, che chiede di leggere, ascoltare e guardare contemporaneamente, e che può compromettere la fruizione estetica del film.

Doppiaggio: l’illusione dell’immediatezza

Il doppiaggio, dal canto suo, offre un’esperienza più fluida. Permette di concentrarsi interamente sulla narrazione visiva e sonora, senza lo sforzo della lettura. Ma può deformare le intenzioni dell’originale, attenuare il registro espressivo, e persino censurare – consapevolmente o meno – certe sfumature culturali. In alcuni casi, l’intero impianto del film viene risemantizzato. Gli esempi abbondano, come dimostra l’episodio recente della serie Succession, in cui il nome “Berlusconi” viene incredibilmente tradotto nei sottotitoli con “belarusian” (cioè “bielorusso”). Una svista forse marginale, ma significativa.

L’impatto della tecnologia

Oggi, l’intelligenza artificiale sta modificando radicalmente il panorama. Esistono strumenti che consentono di generare sottotitoli automaticamente, di modificarne colore, font, tempistica. Allo stesso modo, esistono software in grado di creare doppiaggi automatici, anche se ancora imperfetti nella restituzione delle emozioni, degli accenti e nella sincronizzazione labiale. Entrambe le soluzioni promettono maggiore accessibilità, ma sollevano nuove domande sulla qualità, sull’accuratezza e sulla possibilità di controllare il senso.

Una sfida ancora aperta

La verità è che né il doppiaggio né i sottotitoli rappresentano una soluzione definitiva. Entrambi sono tecniche di mediazione, entrambe pongono problemi e offrono vantaggi. In un mondo ideale, ogni spettatore dovrebbe avere la possibilità di scegliere tra le due esperienze, o addirittura – come suggerisce provocatoriamente l’autore – vedere ogni film due volte: prima doppiato, poi sottotitolato.

Ma la questione più profonda, che resta sullo sfondo, è un’altra: siamo davvero consapevoli del potere che queste scelte esercitano sul modo in cui percepiamo il mondo? Tradurre un film non è solo trasporre parole. È interpretare una cultura, un registro, un’emozione. È riscrivere l’opera – spesso nell’ombra – per renderla nostra. In questo senso, i sottotitoli abusivi di Nornes, le immagini numerate di Kubrick e le voci sbagliate di un giovane Mastroianni raccontano tutti la stessa storia: la traduzione non è mai innocente. È un atto di interpretazione. E, in ultima analisi, di potere.


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Come domotica e smart home stanno cambiando il volto della casa

Nel giro di pochi decenni, l’idea stessa di casa ha subito una trasformazione radicale. Da rifugio privato e spesso statico, l’abitazione contemporanea si è evoluta in uno spazio interattivo, dinamico, in grado di dialogare con i suoi abitanti. È l’effetto della rivoluzione tecnologica che ha investito anche il mondo dell’edilizia e del design d’interni, dando vita a due concetti centrali del nostro tempo: domotica e smart home. Espressioni spesso usate come sinonimi, ma che in realtà si riferiscono a modelli abitativi profondamente diversi per struttura, tecnologia, grado di personalizzazione e impatto sul valore immobiliare.

Una nuova idea di abitare

Il punto di partenza è una nuova visione della casa, non più intesa solo come luogo da vivere, ma come organismo capace di apprendere, anticipare i bisogni, migliorare la qualità della vita, proteggere e sostenere. La cosiddetta “casa intelligente” è ormai una realtà sempre più diffusa: dispositivi connessi, gestione da remoto, sistemi di sicurezza avanzati e un occhio attento alla sostenibilità sono solo alcune delle caratteristiche delle abitazioni contemporanee. La tecnologia entra nelle pareti domestiche per semplificare, ottimizzare e rendere più sicura la vita quotidiana.

Tutto questo è reso possibile dall’integrazione di due approcci diversi: la domotica e la smart home. Comprendere la differenza tra i due è essenziale per orientarsi nel mercato e per progettare la casa del futuro, che sia una nuova costruzione o una ristrutturazione.

Domotica: l’intelligenza strutturale della casa

La domotica è il cuore tecnologico invisibile che si integra direttamente nell’impianto elettrico dell’edificio. È un sistema cablato, permanente, strutturale. Si basa su una rete di dispositivi, sensori e attuatori collegati a una centralina che consente la gestione centralizzata delle funzioni domestiche: illuminazione, riscaldamento, tapparelle, irrigazione, sistemi audio-video, sicurezza.

Ogni intervento domotico è progettato su misura, richiede personale tecnico specializzato e rappresenta un vero e proprio investimento, sia economico che funzionale. Il vantaggio principale è l’elevato livello di personalizzazione e l’affidabilità: i comandi possono essere gestiti anche localmente, senza necessariamente dipendere da una connessione internet.

Una casa domotica è, di fatto, un sistema chiuso e stabile, che garantisce automazione, efficienza energetica e sicurezza. Se dotata di connessione web, può anche evolvere in una smart home. Ma non vale il contrario: una smart home non diventa automaticamente domotica, a meno di interventi strutturali profondi.

Smart home: flessibilità, accessibilità, immediatezza

Più leggera nella struttura e più flessibile nell’uso, la smart home si basa su tecnologie wireless e dispositivi IoT (Internet of Things). Lampadine intelligenti, prese smart, termostati connessi, serrature elettroniche, sensori di movimento e videocamere si collegano alla rete Wi-Fi domestica e possono essere gestiti tramite app, assistenti vocali o hub centralizzati come Google Home, Alexa o Apple HomeKit.

La forza della smart home è nella semplicità d’installazione, nella modularità e nella possibilità di aggiungere o rimuovere dispositivi senza interventi invasivi. È una soluzione accessibile, perfetta per chi desidera migliorare la propria abitazione senza affrontare ristrutturazioni. Tuttavia, la sua efficacia dipende dalla qualità e stabilità della connessione internet, e l’automazione si limita spesso a ciò che è previsto dal software dei singoli dispositivi.

In termini di impatto immobiliare, la smart home non modifica il valore di mercato dell’abitazione, ma può migliorarne sensibilmente l’esperienza d’uso quotidiana.

Comfort, sicurezza e sostenibilità: i pilastri della casa intelligente

Sia nel caso della domotica che della smart home, il cuore dell’innovazione è il miglioramento del comfort abitativo. Le nuove tecnologie permettono alle abitazioni di adattarsi ai ritmi di chi le vive: luci che si regolano automaticamente in base alla luce naturale, tapparelle che seguono l’orario o la luminosità esterna, climatizzazione personalizzata, controllo dell’umidità e automazioni che anticipano i gesti quotidiani. La casa diventa così un’estensione intelligente delle abitudini personali, migliorando il benessere e riducendo lo stress.

