Amazon: dagli esordi come libreria online all’espansione in settori chiave come il Cloud

In occasione dei trent’anni dalla nascita di Amazon, questo articolo ripercorre l’ascesa del colosso dell’e-commerce: dagli esordi come libreria online all’espansione in settori chiave come cloud, intrattenimento, farmaceutica e robotica, fino alle sfide attuali sul piano regolatorio e occupazionale. Una storia emblematica dell’evoluzione del capitalismo digitale.


Era il 16 luglio del 1995 quando un sito spartano, con sfondo grigio e link blu, fece il suo debutto sulla rete. In cima compariva il nome “Amazon”, un portale destinato alla vendita di libri online. All’origine del progetto, diecimila dollari e un’intuizione di Jeff Bezos, ex analista finanziario con una visione tanto ambiziosa quanto pionieristica. A distanza di trent’anni, quella scommessa si è trasformata in una delle aziende più potenti e pervasive del pianeta, con un valore di mercato che supera i 2.000 miliardi di dollari. La parabola di Amazon non ha soltanto rivoluzionato il commercio elettronico: è diventata una metafora del capitalismo digitale contemporaneo, modellando le abitudini di consumo, influenzando il mercato del lavoro, riconfigurando interi settori industriali.

Da libreria online a “negozio di tutto”

Quando nel 1995 il sito andò online, bastarono poche settimane per ricevere ordini da tutti e 50 gli Stati americani e da oltre 45 Paesi nel mondo. L’idea di vendere libri su Internet si rivelò immediatamente vincente. Tuttavia, l’espansione fu rapidissima. Già nel 1997 Amazon venne quotata in borsa al Nasdaq con tre milioni di azioni emesse a 16 dollari ciascuna. In quell’anno l’azienda contava 250 dipendenti e un fatturato di 32 milioni di dollari. Nonostante i dubbi sul modello di business, in particolare dopo lo scoppio della bolla delle dot-com, la fiducia degli investitori non venne meno. Nel 2003 arrivò il primo bilancio annuale in utile. Da allora, il cammino fu inarrestabile.

Oggi Amazon non è più soltanto una libreria virtuale. È diventata l’“everything store”, un supermercato globale in cui si può acquistare di tutto: dai generi alimentari all’elettronica, dall’abbigliamento agli elettrodomestici, dai farmaci alle produzioni cinematografiche. Ma è anche una “everything company”, con ramificazioni nei servizi cloud — che rappresentano oggi il 62% delle sue entrate — nei dispositivi smart (Alexa, Ring), nei contenuti digitali (Prime Video, Amazon Music) e nei negozi fisici, come quelli acquisiti tramite Whole Foods.

The Economist – Mentre Amazon compie 30 anni, tre fattori definiranno il suo prossimo decennio

Le grandi acquisizioni: Whole Foods, PillPack, MGM, iRobot

L’espansione di Amazon non è avvenuta solo per via organica. Nel corso degli anni l’azienda ha messo in atto una strategia aggressiva di acquisizioni mirate. Nel giugno 2017 ha acquisito la catena di supermercati Whole Foods per 13,7 miliardi di dollari, la più grande operazione della sua storia fino a quel momento. Whole Foods, fondata nel 1978, era una realtà affermata nel segmento biologico e contava 460 negozi tra Stati Uniti, Canada e Regno Unito. L’acquisizione ha offerto ad Amazon un importante canale di vendita fisica, consentendo un’inedita integrazione tra commercio digitale e presenza territoriale. Non a caso, già al momento della fusione, Amazon abbassò i prezzi di molti prodotti chiave del marchio.

Nel 2018, l’azienda entrò anche nel settore farmaceutico, acquisendo la farmacia online PillPack, attiva dal 2013 e specializzata nella distribuzione di farmaci su prescrizione. Si trattava di una mossa strategica in un mercato dal valore colossale: 560 miliardi di dollari l’anno solo negli Stati Uniti. Con questa operazione, Amazon consolidava la sua presenza in un altro settore critico, accrescendo la propria influenza su un comparto storicamente dominato da attori tradizionali.

