Quando l’auto elettrica era una questione di genere

All’inizio del Novecento, il futuro dell’automobile era ancora tutto da scrivere. In un panorama tecnologico in pieno fermento, le auto elettriche si contendevano il mercato con i veicoli a vapore e con quelli a benzina. Quest’ultima era tutt’altro che destinata al successo: nel 1900, solo il 22% delle automobili prodotte negli Stati Uniti era alimentato a combustibile fossile. Il resto si divideva equamente tra le altre due alternative, e molti osservatori dell’epoca vedevano nell’elettrico una soluzione affidabile, pulita e moderna, soprattutto per l’uso urbano.

Ciononostante, sappiamo com’è andata a finire. La benzina ha vinto la sfida, l’elettrico è stato archiviato come una curiosità d’epoca per quasi un secolo, e oggi – ironicamente – lo riscopriamo come frontiera ecologica e simbolo della mobilità del futuro. Ma com’è potuto accadere che una tecnologia promettente sia stata così radicalmente marginalizzata? La risposta, come spesso accade, non risiede solo nei limiti tecnici, ma anche nei fattori culturali e sociali.

L’auto elettrica guidata da una donna (Fonte Wikipedia)

L’automobile come spazio di genere

A sollevare per la prima volta la questione fu, negli anni ’90, la storica americana Virginia Scharff. Nei suoi studi pionieristici sostenne che l’auto elettrica fosse stata etichettata, fin dagli albori, come “auto da donna”. Un’immagine apparentemente innocua, ma che avrebbe avuto profonde ripercussioni sull’immaginario collettivo e sul destino stesso di quella tecnologia.

Un recente studio basato su pubblicità e dati statistici tra il 1900 e il 1919 ha confermato quella intuizione. È vero: nel primo decennio del Novecento, le auto elettriche non venivano ancora vendute con un marketing esplicitamente femminile. Le prime pubblicità si rivolgevano a professionisti urbani, a padri di famiglia, a uomini d’affari che cercavano affidabilità e pulizia negli spostamenti quotidiani. Le auto a benzina, d’altra parte, erano soggette a guasti frequenti, difficili da avviare, spesso inaffidabili. L’elettrico prometteva un’esperienza silenziosa, comoda, senza manovelle né macchie d’olio.

Ma quando la Ford T – economica, massificata, a benzina – invase il mercato e ne cambiò le regole, i produttori di auto elettriche si trovarono con le spalle al muro. In un contesto sempre più competitivo, cercarono un nuovo target: le donne. Così, nel giro di pochi anni, le campagne pubblicitarie cambiarono tono e destinatari. Negli anni Dieci, oltre il 75% della comunicazione relativa ai veicoli elettrici si rivolgeva al pubblico femminile.

L’invenzione dell’auto “da donna”

L’associazione tra auto elettriche e donne non fu casuale, né frutto di un semplice orientamento di mercato. Rifletteva una visione sociale ben più profonda: quella delle “sfere separate”, in cui uomini e donne vivevano ruoli distinti e complementari. Alla donna spettava la casa, lo spazio privato e protetto; all’uomo, il lavoro, il movimento, l’avventura. In questo schema, l’auto elettrica – facile da guidare, silenziosa, priva di ingranaggi complicati – sembrava la scelta perfetta per signore che dovevano accompagnare i figli a scuola o recarsi a fare la spesa senza dipendere da un autista.

Nel breve periodo, la strategia funzionò. Marchi come Detroit Electric – che produsse oltre 13.000 esemplari – riuscirono a sopravvivere più a lungo dei loro concorrenti, proprio grazie a un’efficace campagna rivolta alle donne dell’alta borghesia urbana. Tuttavia, quella scelta si rivelò presto un boomerang.

Quando la benzina imparò dal femminile

Nel 1912, Charles Kettering inventò il motorino d’avviamento elettrico, eliminando una delle principali barriere pratiche delle auto a benzina: la manovella. Inizialmente considerato un accessorio “effeminato”, il nuovo sistema si affermò rapidamente grazie alla sua utilità. Nel 1919, fu installato di serie anche sulla Ford T, rendendo le auto a combustione molto più accessibili anche al pubblico femminile.

Ma le auto a benzina non si limitarono a questo. Iniziarono a incorporare elementi prima associati all’universo femminile: parabrezza, sedili imbottiti, maggiore comfort. Così facendo, assorbirono il meglio del design elettrico, ma senza farsi carico del bagaglio simbolico. L’auto elettrica, al contrario, restò prigioniera di una narrazione di genere che, con il mutare dei tempi, si fece sempre più anacronistica. Mentre la società evolveva, il marketing dell’elettrico rimaneva ancorato a un immaginario vittoriano, sempre meno attraente.

Quando il genere decide le sorti della tecnologia

Se è vero che il crollo dell’auto elettrica dipese in gran parte dalla mancanza di infrastrutture (la rete elettrica urbana era limitata, le stazioni di ricarica pressoché inesistenti), è altrettanto vero che il legame con un modello di femminilità tradizionale contribuì a renderla culturalmente obsoleta. Anche quando, sul piano economico, l’elettrico sarebbe potuto tornare competitivo – grazie al calo dei prezzi dell’energia – l’idea stessa di “auto da donna” lo penalizzò nell’immaginario collettivo.

Questa vicenda storica mostra come le tecnologie non evolvano solo in base a criteri razionali o di efficienza, ma anche attraverso narrazioni, simboli, stereotipi. Ci ricorda che ridurre una scelta tecnica a una questione di genere può avere conseguenze durature e profonde.

Una lezione per il futuro

Oggi, il contesto è profondamente cambiato. Le donne rappresentano metà dei nuovi acquirenti di automobili negli Stati Uniti. Eppure, persiste una divisione culturale negli atteggiamenti verso la sostenibilità: numerose ricerche indicano che le tecnologie verdi sono percepite come “femminili” e, talvolta, screditate per questo. È paradossale, quindi, che alcuni dei protagonisti attuali dell’industria dell’auto elettrica promuovano una retorica basata sul ritorno alla mascolinità tradizionale.

La storia dell’auto elettrica, con tutte le sue deviazioni e i suoi fallimenti, suggerisce un’altra strada. Dimostra che la neutralità tecnologica è un’illusione, e che innovazione e progresso possono realizzarsi solo se accompagnati da valori di inclusione, accessibilità e democrazia. Perché la mobilità del futuro – come quella del passato – non riguarda solo motori e batterie, ma anche chi siamo e chi vogliamo diventare.


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