Altro aspetto cruciale è la sicurezza. Le abitazioni intelligenti offrono sistemi d’allarme di ultima generazione, spesso senza fili, gestibili da remoto, con sensori, telecamere, sirene, riconoscimenti biometrici e capacità di simulare la presenza. Si tratta di soluzioni proattive, capaci di prevenire e reagire in tempo reale, garantendo una protezione continua e discreta.

Infine, l’efficienza energetica. Le tecnologie intelligenti permettono il monitoraggio costante dei consumi, l’ottimizzazione dei cicli di riscaldamento e raffrescamento, la gestione da remoto degli elettrodomestici e l’integrazione con pannelli solari e sistemi di accumulo. Risultato: una casa che consuma meno, spreca meno e impatta meno sull’ambiente. Non è solo una questione di sostenibilità, ma anche di risparmio economico.

Inclusività e autonomia: una casa per tutti

Le case intelligenti non sono solo più comode, sicure ed ecologiche. Sono anche più inclusive. I sistemi domotici e smart favoriscono l’autonomia di persone anziane o con disabilità, offrendo interfacce vocali, pannelli tattili intuitivi, sistemi di chiamata d’emergenza e monitoraggio della salute. Funzioni che abbattono barriere fisiche e digitali, trasformando la tecnologia in uno strumento di partecipazione e dignità.

Quale scegliere? Domotica o smart home?

La risposta dipende da molte variabili: budget, obiettivi, grado di personalizzazione desiderato, condizioni strutturali dell’abitazione. La domotica rappresenta una scelta duratura e ad alto valore aggiunto, ideale in fase di costruzione o ristrutturazione. La smart home, più agile e meno onerosa, è invece perfetta per miglioramenti immediati e progressivi.

In molti casi, la soluzione ottimale è un approccio ibrido: integrare alcuni sistemi domotici essenziali con dispositivi smart wireless, unendo stabilità e flessibilità.

Un futuro sempre più connesso

La casa del futuro è già tra noi. Connessa, sostenibile, inclusiva e capace di apprendere, l’abitazione intelligente ridefinisce le coordinate dell’abitare contemporaneo. Una rivoluzione silenziosa ma profonda, che trasforma le mura domestiche in spazi vivi, partecipi, su misura di chi li abita. E che, forse, ci racconta molto più di quanto immaginiamo sul modo in cui vogliamo vivere domani.


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Il maestro della materia, che ha trasformato il bronzo in pensiero e spazio interiore

Il 22 giugno 2025, alla vigilia del suo novantanovesimo compleanno, si è spento nella sua casa di Milano Arnaldo Pomodoro. Con lui se ne va uno dei massimi interpreti della scultura contemporanea italiana, capace di unire la forza del gesto artigianale alla visione cosmica della materia. Nato nel 1926 a Morciano di Romagna, Pomodoro ha attraversato quasi un secolo di storia, restando sempre fedele a una poetica che coniuga rigore geometrico, memoria archetipica e tensione monumentale.

L’origine di uno stile: tra geometria e rottura

La sua firma è nota in tutto il mondo: sfere levigate, scolpite nel bronzo, che si aprono, si lacerano, si fratturano come gusci di un mondo interiore. L’apparenza perfetta della superficie cela un’anima complessa, fatta di ingranaggi, cavità, sporgenze e incastri. È il contrasto tra l’esterno armonico e l’interno spezzato a definire l’essenza della sua opera. Ogni scultura diventa un congegno della visione, un dispositivo che invita lo spettatore a esplorare, decifrare, entrare.

Pomodoro si forma inizialmente come geometra, ma già nei primi anni Cinquanta abbandona l’ambito tecnico per seguire la vocazione artistica. I suoi primi lavori sono monili in oro e argento, per poi passare a materiali più ruvidi e resistenti: ferro, cemento, legno. Sarà però il bronzo il materiale della maturità, quello che gli permetterà di fondere insieme micro e macro, gesto e architettura, resistenza e cesura.

Opere e ritratto di Arnaldo Pomodoro al lavoro – Immagine di Paolo Monti – Servizio fotografico – BEIC 6365653. Servizio fotografico: Italia, 1975 / Paolo Monti. – Buste: 12, Fototipi: 13 : Negativo b/n, gelatina bromuro d’argento/ pellicola ; 10×12. – ((Serie costituita da 13 negativi identificativi con i nn.: 503, 505, 557-559, 576-578, 581-583 e una busta senza numerazione su cui è manoscritto: “Riproduzione del 151 – Pannello”. La suddetta serie è contenuta nella scatola identificata con la numerazione G1676/1737. Sul coperchio della scatola manoscritto: “Zodiaco 1/1-77”

Milano, continuità e sperimentazione

Dal 1954 Pomodoro vive e lavora a Milano, in una casa-studio lungo la Darsena, vicino a Porta Ticinese. Nella capitale lombarda della cultura e del design trova il terreno fertile per sviluppare un linguaggio personale, soprattutto grazie all’incontro con il gruppo “Continuità”, dove dialoga con artisti come Lucio Fontana. La scultura per Pomodoro è uno spazio da aprire, non da riempire. Più che rappresentare la realtà, egli ne disseziona le tensioni: la sua è una ricerca sulle forme primarie — sfera, cubo, cono, parallelepipedo — che si incrinano, esplodono, si rigenerano in un ciclo continuo.

Il suo “spirito geometrico” non è mai sterile. Le sue forme, pur rigorosamente euclidee, si animano attraverso tagli netti e fenditure che rivelano un mondo interno, quasi un organismo tecnologico o una partitura musicale. La materia parla come un alfabeto cuneiforme, evocando una sacralità arcaica e una contemporaneità visionaria. In questa dialettica tra superficie e profondità si condensa la sua idea di arte come spazio simbolico e vitale.

Opere nel mondo, monumenti del tempo

L’arte di Arnaldo Pomodoro è presente nei più importanti musei, università e spazi pubblici del mondo. Dalla Sfera con sfera nel Cortile della Pigna dei Musei Vaticani alla monumentale scultura davanti al Palazzo dell’ONU a New York, dalle piazze di Pesaro e Rimini fino al Trinity College di Dublino, al Mills College in California e alla basilica di San Pio a San Giovanni Rotondo. Sono segni disseminati nel paesaggio urbano e spirituale, interruzioni lucide e organiche nel fluire del tempo.

Tra le sue opere più significative spicca la Colonna del viaggiatore, realizzata nel 1962 per la celebre mostra Sculture in città curata da Giovanni Carandente a Spoleto. Fu la prima prova di grande scala, preludio a una produzione monumentale che non avrebbe più conosciuto sosta.