Nel 2021, Amazon fece un ulteriore passo verso l’industria dell’intrattenimento, acquistando lo studio cinematografico Metro-Goldwyn-Mayer per 8,45 miliardi di dollari. Con un catalogo che includeva oltre 4.000 film — tra cui la saga di James Bond — e celebri serie TV come The Handmaid’s Tale, l’operazione serviva a rafforzare l’offerta di Prime Video e a competere direttamente con Netflix, Disney+ e Apple TV+.

Nel 2022, la multinazionale annunciò l’intenzione di acquisire iRobot, produttore dei robot domestici Roomba, per 1,7 miliardi di dollari. Una mossa coerente con la volontà di investire nella “smart home” e nello sviluppo della robotica consumer, sulla scia del progetto Astro.

Cambiamenti ai vertici e sfide regolatorie

A segnare un passaggio simbolico nella storia di Amazon è stato l’annuncio, nel febbraio 2021, dell’addio di Jeff Bezos alla guida operativa dell’azienda. Rimasto presidente esecutivo, ha ceduto il ruolo di CEO ad Andy Jassy, già a capo della divisione cloud AWS. Il cambio al vertice coincideva con una fase di transizione: la pandemia aveva accelerato ulteriormente la centralità di Amazon nella vita quotidiana di milioni di consumatori, ma aveva anche acuito le critiche sul piano etico, fiscale e lavorativo.

Nel gennaio 2023 l’azienda ha annunciato il più grande piano di licenziamenti della sua storia: oltre 18.000 dipendenti, in particolare nelle risorse umane e nei negozi fisici, venivano lasciati a casa. Contemporaneamente, Amazon rallentava gli investimenti in dispositivi come Kindle e Alexa e congelava l’apertura di nuovi centri logistici, nel tentativo di contenere i costi operativi.

Ma non sono soltanto le dinamiche interne a rappresentare una sfida per il colosso di Seattle. Il 6 settembre 2023, la Commissione europea ha designato Amazon come gatekeeper in base al Digital Markets Act, riconoscendo Amazon Marketplace e Amazon Advertising come piattaforme con un potere tale da condizionare in modo significativo l’equilibrio della concorrenza nei mercati digitali. Un’etichetta che implica obblighi normativi più stringenti, a testimonianza dell’impatto sistemico esercitato dall’azienda sull’intero ecosistema economico e tecnologico.

Un nome e una visione

Curiosamente, il nome “Amazon” non fu la prima scelta. In origine, il dominio era registrato come Cadabra, ma l’avvocato di Bezos lo trovava troppo simile a “cadaver”. Seguì una lunga lista di opzioni alternative, tra cui Relentless.com, che ancora oggi reindirizza al sito ufficiale. Alla fine si optò per “Amazon”, evocando il fiume più grande del mondo, a simboleggiare l’idea di una libreria — e poi di un negozio — altrettanto sconfinato.

L’evoluzione di Amazon in tre decenni ha tracciato un paradigma per l’intera economia digitale. Da piccola start-up che vendeva libri da un garage a infrastruttura globale onnipresente, l’azienda incarna la promessa — e le contraddizioni — dell’era dell’e-commerce. Non è soltanto il simbolo di un’epoca, ma una delle forze che l’hanno modellata.


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Le nuove spie della TV: tra identità frammentate, drammi domestici e paranoia globale

Dimenticate James Bond: oggi le spie vivono in serie tv, tra crisi d’identità, drammi familiari e poteri invisibili. In un mondo attraversato da instabilità geopolitiche e disinformazione digitale, lo spionaggio televisivo si rinnova profondamente, abbandonando gli eroi infallibili per personaggi ambigui, vulnerabili e complessi. Le nuove spy story raccontano molto più della guerra tra buoni e cattivi: ci parlano di noi, della nostra ansia, delle nostre identità frammentate.


In un’epoca attraversata da incertezze geopolitiche, crisi d’identità e sospetto diffuso, lo spionaggio televisivo sta vivendo una seconda giovinezza. Se il cinema sembra arrancare – basti pensare al futuro incerto della saga di James Bond, al mezzo passo falso del recente Mission: Impossible o al disastro commerciale di Argylle – è sul piccolo schermo che il genere spionistico ha ritrovato nuova linfa, rinnovandosi nel linguaggio, nei personaggi e nelle tematiche.

