Sessantenni all’arrembaggio (dei ricordi)


Ci sono sessantenni che sembrano usciti da una saga di sopravvivenza urbana. Nessuno li ha interpellati, eppure li trovi ovunque: sui social, nei commenti dei giornali, nei gruppi WhatsApp di famiglia, pronti a raccontarti che la loro infanzia — a differenza della tua — è stata tutta una scalata sull’Himalaya, ma in sandali.

Non sono solo una generazione. Sono un monumento nazionale, una specie protetta che ha attraversato l’infanzia come un campo di battaglia, e l’adolescenza come un corso accelerato per diventare adulti, senza l’aiuto di tutorial o coach motivazionali.

Manuale base per riconoscere un sessantenne DOC

A cinque anni decifrava l’umore della madre dal suono del coperchio della pentola. A sette aveva già le chiavi di casa, istruzioni minime («Scaldati la pasta, non fare disastri») e un senso di responsabilità che oggi farebbe invidia a un amministratore delegato. A nove cucinava la pastina per i fratelli, e a dieci sapeva disinnescare un cane ringhioso con un secchio in testa.

I pomeriggi erano un programma ben orchestrato: campo di calcetto, bicicletta, rientro quando calava il buio. Nel caso contrario incontravano il battipanni che una mamma in pensiero sfogava sul loro sedere. Niente messaggi, niente localizzatori. Eppure, tornavano sempre. Le ginocchia? Una costellazione di croste e cicatrici, mappa vivente delle loro imprese. I cerotti? Solo se c’era sangue. Altrimenti saliva, piantaggine e via andare.

Mangiare? Pane burro e zucchero. Pane e olio. Bevevano dal tubo dell’acqua, con un sistema immunitario che oggi servirebbe come materiale di studio nei laboratori. Le allergie? “Mai sentite nominare”, risponderebbero. E se c’erano, nessuno ci faceva troppo caso.

Questi sopravvissuti sapevano togliere macchie d’erba, sugo, biro, ruggine — perché si usciva di casa “vestiti bene”, anche solo per andare a giocare nel cortile.

Testimoni oculari della preistoria tecnologica

Hanno ascoltato la radio con le valvole, visto la TV in bianco e nero, ballato con i 45 giri, e imparato a riavvolgere una cassetta con una penna Bic. Hanno conosciuto il walkman e abbracciato i CD come fossero miracoli moderni. Quando hanno preso la patente, la vacanza era un’odissea su una 127: niente aria condizionata, niente alberghi, solo una cartina dell’ACI e un panino avvolto nella stagnola. E arrivavano. Sempre. Anche senza GPS o traduttore automatico, bastavano un sorriso e qualche parola in dialetto.

Sono l’ultima generazione cresciuta offline. Nessun Wi-Fi, nessuna app, nessuna ansia da “2% di batteria”. Ricordano il telefono a disco nel corridoio, i compleanni scritti a mano sul calendario della cucina, i quaderni di ricette con le ditate di sugo.

Sanno aggiustare qualsiasi cosa con un pezzetto di scotch, una molletta, un filo di nylon. Con un solo canale TV — poi due — non si annoiavano mai. Sfogliavano l’elenco telefonico come fosse un’enciclopedia, e una chiamata persa era solo una bella intenzione: “Ti ho pensato”.

Supereroi in incognito

Hanno riflessi da ninja metropolitano, cuore d’amianto emotivo e una caramella alla menta sempre in tasca, “per ogni evenienza” — che non si sa mai, magari si incontra la ragazza giusta.

Sono sopravvissuti a un mondo senza seggiolini, senza caschi, senza crema solare. Alle elementari senza LIM, senza tablet, solo un sussidiario e una cartella più grande di loro. Alla giovinezza senza social, senza selfie, senza filtri. Le risposte? Non si cercavano su Google: arrivavano dall’istinto, dall’esperienza, dal provare e sbagliare.

E oggi, mentre noi salviamo i nostri ricordi su cloud a pagamento, loro li custodiscono nella memoria, viva e nitida, come un album che non ha bisogno di backup. Forse è per questo che ci raccontano la loro epoca con tanta insistenza: non per nostalgia, ma per ricordarci che si può vivere anche senza connessione — e che, in fondo, le croste sulle ginocchia sono solo il segno di una libertà mai del tutto perduta.


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