Negli anni Novanta, Pomodoro firma lavori carichi di significato storico e politico. Il Disco Solare (1991) viene donato all’Unione Sovietica in pieno clima di disgelo; l’anno dopo, Papyrus viene collocato a Darmstadt nei giardini delle poste tedesche. Nel 1993 realizza una fontana-scultura per il Centro Biotecnologie Avanzate di Genova, mentre nel 1995 dedica un’opera a Federico Fellini, su commissione del comune di Rimini. Sempre nello stesso anno dà vita alla Lancia di Luce, obelisco installato a Terni in omaggio alla storia industriale e siderurgica della città.

Tra memoria e formazione

Pomodoro non è stato solo artista, ma anche formatore e promotore culturale. Ha insegnato in università statunitensi come Stanford, Berkeley, la California University e il Mills College. Nel 1990 fonda il Centro TAM (Trattamento Artistico dei Metalli) a Pietrarubbia, piccolo borgo del Montefeltro dove aveva trascorso l’infanzia. Il centro, realizzato in collaborazione con il Comune, è un laboratorio di formazione per giovani artisti, e testimonia il suo impegno nel trasmettere l’arte come sapere tecnico e ricerca interiore.

Significativa è anche la donazione che tra il 1977 e il 1991 compie allo CSAC di Parma (Centro Studi e Archivio della Comunicazione), con 33 sculture, 47 opere su carta e 23 gioielli e medaglie, oggi consultabili e visibili negli spazi dell’Università.

L’artista come demiurgo

L’originalità di Pomodoro non risiede soltanto nella forma, ma nella sua concezione della scultura come linguaggio universale, capace di oltrepassare le apparenze e scavare nella realtà. Le sue superfici tagliate e ricucite parlano una lingua che richiama l’ingegno dei primi artigiani, il rigore dei matematici, l’intuizione dei poeti. In questo, la sua opera si fa anche gesto filosofico: come un demiurgo platonico, Pomodoro plasma un mondo non per copiarlo, ma per rigenerarlo.

Nei suoi lavori più maturi, l’equilibrio tra l’esterno lucente e l’interno nascosto diventa metafora del nostro tempo: dietro le superfici levigate del progresso si cela un’architettura fragile e intricata. In ogni sua scultura, la forma geometrica diventa guscio e scrigno, trappola e rifugio, macchina e reliquiario. È un viaggio nello spazio della forma, ma anche nella memoria collettiva, dove si stratificano civiltà, simboli, mitologie.

L’eredità di una visione

Con la scomparsa di Arnaldo Pomodoro si chiude un lungo capitolo dell’arte italiana del secondo Novecento. Ma il suo linguaggio resta vivo, scolpito non solo nei bronzi disseminati nel mondo, ma nel modo stesso in cui pensiamo la materia, lo spazio e la memoria. Le sue opere non si limitano a occupare un luogo: lo trasformano, lo interrogano, lo aprono a nuove possibilità percettive.

Arnaldo Pomodoro ha fatto della scultura un territorio mentale, un campo di tensioni che abbraccia la storia e l’ignoto. Nel solco delle sue geometrie spezzate, continua a vibrare il suono sommerso di una libertà creativa che non si è mai piegata all’inerzia dell’ovvio.


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All’Institut du Monde Arabe una mostra per rileggere la regina d’Egitto

Parlare di Cleopatra significa evocare una delle figure più affascinanti e controverse della storia. L’ultima regina d’Egitto, sovrana della dinastia tolemaica e protagonista di una vicenda che intreccia politica, passione e tragedia, è da secoli al centro di una narrazione che mescola realtà e leggenda, archeologia e propaganda, arte e consumo. All’Institut du Monde Arabe di Parigi, la grande mostra Le Mystère Cléopâtre, in programma dall’11 giugno 2025 all’11 gennaio 2026, si propone di restituire complessità e profondità a un personaggio spesso ridotto a stereotipo. Un viaggio tra storia e immaginario, alla scoperta della sovrana e del mito che ha generato.

Cleopatra: una figura costruita nel tempo

L’esposizione, articolata e scenograficamente ricca, si confronta con un interrogativo cruciale: che cosa sappiamo davvero di Cleopatra? E, soprattutto, perché la sua immagine continua a esercitare un simile potere sull’immaginario collettivo?

Per molti, Cleopatra è prima di tutto un’icona pop: il volto di Elizabeth Taylor nel kolossal di Mankiewicz del 1963, la diva orientale dai lineamenti perfetti, la seduttrice tragica che muore per amore con un serpente al seno. Ma appena varcata la soglia della mostra parigina, diventa evidente come questa rappresentazione sia soltanto una delle tante stratificazioni simboliche che si sono accumulate nei secoli.

Attraverso oltre duecento opere provenienti da grandi istituzioni internazionali — dal Louvre alla Biblioteca Nazionale di Francia, dalla Reggia di Versailles a musei in Italia, Spagna, Stati Uniti e Svizzera — Il mistero di Cleopatra racconta come la figura della regina sia stata costruita, distorta, riscritta e infine trasformata in un mito globale.

Jean André Rixens (1846-1925),  La morte di Cleopatra, 1874. Olio su tela, 200×290 cm.
© Municipio di Tolosa, Museo degli Agostiniani. Foto Daniel Martin

Dalla storia alla leggenda

La prima sezione della mostra è dedicata alla documentazione storica e archeologica. Grazie a rari reperti originali — tra cui monete coniate sotto il suo regno e papiri con firme attribuite alla sovrana — è possibile risalire all’identità storica di Cleopatra VII Filopatore. Ultima esponente della dinastia macedone fondata da Tolomeo I, successore di Alessandro Magno, Cleopatra nacque nel 69 a.C. e governò l’Egitto per circa vent’anni, in un periodo segnato dalla progressiva ingerenza di Roma negli affari del Mediterraneo orientale.

La mostra ricostruisce con rigore il contesto politico, economico e religioso in cui visse. Alessandria, sua capitale, era all’epoca un fiorente crocevia di culture, sapere e commerci. A dispetto della sua immagine romanzata, Cleopatra fu una regnante di grande abilità: adottò riforme amministrative e monetarie, cercò di mantenere l’autonomia egiziana con una raffinata politica diplomatica e fu tra le pochissime sovrane della storia antica a esercitare un potere effettivo, non meramente simbolico.

La sua alleanza con Giulio Cesare prima e con Marco Antonio poi, culminata nella sconfitta navale di Azio (31 a.C.) e nel celebre suicidio, pose fine all’indipendenza dell’Egitto e segnò l’ascesa definitiva di Ottaviano, futuro Augusto, come unico padrone di Roma. Ma fu proprio da quel momento che cominciò a consolidarsi il mito.