Dimenticate l’eleganza senza macchia di 007 e l’infallibilità di Ethan Hunt: le nuove spie delle serie tv sono figure complesse, emotivamente fragili, spesso disfunzionali. Il tradimento non è più solo una questione di Stato, ma investe la sfera privata, intacca i legami familiari, ridefinisce il concetto stesso di identità. Una rivoluzione narrativa che trasforma il genere in un sofisticato specchio del presente.

Il ritorno dello spionaggio seriale

Negli ultimi anni, il panorama delle piattaforme on demand ha registrato un boom di serie spionistiche. Titoli come Mr. & Mrs. Smith (Prime Video), Black Doves (Netflix), Slow Horses (Apple TV+) e The Jackal (Peacock) dimostrano come il genere abbia assunto forme ibride, ironiche, talvolta grottesche. Al successo di nuove produzioni si affianca il ritorno di vecchie glorie: The Night Manager, tratta da John le Carré e trasmessa nel 2016, è stata recentemente rinnovata per una seconda e terza stagione dopo quasi un decennio di silenzio.

La spia, insomma, è tornata protagonista. Ma è cambiata radicalmente. La narrazione non ruota più intorno a una missione da portare a termine, bensì alla complessità del personaggio: le sue ferite interiori, i suoi dilemmi morali, le contraddizioni tra dovere e desiderio. È la crisi dell’eroe a dare spessore alle trame, rendendole meno prevedibili, più ambigue, più umane.

Traditori, doppi giochi e un mondo che non si può decifrare

Il motore segreto del genere resta la paranoia. Un tempo legata alla Guerra Fredda – epoca d’oro per autori come le Carré, Len Deighton o Ian Fleming – oggi assume nuove forme, specchio di un mondo invaso da fake news, deep fake, intelligenze artificiali, avatar digitali e instabilità permanente. Le storie di spie diventano allora allegorie del nostro presente, riflessioni su una realtà in cui la fiducia è un bene raro e le istituzioni, da garante di ordine, si fanno terreno minato.

Lo schema ricorrente è quello dell’agente ingannato dal proprio stesso apparato, costretto a fuggire e a ricostruire la propria identità tra mille insidie. Il traditore non è solo un nemico da combattere, ma una figura ambigua, spesso interna al sistema stesso. La spia, eroe o antieroe, si trova a operare in un mondo senza punti fermi, dove ogni relazione può rivelarsi illusoria, ogni fedeltà un rischio. Serie come Alias, Quantico o The Night Agent hanno spinto al massimo questo meccanismo, giocando con l’idea di verità come costruzione narrativa e inganno istituzionale.

Thriller, ironia e distorsioni grottesche

Accanto alle storie di tensione pura – come The Night Agent, che intreccia attentati alla metropolitana e intrighi alla Casa Bianca – crescono le serie che affrontano lo spionaggio con toni più sarcastici e stranianti. In Slow Horses, Gary Oldman guida una squadra di agenti emarginati e maldestri, figure tragicomiche ma dotate di un’etica tutta loro. La serie non risparmia il lato grottesco delle istituzioni e gioca sul filo del disincanto.

Anche Killing Eve e Black Doves portano avanti un registro ibrido: sofisticatezza estetica, humour nero, protagonisti queer, assassini psicopatici ma seducenti. In queste narrazioni, i confini tra bene e male si fanno labili, i personaggi oscillano tra crudeltà e umanità, tra efferatezza e fragilità. Il pubblico è chiamato a identificarsi con figure moralmente discutibili, come Villanelle (Jodie Comer) o Sam Young (Ben Whishaw), che alternano efferatezze a momenti di intensa vulnerabilità.

Spie, genitori, amanti: i conflitti dell’intimità

Una delle trasformazioni più significative del genere riguarda il piano affettivo. Se in passato l’amore era un diversivo per alleggerire la tensione, oggi è un elemento centrale della narrazione. Le spie non sono più solitarie e infallibili, ma portano sulle spalle mogli, mariti, figli, amanti, ex, amici e complici. Le loro azioni non mettono più a rischio soltanto la sicurezza nazionale, ma anche gli equilibri domestici.

