Colette: la voce di una scrittrice irriverente che non amava scrivere

Colette, Willy e il cane Toby intorno agli anni Dieci del Novecento (Fonte Wikipedia)

A settant’anni dalla sua scomparsa, Sidonie-Gabrielle Colette torna con forza nel panorama editoriale europeo, libera finalmente da vincoli di copyright. Ma al di là dell’opportunità commerciale, ciò che sorprende è la vitalità della sua voce: ironica, tagliente, moderna. Una scrittura che scavalca epoche e generi per raccontare con impareggiabile acutezza i desideri, le contraddizioni, le insidie dell’identità – soprattutto femminile – in tutte le sue sfumature.

Nata nel 1873 a Saint-Sauveur-en-Puisaye, in Borgogna, e morta nel 1954 a Parigi, Colette ha vissuto – e scritto – ogni stagione del Novecento: dagli ultimi fuochi della Belle Époque alle ferite della guerra, dai palcoscenici del varietà alla solennità dell’Académie Goncourt. Eppure, nessuna etichetta può contenerla: non solo romanziera, ma cronista, attrice, autrice teatrale, pioniera del reportage narrativo. Donna pubblica e insieme riservata, eccentrica e disciplinata, provocatrice e segretamente malinconica.

Nel 2024, la scadenza dei diritti ha innescato un vero e proprio “effetto Colette” nel mondo editoriale italiano: nuove traduzioni, collane dedicate, apparati critici, illustrazioni d’autore. La casa editrice L’Orma ha inaugurato un articolato progetto editoriale – il «Chantier Colette» – che prevede la pubblicazione di dieci titoli entro il 2026, a partire dai classici Gigi e La vagabonda. Le nuove edizioni puntano su traduzioni rigorose ma aggiornate, accompagnate da introduzioni firmate da studiose come Daria Galateria, che sottolinea l’eleganza e l’efficacia di uno stile che predilige il non detto, sfuma i passaggi drammatici, cesella ogni frase come un esercizio di precisione.

La riscoperta attuale non è però un semplice ritorno nostalgico. Colette parla al nostro tempo perché l’ha anticipato. La sua modernità risiede nella libertà formale, nel rifiuto degli stereotipi, nella sensibilità ecologica e sensuale che attraversa ogni pagina. Il suo femminismo non è ideologico ma incarnato, vissuto con naturalezza e orgoglio, in anni in cui l’emancipazione era ancora una provocazione.

Les Hommes du Jour, n. 157, sabato 21 gennaio 1911. Ritratto di Colette di Aristide Delanoy.

La parabola di Colette prende avvio a Parigi nel 1893, quando sposa Henry Gauthier-Villars, detto Willy, editore e autore prolifico quanto discutibile. Fu lui a intuire il talento della giovane moglie e a spingerla a scrivere i primi romanzi – quelli della serie di Claudine, autobiografici e permeati di un erotismo esplicito per l’epoca – che tuttavia pubblicò con il proprio nome. Il successo fu immediato: romanzi, adattamenti teatrali, scandali. Ma alla fama non corrispose il riconoscimento autoriale. Solo dopo il divorzio, Colette poté rivendicare la paternità delle opere.

Fu l’inizio di una lunga autodeterminazione artistica e personale. Lasciato il marito, visse con la marchesa Mathilde de Morny – “Missy” – sfidando apertamente le convenzioni sociali. Celebre il bacio tra le due donne in scena al Moulin Rouge nel 1907: un gesto che suscitò scandalo ma anche affermò pubblicamente una diversa concezione della femminilità. Di quegli anni di libertà, arte e marginalità restano le tracce nei romanzi L’Ingénue libertine e La vagabonda, cronache semi-fictionalizzate della vita tra i teatri e i caffè parigini.

Negli anni successivi Colette seppe reinventarsi ancora. Giornalista per Le Matin, osservatrice del costume, reporter dal fronte interiore dell’animo umano, raccontò con leggerezza solo apparente i grandi temi dell’amore, del desiderio e della perdita. L’incontro con Henri de Jouvenel, secondo marito e padre di sua figlia, segnò un’ulteriore svolta. Negli anni Venti scrisse opere come Sido e La Naissance du jour, in cui abbandona ogni illusione romantica per tornare alle radici: l’infanzia in campagna, l’eredità morale della madre, il culto della natura.

Suo terzo marito fu Maurice Goudeket, che l’accompagnò fino alla morte. Intanto, la sua scrittura evolveva verso una forma breve e penetrante: Le Pur et l’Impur, La Chatte, Duo sono romanzi densissimi sulla gelosia e l’identità, dove l’essenziale diventa stile. Lo conferma anche la traduttrice Maria Laura Vanorio: «Tradurre Colette è come ascoltarla in una stanza piena di voci. Ma alla fine, è la sua che emerge, limpida, distinta, modernissima».

Anche in Gigi, forse il suo testo più popolare, si coglie questa ambiguità tra leggerezza e sguardo lucido. Una quindicenne destinata a diventare mantenuta, ma che riesce a deviare il proprio destino con intelligenza e innocenza. Da quel breve racconto sono nati musical, film, adattamenti teatrali: testimonianza di un immaginario potente e flessibile, capace di attraversare media e generazioni.

Rimane, oggi come allora, la voce limpida e inimitabile di una scrittrice che non amava scrivere – diceva che era un compito gravoso, preferiva piantare alberi – ma che ha saputo farlo come pochi. Un’artista che ha scolpito la parola fino a renderla trasparente, precisa, tagliente. Con ironia, ma anche con compassione. Per l’umano, per il femminile, per la vita. Nel 1954, alla sua morte, Colette fu la prima scrittrice francese a ricevere funerali di Stato. Oggi, più che una commemorazione, la sua rinascita editoriale è un invito alla lettura. Perché Colette, l’irriverente, l’indomabile, non è solo una figura del passato: è una voce del presente. E del futuro.


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