Cleopatra, Alexandre Cabanel, 1887, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Antwerpen

La costruzione di un’immagine

Nella propaganda augustea, Cleopatra venne descritta come una minaccia esotica e perversa, simbolo di decadenza e lussuria orientale. I testi latini dell’epoca — da Orazio a Plutarco, da Virgilio a Dion Cassio — contribuirono a costruire il ritratto di una “straniera” seduttrice, manipolatrice, potenzialmente sovversiva per l’ordine patriarcale e imperiale di Roma. Una narrazione misogina e riduttiva che avrebbe esercitato una lunga influenza sulla storiografia occidentale.

In contrasto, gli autori arabi medievali la considerarono una regina colta e illuminata, capace di coniugare autorità politica e saggezza intellettuale. Ma è soprattutto attraverso l’arte figurativa che il personaggio si è moltiplicato in innumerevoli versioni: miniature medievali, pittura rinascimentale, scultura barocca, letteratura teatrale e operistica, illustrazione ottocentesca.

Ogni epoca ha proiettato sulla sovrana le proprie ossessioni: Cleopatra è stata l’Eva tentatrice, la regina lasciva, l’eroina tragica, la femme fatale o la martire politica. Dalla penna di Shakespeare al pennello di Guido Reni, dalla scena del teatro di Victorien Sardou alla voce della Callas, l’“Egiziana” ha assunto le forme più diverse, ma sempre subordinate a un’idea di seduzione tanto potente quanto ambigua.

Nazanin Pouyandeh, La morte di Cleopatra, olio su tela, 2022.
Collezione privata. © Gregory Copitet

Il cinema e la massificazione del mito

Un punto di svolta nella rappresentazione di Cleopatra si verifica con l’avvento del cinema. A partire dagli anni Dieci del Novecento, il grande schermo la trasforma in un simbolo glamour: la Cleopatra interpretata da Theda Bara (1917), con il suo trucco marcato e le pose da vamp, inaugura una lunga serie di regine reinventate dalla cultura visiva.

Negli anni Sessanta, il colossal hollywoodiano con Elizabeth Taylor impone un’icona definitiva: abiti sontuosi, eyeliner grafici, scenografie opulente e un’aura da diva. Da quel momento, la regina d’Egitto entra a pieno titolo nella cultura popolare di massa, riprodotta all’infinito su oggetti di consumo, pubblicità, travestimenti di Carnevale, serie televisive e merchandising. La sua immagine diventa un marchio: Cleopatra come musa del glamour, testimonial involontaria dell’industria della bellezza, reginetta di moda.

In questa trasformazione, il mito ha finito per oscurare la figura storica, generando un’immensa confusione culturale. La sovrana reale, con il suo ruolo politico e la sua dimensione pubblica, scompare dietro l’ombra spettacolare dell’eroina tragica.

L’icona contemporanea: politica, identità e riscatto

Tuttavia, negli ultimi decenni, la figura di Cleopatra è stata oggetto di una profonda revisione. A partire dalla fine del XIX secolo, movimenti politici, nazionali e femministi hanno cominciato a riappropriarsi della sua immagine. In Egitto, è divenuta un simbolo di orgoglio e resistenza anticoloniale. Negli Stati Uniti, è stata rivendicata come figura di riferimento dalla comunità afroamericana, che sottolinea le sue origini africane e il suo ruolo di donna di potere in un mondo dominato da uomini.

Oggi, Cleopatra è anche un’icona femminista: una donna capace di imporsi in un contesto ostile, di parlare più lingue, di governare con determinazione, di scegliere la propria morte piuttosto che subire la sconfitta. Il mito, pur nella sua ambiguità, continua a offrire una chiave per ripensare il rapporto tra genere, potere e rappresentazione.

Un’esposizione per decostruire il mito

La mostra dell’Institut du Monde Arabe non si limita a presentare Cleopatra come figura storica o soggetto artistico, ma affronta con lucidità il modo in cui è stata narrata, manipolata e consumata. Lo fa intrecciando archeologia, storia dell’arte, studi culturali e pratiche espositive contemporanee, in un percorso che va dalla numismatica ai costumi cinematografici, dalle stampe del Rinascimento alle fotografie pubblicitarie.

Più che ricostruire un’immagine autentica — probabilmente impossibile — il percorso suggerisce una lettura critica del mito: Cleopatra come specchio mobile dei desideri, delle paure e delle fantasie di chi la guarda. Un simbolo in continua mutazione, in cui si riflettono le tensioni di ogni epoca.

In un momento storico in cui il dibattito sul passato si intreccia sempre più con le dinamiche del presente, questa mostra si impone come un invito a distinguere tra leggenda e verità, tra immagine e potere. Perché forse, il vero “mistero di Cleopatra”, non è tanto chi sia stata, quanto perché continuiamo ad averne bisogno.


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I muckrakers alle origini del giornalismo d’inchiesta

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, un’ondata di scrittori, fotografi e giornalisti americani cominciò a rivolgere uno sguardo impietoso verso le contraddizioni del proprio tempo. Il loro obiettivo era chiaro: rivelare il volto nascosto del progresso, quello fatto di miseria urbana, corruzione politica, sfruttamento lavorativo e abusi istituzionali. Nasceva così il giornalismo d’inchiesta moderno, e con esso una nuova figura professionale e culturale: il muckraker.

Il termine, coniato in senso sprezzante da Theodore Roosevelt nel 1906, indicava “chi rastrella il fango”, evocando un passo del poema allegorico Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan. Nella parabola, un uomo rifiuta la salvezza divina perché troppo impegnato a rivoltare il letame. Per Roosevelt, i muckrakers erano uomini capaci di scoperchiare le brutture del sistema, ma spesso ciechi di fronte a prospettive più alte. Eppure, proprio questi “rastrellatori di fango” diedero avvio a una delle stagioni più feconde del giornalismo americano, influenzando l’opinione pubblica, la politica e perfino l’assetto legislativo del Paese.

Una città sull’orlo dell’abisso

Il cuore di questo movimento fu New York, emblema della modernità industriale e delle sue contraddizioni. A cavallo tra i due secoli, la metropoli americana era teatro di un’espansione urbana tumultuosa e disordinata, dove convivevano la ricchezza dei grandi magnati e la miseria delle masse immigrate. Era un mondo diviso in due, come raccontava già nel 1890 How the Other Half Lives del fotografo danese Jacob Riis, una delle prime opere a documentare, con parole e immagini, le condizioni disumane nei tenements, gli alloggi sovraffollati del Lower East Side.