In The Agency, remake statunitense della serie francese Le Bureau, Michael Fassbender è un agente alle prese con una figlia adolescente. In Black Doves, Keira Knightley è una madre e moglie devota, ma anche una spia pronta a tutto per salvare la famiglia. L’intimità entra così nella stanza dei bottoni, e la missione impossibile non è più salvare il mondo, ma trovare un equilibrio tra vita privata e doveri istituzionali.

La psicologia dei personaggi si fa più complessa, le relazioni più stratificate. Come osserva Emily Nussbaum in Mi piace guardare, The Americans – tra le serie più incisive del decennio scorso – “parla della perdita di controllo, che è ciò di cui è fatta l’intimità: essere riconosciuti significa essere in pericolo, ma per essere amati bisogna essere riconosciuti”. La tensione tra identità pubblica e privata, tra inganno e bisogno di verità, è oggi il cuore pulsante delle storie di spionaggio.

Il nuovo volto del potere

Oltre alla metamorfosi dei personaggi, anche i “nemici” hanno cambiato volto. Se in passato la minaccia era lo Stato-nazione rivale, oggi è rappresentata da entità opache, spesso private, con risorse e poteri illimitati. In Killing Eve, l’organizzazione dei 12 resta nell’ombra; in Mr. & Mrs. Smith, i mandanti delle missioni restano sconosciuti. Sono nuove forme di potere – tecnologico, finanziario, algoritmico – a gestire l’informazione e il controllo. Il sospetto si alimenta da solo: a capo delle agenzie spionistiche ci sono Musk? Soros? O forse siamo noi stessi, nel nostro doppio digitale?

Le serie tv colgono e amplificano questa inquietudine. Lo spettatore, chiuso in casa e connesso al mondo, assiste a storie di inganni globali sentendosi dentro la trama. Le spy story diventano metafora della nostra condizione: identità in crisi, sorveglianza pervasiva, difficoltà a distinguere il vero dal falso. La tensione si sublima in intrattenimento, offrendoci una forma di catarsi. Dal divano, tifiamo per gli agenti ribelli, ci illudiamo di riconoscere i meccanismi nascosti del potere, ci sentiamo complici e spettatori.


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Il ballo: un viaggio tra cultura, neuroscienze, e coesione sociale

Studi scientifici recenti confermano ciò che filosofi e antropologi hanno da tempo intuito: il movimento ritmico non solo migliora l’umore e la salute fisica, ma stimola funzioni cognitive complesse, rafforza i legami sociali e affonda le sue radici in un impulso evolutivo profondo. Un viaggio tra scienza, cultura e memoria ancestrale, alla scoperta del potere trasformativo della danza.


Muoversi a ritmo non è solo un atto estetico o sportivo: ballare risponde a un bisogno profondo, radicato nella nostra storia evolutiva, nella nostra biologia e nelle nostre relazioni. La danza è una delle forme espressive più antiche dell’umanità, un linguaggio che precede la parola e che, ancora oggi, continua a esercitare un potere sorprendente sul corpo e sulla mente. A cavallo tra arte, scienza e ritualità collettiva, il gesto danzato si rivela un formidabile strumento di connessione, cura e consapevolezza.

Friedrich Nietzsche, afflitto da emicranie e stati depressivi, trovava nella musica e nella danza una medicina per lo spirito. «Senza la musica la vita sarebbe un errore», scriveva, intuendo ciò che la scienza avrebbe poi dimostrato: il ritmo scuote il sistema nervoso, risveglia il pensiero, guida il movimento. Nel suo taccuino annotava come la danza, anche quando compressa da regole e convenzioni, fosse la forma più diretta della vitalità umana.

A raccogliere quella stessa intuizione, un secolo dopo, è stato il neurologo Oliver Sacks. Nelle corsie del Beth Abraham Hospital di New York, negli anni Sessanta, Sacks assiste a episodi che rasentano il miracolo: pazienti affetti da gravi forme di immobilità, incapaci di compiere gesti quotidiani, che grazie alla musica riescono a muoversi, persino a ballare. Alcuni, come Frances D., ritrovano fluidità nei movimenti appena ascoltano la melodia giusta. «Il Parkinson l’aveva smusicata», scrive Sacks. Eppure, il suono – anche solo immaginato – le restituiva grazia e autonomia.

