

Una fragola ben matura racconta più di una semplice storia di dolcezza. Al primo morso, la lingua riconosce lo zucchero, ma subito emergono altre sfumature: l’asprezza che punge sul fondo del palato, la consistenza granulosa dei semi, la morbidezza della polpa. Quello che definiamo “sapore” è, in realtà, il risultato di una complessa sinfonia sensoriale che ha come direttore d’orchestra il nostro cervello. Ma cosa significa davvero percepire un sapore?
Nonostante il concetto sia familiare a tutti, una definizione univoca di “sapore” sfugge persino alla scienza. Non è un senso autonomo come il gusto, né può essere ridotto alla somma di odore e sapore. È, piuttosto, una costruzione mentale, un’illusione sofisticata generata da più stimoli sensoriali che il cervello integra in un’unica esperienza. A ricordarlo è un articolo pubblicato su The Brain, rivista scientifica di National Geographic, firmato da Julia Sklar.
Il sapore non è ciò che pensiamo
Se in molti ancora confondono gusto e sapore, è perché il linguaggio stesso tende a sovrapporre questi due concetti. Il gusto, in senso stretto, è limitato a cinque categorie percepite dalla lingua: dolce, salato, amaro, acido e umami. Tutto ciò che va oltre – la fragranza del basilico, la piccantezza del pepe, la croccantezza di una patatina – appartiene al regno del sapore.
Secondo Dana Small, neuroscienziata dell’Università di Yale, il sapore è una sofisticata illusione sensoriale. “Il cervello ci inganna”, afferma, spiegando come l’esperienza del cibo sia in realtà il risultato di più segnali elaborati insieme: quelli della lingua, del naso, delle orecchie e persino degli occhi. Questa combinazione genera un’esperienza soggettiva e complessa, ma soprattutto immediata.
C’è chi propone una visione più ortodossa, come Robin Dando, professore alla Cornell University, secondo cui il sapore sarebbe il prodotto dell’integrazione tra gusto e olfatto. Altri studiosi, come Qian Janice Wang dell’Università di Aarhus, suggeriscono che anche la vista e il suono – ad esempio il rumore della croccantezza – contribuiscano in modo determinante. Non c’è consenso, ed è forse questo uno degli aspetti più affascinanti del tema: il sapore è ancora un mistero scientifico.
Un’illusione ben costruita
Ma se il sapore non è localizzato in un organo specifico, dove si forma davvero? Gordon Shepherd, neurobiologo della Yale School of Medicine, ha coniato all’inizio degli anni 2000 il termine “neurogastronomia”, proprio per descrivere il ruolo fondamentale del cervello nella costruzione del sapore. La sua scoperta più rivoluzionaria è che il sapore non esiste nel cibo: come il colore è una percezione derivata dalla luce, così il sapore è una costruzione mentale a partire da segnali chimici.
Tra questi segnali, l’olfatto gioca un ruolo cruciale. La maggior parte delle percezioni che attribuiamo al sapore proviene in realtà dai recettori dell’epitelio olfattivo, la sottile membrana nel naso capace di rilevare molecole odorose. Quando mastichiamo, i composti aromatici si liberano nella bocca e, risalendo attraverso la faringe, raggiungono questi recettori: è il cosiddetto olfatto retronasale. In quel momento, il cervello integra queste informazioni con quelle gustative, creando l’illusione che il sapore nasca nella bocca.
Questo fenomeno è stato definito “illusione di cattura orale”: il cervello attribuisce alla cavità orale sensazioni che hanno origine altrove, come nel naso. L’obiettivo di questa illusione è evolutivo: permettere una valutazione rapida e complessa del cibo, distinguendo ciò che è commestibile da ciò che potrebbe essere tossico.
Sapore e memoria: un legame profondo
La funzione adattativa del sapore emerge in modo evidente nei meccanismi di apprendimento e memoria associati al cibo. Small cita un’esperienza personale: durante un evento festivo, da ragazza, bevve una bibita contenente un liquore al cocco che la fece stare male. Da allora, non è più riuscita a tollerarne il sapore. Tuttavia, non ha sviluppato un’avversione verso i cibi dolci in generale, ma solo verso quella specifica combinazione aromatica. È un classico esempio di “avversione condizionata al sapore”, un processo raffinato attraverso cui il cervello isola e memorizza segnali sensoriali potenzialmente dannosi.
Questo tipo di risposta, altamente selettiva, mostra come il sapore non sia solo una questione di percezione immediata, ma anche un’esperienza profondamente emotiva, legata alla memoria e al comportamento. Ciò che ci piace o ci disgusta non dipende solo dai recettori gustativi, ma da un’intera rete di associazioni e ricordi immagazzinati nel cervello.
I sensi come costruttori di realtà
Le illusioni sensoriali non si limitano al cibo. Guardando un film, ad esempio, percepiamo il suono come se provenisse dalla bocca degli attori, anche se in realtà arriva dagli altoparlanti. Il nostro cervello, per semplificare la realtà, “sincronizza” immagine e suono. Lo stesso accade con il sapore: diversi segnali, provenienti da recettori anche distanti pochi millimetri, vengono fusi in un’unica sensazione coerente.
Secondo Dana Small, è proprio questa capacità di sintesi – imperfetta ma estremamente efficiente – a permettere la costruzione di una percezione del mondo utile alla sopravvivenza. Il sapore, dunque, è una delle tante illusioni che ci aiutano a navigare la realtà, una rappresentazione semplificata ma funzionale di ciò che accade nel nostro corpo e nell’ambiente.
Un’esperienza sensoriale (e culturale)
Riconoscere che il sapore è un prodotto del cervello non ne sminuisce l’importanza. Anzi, aggiunge profondità a una delle esperienze più quotidiane della nostra vita. Mangiare non è solo nutrirsi, ma un atto sensoriale, cognitivo ed emotivo. Le nostre preferenze, le nostre avversioni, persino la nostra identità culturale sono racchiuse nella percezione di un boccone.
E se, come suggeriscono le neuroscienze, ogni sapore è il risultato di una raffinata illusione, allora ogni pasto diventa anche un atto creativo, una narrazione soggettiva che il cervello scrive, istante dopo istante, unendo i dati grezzi dei sensi in un racconto unico.
La fragola non è solo dolce: è la memoria di un’estate, la trama di un tessuto sensoriale, l’eco di un’illusione che – miracolosamente – ha il sapore della verità.
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