Riis, con la sua macchina fotografica e una penna indignata, accese i riflettori sulla “metà invisibile” della città: bambini affamati, famiglie stipate in stanze senza luce, operai distrutti dal lavoro. Il suo libro fu una denuncia senza sconti e segnò un punto di svolta: non si poteva più ignorare la miseria che viveva accanto all’opulenza.

McClure’s (copertina, gennaio 1901)
pubblicò molti dei primi articoli scandalistici.

L’era progressista e la nascita del giornalismo investigativo

Il contesto in cui i muckrakers si affermarono fu l’età progressista americana, un periodo compreso tra il 1890 e il 1920 segnato da profondi fermenti sociali e riformisti. Fu in quegli anni che prese forma una nuova concezione del giornalismo, fondata non più soltanto sulla cronaca o sul sensazionalismo, ma sull’indagine documentata dei fatti e sulla denuncia degli abusi.

Riviste come McClure’s Magazine, Collier’s Weekly, Everybody’s Magazine o American Magazine divennero laboratori di inchieste meticolose e approfondite. I loro redattori, come Samuel S. McClure, investirono risorse e tempo nella ricerca della verità, affidandosi a reporter brillanti e politicamente impegnati. Nel numero di gennaio 1903 di McClure’s, considerato da molti il manifesto inaugurale del muckraking, comparvero contemporaneamente tre firme destinate a diventare leggendarie: Ida M. Tarbell, Lincoln Steffens e Ray Stannard Baker.

Tarbell pubblicò la monumentale History of the Standard Oil Company, un’inchiesta in dieci puntate che smascherava le pratiche monopolistiche e predatorie dell’impero fondato da John D. Rockefeller. Steffens firmò The Shame of the Cities, un’indagine sulle collusioni tra politici e criminalità nelle amministrazioni urbane. Baker denunciò le discriminazioni razziali e le disuguaglianze nel diritto al lavoro.

Scrivere per cambiare la società

A differenza del giornalismo scandalistico dell’Ottocento, dominato da titoli sensazionali e cronaca nera al servizio della vendita di copie, il muckraking si presentava come un’azione consapevole di riforma. I muckrakers volevano informare, ma soprattutto provocare una reazione. Il loro fine non era l’audience, ma il cambiamento.

Tra le opere più influenti del periodo spicca The Jungle di Upton Sinclair (1906), romanzo-inchiesta che raccontava le condizioni brutali degli operai nei mattatoi di Chicago. L’impatto fu dirompente: più che la denuncia dello sfruttamento umano, colpì l’opinione pubblica l’immagine della carne contaminata servita sulle tavole americane. L’indignazione portò all’approvazione, nello stesso anno, del Pure Food and Drug Act e del Meat Inspection Act. Sinclair stesso commentò amaramente: «Miravo al cuore del pubblico e ho colpito lo stomaco».

Altri testi emblematici furono The Greatest Trust in the World e The Uprising of the Many di Charles Edward Russell, Treason of the Senate di David Graham Phillips e Tweed Days in St. Louis di Lincoln Steffens, il primo vero articolo “muckraker”, che nel 1902 smascherò il sistema di corruzione diffuso nella politica urbana americana.

Tecniche nuove, storie vere

Se il contenuto era rivoluzionario, lo erano anche i mezzi. L’uso della fotografia come prova, la struttura narrativa del reportage, la tecnica dell’inchiesta sotto copertura: tutto contribuiva a rafforzare l’impatto dei racconti. Pionieri come Julius Chambers si finsero pazienti per denunciare gli abusi nei manicomi (caso Bloomingdale Asylum, 1872), mentre Nellie Bly trascorse dieci giorni internata al Bellevue Mental Hospital per testimoniare le condizioni inumane dei ricoverati. I loro articoli portarono a riforme immediate, al rilascio di innocenti e a una maggiore regolamentazione delle strutture psichiatriche.

La diffusione di queste storie fu favorita da un mercato editoriale in rapida crescita. La classe media americana, sempre più alfabetizzata e sensibile ai temi sociali, era un pubblico ideale per questo nuovo giornalismo. Le tirature delle riviste aumentarono, gli editori investirono, gli autori divennero celebrità. Eppure, proprio in questo successo si celava anche un rischio: quello di scivolare nel moralismo o nel populismo.

Il contraccolpo e l’eredità

La reazione non si fece attendere. Roosevelt, pur riconoscendo il ruolo cruciale dei muckrakers, li accusò di eccedere nella denuncia e di ignorare i progressi della nazione. Il giornalismo divenne un campo di battaglia ideologico tra chi lo voleva militante e chi lo pretendeva oggettivo. Fu proprio in questo periodo che The New York Times, sotto la guida di Adolph Ochs, cominciò a promuovere uno stile sobrio, imparziale e “di riferimento”, prendendo le distanze dal giornalismo emozionale.

Ma la stagione dei muckrakers aveva lasciato un segno profondo. Aveva imposto nuovi standard professionali, introdotto il concetto di responsabilità sociale del giornalismo e dimostrato che la parola stampata poteva cambiare la realtà. Il giornalismo d’inchiesta, da allora, sarebbe rimasto una delle voci più autorevoli e temute della democrazia americana.

Dalla carta stampata al mondo contemporaneo

Oggi, il termine muckraker è usato più raramente, ma la sua eredità sopravvive nei grandi reportage, nei documentari d’inchiesta, nelle investigazioni giornalistiche che portano alla luce scandali ambientali, economici e politici. In un’epoca dominata dalle fake news e dalla frammentazione informativa, l’esempio di quei pionieri resta più attuale che mai.

Jacob Riis, Ida Tarbell, Lincoln Steffens, Nellie Bly e Upton Sinclair non solo raccontarono il loro tempo: lo trasformarono. Con coraggio, metodo e ostinazione, riscrissero la funzione del giornalismo moderno. Non furono solo osservatori, ma attori della storia. In un’epoca in cui la libertà di stampa continua a essere minacciata in molte parti del mondo, ricordare la loro lezione è più che un dovere: è una necessità.


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Scienza, storia e miti del giorno più lungo dell’anno

Una volta all’anno, la danza millenaria tra Terra e Sole raggiunge uno dei suoi momenti più significativi: il solstizio d’estate. Più che un evento astronomico, si tratta di una soglia simbolica tra stagioni, culture e civiltà. È il giorno in cui il Sole, nel suo arco celeste, tocca il punto più alto nel cielo dell’emisfero nord, regalando il massimo di ore di luce. Il 20 giugno 2025, alle 22:42 EST, questo istante ha segnato ufficialmente il passaggio all’estate boreale. Nell’altro emisfero, invece, ha coinciso con l’inizio dell’inverno.

Ma dietro questa semplice annotazione di calendario si cela un intreccio di scienza e cultura che attraversa i secoli e le latitudini.