La scienza del ritmo: il corpo che risponde

Negli ultimi decenni, la danza è diventata oggetto di studio sistematico in ambito neuroscientifico e terapeutico. La ricerca ha mostrato come danzare attivi il cervello in modo esteso e integrato: la corteccia motoria prepara i movimenti, il cervelletto ne affina la precisione, i gangli della base modulano l’azione, mentre le aree coinvolte nelle emozioni e nell’empatia – come l’insula e la corteccia cingolata – contribuiscono a rendere il gesto danzato qualcosa che coinvolge non solo il corpo, ma anche la mente e le relazioni.

Una review pubblicata su Neuroscience and Biobehavioral Reviews ha confermato che la danza attiva simultaneamente funzioni motorie, emotive e sociali, fornendo una chiave di lettura privilegiata sull’integrazione tra corpo e cervello. Secondo Frontiers in Human Neuroscience, questa disciplina offre un campo fertile per comprendere processi cognitivi fondamentali come la creatività, l’empatia e la modulazione affettiva. In particolare, alcuni studi hanno dimostrato che anni di pratica coreutica sono associati a una connettività cerebrale più ricca, e che protocolli terapeutici basati sulla danza possono migliorare il benessere psichico anche in pazienti affetti da schizofrenia.

Tra le applicazioni più note in ambito clinico spicca il tango argentino, utilizzato con successo nella riabilitazione di pazienti parkinsoniani. Il tango è una danza d’improvvisazione, basata sull’ascolto e sul contatto costante tra partner. Studi condotti presso la Washington University di St. Louis hanno mostrato miglioramenti significativi nell’equilibrio, nella postura e nella mobilità funzionale dopo appena venti lezioni. Il suo segreto risiederebbe nella capacità di creare un dialogo motorio che coinvolge anche la dimensione affettiva e relazionale.

Danzare insieme: il cervello sincronizzato

Ballare non è solo movimento, ma anche un’esperienza di risonanza. Chi danza con altri sviluppa una sincronizzazione cerebrale, una sorta di “allineamento neurale” che migliora la comunicazione tra le regioni del cervello. E questo effetto si estende anche a chi osserva. Lo ha dimostrato il progetto Neurolive, guidato dal neuroscienziato Guido Orgs e dal coreografo Matthias Sperling, che ha monitorato l’attività cerebrale del pubblico durante performance di danza contemporanea. I dati, pubblicati su Nature, mostrano come le onde cerebrali degli spettatori si sincronizzino tra loro, come se i cervelli, anche da fermi, partecipassero a un’unica danza collettiva.

Non solo: le onde cerebrali attivate non sono quelle dell’attenzione vigile (alfa), bensì quelle della meditazione profonda (delta), suggerendo che assistere a uno spettacolo di danza sia un’esperienza immersiva, simile a un sogno condiviso.

Il ritmo ci abita: la danza come impulso originario

Il legame tra esseri umani e danza sembra inscritto nel nostro stesso sviluppo. Uno studio ha rilevato che già poche settimane dopo la nascita, i neonati reagiscono ai cambi di ritmo musicale. A pochi mesi, muovono braccia e oggetti in risposta al suono, mentre già a due anni tentano di sincronizzarsi con il partner – umano o artificiale che sia. Tra i sei e gli undici anni, questa capacità, nota come entrainment, si affina progressivamente, ma richiede tempo, pratica e maturazione neuro-motoria per raggiungere la fluidità dell’adulto.

Secondo molti antropologi evoluzionisti, il gesto danzato ha avuto un ruolo chiave nella nostra sopravvivenza: serviva per comunicare intenzioni e stati emotivi prima dell’avvento del linguaggio, rafforzava i legami sociali, segnalava attrattività sessuale. Non a caso, la maggior parte delle danze tradizionali ha un’origine rituale, spesso legata alla coesione del gruppo.

Anche gli animali danzano?