L’inclinazione della Terra e la geometria delle stagioni

La causa principale dei solstizi risiede in un dato apparentemente innocuo: l’asse terrestre non è perpendicolare all’orbita che la Terra compie attorno al Sole, ma inclinato di circa 23,4 gradi. Questa inclinazione determina la distribuzione della luce solare durante l’anno. Da marzo a settembre, l’emisfero settentrionale è più esposto alla radiazione solare diretta, mentre da settembre a marzo tocca a quello meridionale. In prossimità dei solstizi, l’inclinazione raggiunge i suoi estremi: uno dei due emisferi riceve il massimo della luce diurna (il giorno più lungo), l’altro la minima (la notte più lunga).

Durante il solstizio d’estate boreale, il Sole appare allo zenit, ovvero esattamente sopra la testa, soltanto lungo il Tropico del Cancro (23,5° di latitudine nord). Al contrario, nel solstizio invernale, lo stesso accade sul Tropico del Capricorno (23,5° sud). Queste coordinate celesti rappresentano i limiti entro cui il Sole può comparire allo zenit nel corso dell’anno.

Solstizi su altri pianeti

Il fenomeno dei solstizi non è esclusivo della Terra. Ogni pianeta con un asse inclinato sperimenta qualcosa di simile. Tuttavia, le stagioni extraterrestri possono essere molto diverse, per durata ed effetto. Venere, ad esempio, ha un’inclinazione assiale minima, appena tre gradi: ciò riduce quasi del tutto la variabilità stagionale. Marte, invece, con la sua orbita più ellittica, subisce escursioni stagionali notevoli, in parte dovute alla sua distanza variabile dal Sole.

Nel caso della Terra, l’inclinazione ha un peso maggiore rispetto all’orbita, che è quasi circolare. Curiosamente, il nostro pianeta è più vicino al Sole in gennaio (perielio) e più lontano in luglio (afelio), ma questo ha un impatto minimo sul clima rispetto all’inclinazione.

La lunga storia dei solstizi

Molto prima che la scienza spiegasse il meccanismo dei solstizi, l’umanità li osservava con attenzione quasi religiosa. In diverse culture, questi momenti celesti segnavano passaggi fondamentali dell’anno agricolo o spirituale.

In Inghilterra, il misterioso complesso megalitico di Stonehenge, costruito oltre 5.000 anni fa, è allineato in modo tale che il Sole nascente del solstizio d’estate appaia in asse con la cosiddetta “Heel Stone”. Il significato esatto resta oggetto di studio, ma l’intenzione di celebrare o osservare questo fenomeno è chiara.

Anche le piramidi egizie sembrano avere un legame con il ciclo solare. Osservando il tramonto del solstizio d’estate dalla Sfinge, il Sole scende tra le piramidi di Cheope e Chefren. Non è ancora chiaro se tale allineamento sia intenzionale, ma l’effetto è impressionante.

Le celebrazioni del solstizio d’estate sono tuttora vive in molte regioni del mondo. In Scandinavia, la festa di Mezzestate è un inno alla luce e alla natura, con danze intorno al palo di maggio, pasti collettivi e canti tradizionali. Nei paesi slavi, la notte di Ivan Kupala prevede rituali con fiori e falò, e i più audaci si cimentano in salti propiziatori sopra il fuoco. A Fairbanks, in Alaska, dove d’estate la luce dura quasi 23 ore, si gioca ogni anno, dal 1906, una partita di baseball a mezzanotte: il “Midnight Sun Game”.

Nell’emisfero sud, invece, è il solstizio d’inverno a essere celebrato, spesso con pari intensità. Gli Inca, il 24 giugno, onoravano Inti, dio del Sole, con la festa di Inti Raymi, che segnava anche il loro Capodanno. A Cusco, dal 1944, la cerimonia viene rievocata con una grande rappresentazione teatrale. I Romani, invece, rendevano omaggio al solstizio d’inverno con i Saturnalia, una festività caratterizzata da banchetti, scambi di doni e sospensione temporanea delle gerarchie sociali. In Iran, la festa di Yalda — legata all’antica religione zoroastriana — celebra la nascita della luce, impersonata da Mitra, con letture poetiche e frutti rossi come simbolo del sole.

Luoghi comuni e verità scientifiche

Nonostante il fascino dei solstizi, molte idee sbagliate circolano ancora. Una delle più comuni riguarda la temperatura: ci si aspetterebbe che il giorno più lungo dell’anno coincida anche con il più caldo, ma non è così. Il motivo è semplice: la Terra impiega tempo a riscaldarsi e raffreddarsi. Per questo, le ondate di calore negli Stati Uniti raggiungono il picco in luglio o agosto, ben dopo il solstizio. Analogamente, le giornate più fredde dell’inverno arrivano in genere a fine gennaio, un mese dopo il solstizio invernale.

Un altro malinteso riguarda la durata del giorno: si pensa che, poiché la rotazione terrestre rallenta gradualmente, ogni nuovo solstizio stabilisca un record. In realtà, il rallentamento è troppo lieve per produrre effetti percepibili nel breve termine. Studi sui coralli fossili mostrano che 400 milioni di anni fa i giorni duravano meno di 22 ore, ma il cambiamento annuo oggi è misurabile solo in millisecondi.

Curiosamente, il giorno più lungo registrato dal XIX secolo si sarebbe verificato nel 1912, superando la durata media di appena quattro millisecondi. La rotazione terrestre può variare leggermente anche per effetto di fenomeni temporanei, come El Niño o lo scioglimento dei ghiacci polari, che alterano la distribuzione della massa sul pianeta.

Tra cielo e cultura

Il solstizio d’estate non è soltanto un fenomeno astronomico, ma anche un archetipo culturale che continua a ispirare riti, credenze e manifestazioni collettive. È il momento in cui la luce trionfa, in cui il Sole sembra fermarsi e l’umanità, antica e moderna, si concede una pausa per osservarlo. Dall’antico Egitto all’Alaska contemporanea, il 21 giugno continua a ricordarci che siamo parte di un ingranaggio cosmico più grande — un equilibrio precario tra inclinazione, orbita e luce, che scandisce il tempo, le stagioni e i nostri riti più profondi.


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Nel romanzo, la trama è tornata centrale per difendere la narrazione

Una storia si può raccontare in mille modi

Per decenni la “trama” è stata considerata con sospetto nei circoli letterari più esigenti. Associata a un’idea di letteratura popolare e accessibile, ha finito per incarnare tutto ciò che certa critica ha voluto escludere: l’emozione, il coinvolgimento, il piacere della lettura. Eppure, proprio questo atteggiamento, che ha radici nelle sperimentazioni avanguardistiche del secondo Novecento, oggi appare datato. Anzi, paradossalmente, è diventato il vero oggetto di una critica che ne denuncia il vuoto culturale. Perché la trama, nel romanzo, è tornata centrale. E non come concessione commerciale, ma come necessità espressiva.

La letteratura ha conosciuto una lunga stagione in cui il racconto lineare è stato messo in discussione, se non addirittura liquidato. Dalla Nouvelle Vague editoriale al cosiddetto “antinovel”, il Novecento ha visto una profonda sperimentazione narrativa: scomposizione del tempo, uso del monologo interiore, rifiuto della psicologia borghese, frammentazione e ibridazione dei generi. Ma questo processo non è iniziato nel Novecento. Già tra Settecento e Ottocento il romanzo, divenuto il genere dominante della modernità, ha conosciuto una straordinaria varietà di forme: dal romanzo epistolare alla saga familiare, dal romanzo storico a quello d’avventura. Il denominatore comune, però, restava la volontà di raccontare: qualcosa, qualcuno, in un tempo e in un luogo riconoscibili.

Il Libraio – Saghe familiari per viaggiare nel tempo e nello spazio

Nel corso dell’Ottocento, da Balzac a Tolstoj, da Flaubert a Dickens, la narrativa si fondava su una struttura forte: intreccio, personaggi memorabili, tensione tra attese e risoluzioni. La modernità letteraria, però, ha presto preso un’altra strada. Con l’esplosione delle avanguardie storiche, la trama ha cominciato a pesare come una colpa. Il Gruppo 63, in Italia, portava avanti una battaglia programmatica contro il “romanzo tradizionale”, accusato di essere reazionario. La narrativa di massa, liquidata come “lialesca”, veniva messa all’indice in favore di scritture sperimentali, spesso ermetiche, intenzionalmente ostiche.

A farne le spese fu anche Elsa Morante, che con La Storia (1974) tentò un ritorno consapevole a un grande romanzo popolare, epico, carico di emozioni. La critica, soprattutto quella ideologicamente orientata, fu feroce. A Morante venne rimproverato di indulgere nel pathos, di “commuovere”, perfino di non voler parlare davvero di storia, preferendo un’umanità miserabile e poetica a una visione strutturale delle lotte di classe. Eppure, con il senno di poi, proprio quel romanzo ha rappresentato un rinnovamento. Non un ritorno all’indietro, ma un gesto radicale: quello di ridare al lettore una narrazione ampia, stratificata, partecipata.

Oggi quella diffidenza nei confronti della trama mostra tutte le sue crepe. L’identificazione tra letteratura alta e racconto destrutturato non regge più. I lettori contemporanei si muovono liberamente tra Joyce e Stephen King, tra Maggie Nelson e Joël Dicker, dimostrando che la dicotomia tra cultura alta e bassa non ha più presa. Come ha osservato Roberto Cotroneo, le avanguardie sono un momento storico, non una norma universale. E, va detto, nemmeno Joyce si è mai pensato come autore di “avanguardia”.

La rinascita della trama si lega anche alla capacità della narrativa – sia essa letteraria, cinematografica o seriale – di veicolare significati complessi attraverso forme apparentemente semplici. Lo dimostra, per esempio, la serie “Midnight Mass” di Mike Flanagan, che parte da un impianto narrativo gotico e lo trasforma in una riflessione profonda sulla comunità, sulla fede, sulla morte. Una storia di vampiri che diventa romanzo dialogico, costruito non sull’azione, ma sulla parola. E che riesce a emozionare senza banalizzare.

È questo, forse, il punto centrale: la trama non è in sé un limite, lo diventa solo quando viene trattata con superficialità. Come la lingua, il ritmo, l’uso della voce narrante, anche la costruzione di una storia può essere raffinata, sfaccettata, innovativa. I romanzi con una forte architettura narrativa non sono, per questo, meno letterari. Anzi, spesso riescono a raggiungere un pubblico più ampio proprio perché la loro forma non è ostile.

D’altra parte, la storia del romanzo è fatta di continue ridefinizioni. Il Don Chisciotte di Cervantes, considerato il primo grande romanzo moderno, nasceva già come parodia di un genere letterario: il romanzo cavalleresco. Ma in quel gioco di specchi si innestava qualcosa di nuovo, una visione del mondo moderna, individualista, critica. Nei secoli successivi, il romanzo ha continuato a raccontare la complessità dell’esistenza attraverso una pluralità di forme: la confessione epistolare di “Pamela”, la coralità dei Buddenbrook, la distopia di Orwell, il flusso di coscienza di Woolf, il labirinto borgesiano di Eco. Sempre, però, con una struttura narrativa che faceva da spina dorsale.

Nel secondo Novecento, e ancor più oggi, la trama è tornata ad essere anche uno strumento politico. Raccontare storie significa dare voce, restituire esperienza, costruire empatia. Significa riappropriarsi del diritto di sentire, di partecipare. La condanna della trama, come osservano molti autori contemporanei, è spesso una condanna implicita di ciò che è popolare, accessibile, condiviso. Ma la cultura non è (e non dovrebbe essere) un campo di esclusione.

In un tempo dominato da narrazioni semplificate, fake news, storytelling manipolatorio, il romanzo che sa raccontare bene è un baluardo di complessità. La “trama” non è l’opposto della letteratura, è un suo ingrediente necessario. Il suo ritorno, oggi, non è una nostalgia del passato, ma una nuova affermazione di vitalità narrativa. Dopotutto, chi scrive cerca sempre di rispondere a una domanda fondamentale. E forse, come suggeriva Douglas Adams, la risposta è ancora “42”. Oppure, semplicemente, “c’era una volta”.


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L’umanista che ha insegnato al mondo a non distogliere lo sguardo

Tra denuncia e speranza, il fotografo brasiliano scomparso nel 2025 ha trasformato la macchina fotografica in uno strumento di militanza visiva. Testimone dei drammi dell’umanità, ha restituito dignità alle sue ferite e bellezza alle sue sopravvivenze.


Quando Sebastião Salgado affermava di «sentire il bisogno di essere parte di ciò che stava fotografando», non parlava solo del proprio metodo di lavoro. Descriveva, in realtà, una vocazione totalizzante, quasi sacrale, a cui ha consacrato l’intera esistenza. Nato ad Aimorés, nello Stato brasiliano del Minas Gerais, nel 1944, ed entrato in contatto con la fotografia solo dopo una prima formazione da economista, Salgado ha attraversato decenni di conflitti, migrazioni e collassi ecologici con uno sguardo che non si è mai limitato a registrare, ma che ha sempre voluto comprendere, farsi carne del mondo che documentava.