Nel 2009, un pappagallo cacatua di nome Snowball divenne famoso per la sua abilità nel ballare a ritmo dei Backstreet Boys. Gli scienziati hanno verificato che non si trattava di imitazione: Snowball era capace di adattare i suoi movimenti a diversi tempi musicali, anticipandoli e variandoli creativamente. Una dote rara, che sembrerebbe appartenere solo a specie dotate di apprendimento vocale e sociale complesso.

Anche scimpanzé e bonobo mostrano comportamenti simili. Esperimenti condotti in Giappone hanno documentato esemplari che battono mani e piedi in risposta alla musica, mentre studi recenti rivelano che gli scimpanzé selvatici usano alberi e superfici per creare ritmi. Questi pattern percussivi, diversi da individuo a individuo e tramandati socialmente, suggeriscono l’esistenza di microculture sonore, utilizzate per comunicare identità e stati emotivi all’interno del gruppo.

Danza e comunità: la teoria di Dunbar

Tra le teorie più suggestive sul ruolo sociale della danza c’è quella di Robin Dunbar, antropologo e psicologo evoluzionista, celebre per aver identificato il “numero di Dunbar”, ovvero il numero massimo di relazioni sociali stabili che un essere umano può gestire: circa 150. Nei piccoli gruppi di primati, la coesione è garantita dal contatto fisico frequente, ma con l’espansione dei gruppi umani, serviva qualcosa di più rapido ed efficace.

Secondo Dunbar, danza, canto e risata si sono evoluti per rispondere a questo bisogno: amplificare il senso di appartenenza attraverso la condivisione sincronica. Ballare insieme favorisce il rilascio di endorfine, rafforza la fiducia reciproca e crea legami emotivi duraturi. La danza, dunque, sarebbe uno strumento sociale tanto potente quanto invisibile: non produce beni materiali, ma genera coesione, appartenenza e cura. In altre parole, ci ricorda che si può essere in sintonia anche senza parole.


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La Sardegna preistorica conquista l’UNESCO

Le Domus de Janas entrano nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, segnando un traguardo storico per la Sardegna e per l’archeologia europea. Il riconoscimento, conferito nel luglio 2025 a Parigi, valorizza 27 siti funerari ipogei del Neolitico, testimonianza unica della civiltà pre-nuragica dell’isola. Un risultato che premia anni di lavoro scientifico e istituzionale e apre nuove prospettive di valorizzazione culturale, economica e turistica per i territori coinvolti.


Nel cuore della Sardegna, scavate nella roccia millenni fa da mani sapienti e invisibili, le Domus de Janas – letteralmente “case delle fate” – sono finalmente riconosciute come patrimonio dell’umanità. Il 12 luglio 2025, alle ore 17:45, durante la 47ª sessione del Comitato del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO riunito a Parigi, è arrivata la conferma ufficiale: i siti funerari ipogei sardi sono iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale con il titolo “Tradizione funeraria nella Sardegna preistorica: le Domus de Janas”. Un passo decisivo che premia la lunga battaglia culturale e istituzionale per la valorizzazione di una delle più straordinarie eredità archeologiche del Mediterraneo occidentale.

Una civiltà scolpita nella roccia

Le Domus de Janas sono tombe sotterranee risalenti al Neolitico e all’Età del Rame, costruite tra il V e il III millennio a.C. da popolazioni della Sardegna preistorica. Ne esistono oltre 3.500 in tutta l’isola, spesso raggruppate in necropoli nei pressi di villaggi e aree di culto. Il loro nome evoca suggestioni mitologiche, ma dietro la leggenda si cela un patrimonio concreto e articolato, testimone di una civiltà complessa, dotata di una propria visione religiosa, estetica e sociale.

Scavate nella roccia, queste tombe riproducono in scala ridotta le abitazioni dell’epoca, con ambienti multipli e articolati. I soffitti possono essere conici o a doppio spiovente, le pareti sono decorate con motivi simbolici — spirali, zigzag, corna taurine — spesso dipinti con ocra rossa, simbolo del sangue e della rigenerazione. All’interno venivano deposti i corpi dei defunti, accompagnati da offerte e oggetti di uso quotidiano. Le planimetrie complesse e le ricche decorazioni indicano un’organizzazione sociale già strutturata e una concezione rituale della morte, che evolve nel tempo in forme sempre più articolate.