Scomparso il 23 maggio 2025 a Parigi, la città dove aveva scelto di vivere, Salgado lascia un’eredità che va ben oltre l’opera fotografica. Le sue immagini – dense, severe, ma anche capaci di una bellezza primordiale – raccontano l’umanità nei suoi estremi: la crudeltà e la grazia, la devastazione e la resilienza. E lo fanno con una cifra stilistica inconfondibile: il bianco e nero non come scelta estetica, ma come necessità etica. «Il colore distrae», diceva. Nella dicotomia fra luce e ombra, Salgado trovava la verità.

L’economista diventato testimone

Il percorso che lo ha condotto alla fotografia è già di per sé singolare. Laureato in economia e statistica, Salgado approda al fotogiornalismo dopo una missione in Africa come consulente della Banca Mondiale. Ma le cifre non gli bastano: è l’esperienza concreta dei luoghi e delle persone che lo spinge a impugnare per la prima volta una macchina fotografica. Il reportage sulla siccità del Sahel, realizzato nel 1973, è la sua prima grande inchiesta visiva, seguita da un’indagine sulle condizioni dei migranti in Europa.

Inizia così una carriera che lo porterà, negli anni successivi, a entrare in alcune tra le più importanti agenzie fotografiche del mondo. Prima Sygma, poi Gamma e infine, nel 1979, la leggendaria cooperativa Magnum Photos, simbolo della fotografia d’autore e del reportage di impianto umanistico. Salgado ne esce nel 1994 per fondare, insieme alla moglie e collaboratrice Lélia Wanick Salgado, la propria agenzia indipendente: Amazonas Images, interamente dedicata alla produzione e alla diffusione del suo lavoro.

Un atlante della condizione umana

I progetti di Salgado non si sono mai limitati al gesto dello scatto. Erano vere e proprie esplorazioni tematiche, sviluppate lungo archi temporali estesi, con uno scrupolo da antropologo e la radicalità di un attivista. Per sei anni viaggia attraverso l’America Latina per documentare le condizioni dei contadini e delle popolazioni indigene. Il risultato è Other Americas, pubblicazione densa e potente, seguita da un’opera ancor più ambiziosa: La mano dell’uomo (1993), un monumentale reportage sul lavoro nei settori produttivi di base, che ha fatto il giro dei più importanti musei del mondo.

Nel decennio successivo, Salgado concentra il suo sguardo sulle migrazioni umane. Ne racconta le cause e gli effetti, la sofferenza e l’ostinazione a vivere, nei volumi In cammino e Ritratti di bambini in cammino. Le immagini che scaturiscono da questi anni sono un pugno nello stomaco: masse in fuga, volti scavati dalla fame, mani tese, piedi nudi che calpestano terre ostili. «Ho visto cose che un uomo non dovrebbe mai vedere», dirà anni dopo nel documentario Il sale della terra, diretto da Wim Wenders insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado.

Il film, candidato all’Oscar nel 2015, è una testimonianza struggente della sua visione. Salgado non guarda mai dall’alto. Si immerge, si sporca, diventa parte di ciò che fotografa. Il suo è un viaggio senza retorica nell’umanità dolente, condotto con la pietas di chi sa che ogni vita merita di essere raccontata, ma anche con la rabbia di chi non accetta l’ingiustizia come destino.

Dal disincanto alla rinascita

Eppure, nemmeno un testimone come Salgado è rimasto indenne alla brutalità che ha osservato. Il punto di rottura arriva dopo il genocidio in Ruanda. Sconvolto da ciò che ha visto, smette di fotografare. Torna nella fattoria di famiglia nel Minas Gerais e trova la terra secca, disboscata, irriconoscibile. È il momento di un nuovo inizio: insieme a Lélia decide di riforestare quell’area devastata. Nasce così l’Instituto Terra, un progetto di riforestazione che nel tempo porterà alla piantumazione di milioni di alberi e alla rinascita di un intero ecosistema.

Da quel gesto germoglierà anche la sua opera forse più visionaria: Genesis. È l’altra faccia della medaglia, il controcanto necessario alle sue precedenti testimonianze. Dopo aver raccontato il collasso, Salgado cerca la purezza, l’origine, l’intatto. Viaggia nelle zone meno contaminate del pianeta: le Galápagos, l’Antartide, le foreste dell’Amazzonia, le tribù isolate, gli animali selvatici. È un inno all’Eden, un promemoria visivo che qualcosa di incontaminato ancora esiste, e che vale la pena salvarlo.

Fotografia come scelta morale

Tutta l’opera di Salgado è pervasa da una coerenza rara. Il suo bianco e nero, incisivo e drammatico, non è mai un artificio. È la rappresentazione di una visione del mondo dove l’ombra e la luce non sono semplici valori tonali, ma categorie morali. Fotografare non significa solo osservare: è un atto di partecipazione, di militanza, di assunzione di responsabilità. In questo senso, Salgado è stato molto più di un fotografo: è stato un interprete del nostro tempo, un custode delle sue contraddizioni, un poeta del dolore e della speranza.

Tra le sue immagini più celebri, restano impresse nella memoria collettiva il cratere umano di Serra Pelada, dove migliaia di minatori scalano pareti fangose in cerca di oro; il volto scheletrico di un bambino sopravvissuto nel Sahel; i profughi del Congo travolti dal panico; e, in Genesis, due leoni marini che si sfiorano con dolcezza sulle coste delle Galápagos. Ogni scatto è una soglia: ci chiama a guardare dove non vorremmo guardare, ad ascoltare ciò che preferiremmo ignorare.

Un’eredità viva

Nel 2013, Salgado sostiene pubblicamente la campagna di Survival International per la tutela degli Awá, la tribù più minacciata del Brasile. Le sue fotografie diventano strumento politico, veicolo di pressione internazionale, amplificatore di diritti negati. È l’ennesima conferma di un approccio che ha sempre messo l’umanità al centro, senza compromessi.

Alla fine del Sale della terra, Salgado riflette: «La fotografia è stata la mia vita. Ma la vita è qualcosa di molto più grande». È una frase che racchiude tutto il suo percorso. Le sue fotografie non sono solo documenti: sono tracce di una visione, frammenti di un’etica, testimonianze di un amore profondo – e a volte ferito – per l’essere umano.

Oggi che Sebastião Salgado non è più tra noi, resta la sua opera a guidarci. Le sue immagini continuano a parlarci, a interrogarci, a ferirci e consolarci. Ci ha lasciato un patrimonio visivo, ma anche – e forse soprattutto – un modo di guardare. Di non voltarsi dall’altra parte. Di credere che, anche nell’oscurità più fitta, possa ancora esserci una luce da custodire.


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