Un sito seriale e diffuso

Il riconoscimento UNESCO riguarda un sito seriale composto da 27 complessi monumentali distribuiti nel centro-nord della Sardegna. Tra i più importanti si segnalano la necropoli di Anghelu Ruju, nei pressi di Alghero, con le sue 38 camere funerarie, quella di Montessu presso Villaperuccio, e il sito di Sant’Andrea Priu, vicino a Bonorva. Ogni complesso offre una testimonianza unica delle pratiche funerarie, delle credenze spirituali e dell’evoluzione sociale delle comunità pre-nuragiche.

Il Comitato UNESCO ha riconosciuto alle Domus de Janas un “Eccezionale Valore Universale”, definendole la più ricca manifestazione di architettura funeraria ipogea del Mediterraneo occidentale. Un’eredità che documenta non solo la raffinatezza tecnica delle popolazioni antiche, ma anche la loro capacità di trasformare lo spazio sacro in un luogo simbolico, destinato a custodire il legame profondo tra vivi e morti.

Un percorso lungo e corale

Il cammino verso il riconoscimento è cominciato nel 2018, su iniziativa del Centro Studi Identità e Memoria (CeSIM), con il Comune di Alghero come capofila. Il dossier di candidatura si è fondato sul criterio III della Convenzione UNESCO del 1972, che valorizza le testimonianze eccezionali di culture scomparse. Il progetto è stato curato dalla professoressa Giuseppa Tanda, una delle massime esperte del tema, e coordinato dall’Ufficio Unesco del Ministero della Cultura, con il supporto della Regione Sardegna, delle Soprintendenze, della Direzione regionale Musei e dei Comuni interessati.

Il lavoro ha richiesto un’intensa attività scientifica, diplomatica e amministrativa, sostenuta anche dalla Rappresentanza italiana presso l’UNESCO e dal Ministero degli Affari Esteri. Un esempio virtuoso di sinergia istituzionale, finalizzata non solo alla tutela, ma anche alla valorizzazione culturale e turistica dei territori coinvolti.

Valore simbolico e opportunità per il futuro

Per la presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde, si tratta di un “traguardo storico” che restituisce dignità internazionale a un patrimonio troppo a lungo sottovalutato. “È il risultato di un impegno corale — ha dichiarato — che rafforza il senso di appartenenza delle comunità locali e apre nuove prospettive in termini di turismo culturale sostenibile, occupazione giovanile e promozione dei territori”.

Un entusiasmo condiviso anche dall’assessora regionale alla Cultura, Ilaria Portas, che ha sottolineato come questo riconoscimento rappresenti il culmine di un percorso iniziato con la presentazione delle Domus de Janas all’Esposizione Universale di Osaka. “Sono un attrattore socioeconomico di valore inestimabile — ha dichiarato — e per questo la Regione ha già previsto un piano di investimenti da 15 milioni di euro per migliorarne l’accessibilità, la sicurezza e la fruibilità”.

Un’identità scolpita nella memoria

L’iscrizione delle Domus de Janas nella lista dei siti UNESCO — il 61° per l’Italia, che mantiene così il primato mondiale — non è solo un traguardo simbolico. È la consacrazione di un’identità antica, profondamente radicata nel territorio e nella memoria collettiva della Sardegna. Un’eredità che oggi si apre al mondo, offrendo una chiave di lettura unica sulla preistoria mediterranea e su quella fase cruciale di passaggio in cui le comunità umane iniziarono a organizzarsi in forme sociali più complesse, a sviluppare una visione rituale della vita e della morte, a trasformare la pietra in cultura.


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Barbie: inclusività, consapevolezza e un microinfusore per l’insulina

Barbie ha il diabete (e anche una missione): perché una bambola con un cerotto rosa può cambiare il gioco


Che la Barbie del nuovo millennio abbia smesso da tempo di occuparsi solo di moda e acconciature è ormai chiaro. Negli anni ha messo da parte il rosa shocking delle passerelle per indossare divise da astronauta, tailleur da manager e stivali da alpinista. Oggi fa un altro passo — piccolo in centimetri, ma enorme in significato — verso la rappresentazione della realtà: nasce la Barbie con diabete di tipo 1, e con lei anche una nuova idea di empatia nel gioco.

Dietro questa novità c’è Mattel, ma non è sola. L’iniziativa nasce infatti dalla collaborazione con Breakthrough T1D, organizzazione internazionale impegnata nella ricerca sul diabete di tipo 1. Il risultato? Una bambola che non solo indossa abiti colorati e accessori coordinati, ma anche un monitor glicemico sul braccio, un cerotto a forma di cuore per tenerlo in posizione, una pompa per insulina in vita e uno smartphone con l’app dedicata al monitoraggio. Tutto rigorosamente declinato in toni Barbie — ma con una funzione educativa tutt’altro che frivola.

Non solo giocattoli: il gioco come strumento di consapevolezza

Il diabete di tipo 1, patologia cronica autoimmune che riguarda circa il 10% dei diabetici, colpisce spesso bambini e adolescenti. Una diagnosi che cambia la quotidianità, fatta di monitoraggi costanti e dosaggi calibrati. Per chi è ancora piccolo, tutto questo può diventare fonte di disagio, senso di diversità, isolamento. È qui che entra in gioco — letteralmente — Barbie.

La nuova bambola non vuole soltanto rappresentare chi convive con la malattia. Vuole normalizzarne la presenza nella vita di tutti, affinché un sensore o una pompa non siano visti come qualcosa di “strano”, ma come parte della varietà del mondo reale. In altre parole, Barbie con T1D non è un gadget per collezionisti o un feticcio medicalizzato: è uno strumento narrativo che aiuta a raccontare, ad accettare, a giocare senza vergogna.

Una linea di bambole con “esperienze” reali

La Barbie con il diabete entra a far parte della linea Fashionistas, la stessa che negli ultimi anni ha portato sul mercato bambole con protesi, in sedia a rotelle, con la vitiligine o i capelli naturali. Una collezione che ha abbandonato l’ideale unico e plastificato degli anni Ottanta per abbracciare una rappresentazione più ampia e autentica delle persone.

In questa logica si inseriscono anche le due edizioni speciali dedicate a volti noti della comunità T1D: la modella Lila Moss, nel Regno Unito, e la star americana del fitness Robin Arzón. “Essere diversi è bello”, afferma Lila, che ricevendo la sua Barbie “con il cerotto identico al mio” ha definito l’esperienza “surreale e speciale”. Per l’Italia, Mattel ha scelto come ambasciatrici la pallavolista e ingegnere Alice Degradi e la modella creativa Prisca Hartmann Gulienetti.

Dal bambolotto al simbolo culturale

La portata dell’iniziativa, a ben vedere, non si esaurisce nel packaging. Come ha raccontato anche il film Barbie di Greta Gerwig, uscito nel 2023, l’evoluzione della bambola non è solo estetica. Se un tempo le bambine giocavano soltanto a fare le mamme con bambolotti rosa e flaccidi, con l’arrivo di Barbie si è aperta un’altra possibilità: immaginarsi mediche, astronaute, giudici della Corte Suprema. E sì, anche pazienti consapevoli.

In questo senso, Barbie ha sempre avuto una missione: insegnare alle bambine che possono essere tutto quello che vogliono — perfino se portano un sensore glicemico. E l’operazione inclusiva che oggi coinvolge una patologia complessa come il diabete non è meno potente di quella che, decenni fa, mostrava che anche una donna poteva indossare un camice o un casco spaziale.

La rivoluzione sta nei dettagli

La Barbie con T1D costa 14,99 euro e ha lo stesso sguardo sicuro delle sue sorelle: niente dramma, niente commiserazione, solo una quotidianità da vivere senza imbarazzo. Ha una gonna a pois blu, richiamo visivo alla campagna globale di sensibilizzazione sul diabete, e una borsetta in tinta per portare medicinali o kit d’emergenza.

E se qualcuno si chiede che senso abbia tutto questo, forse basta pensare a una bambina che riceve in regalo una Barbie “con il cerotto come il mio” — e si sente, finalmente, vista. Oppure a un compagno di classe che impara, giocando, che l’insulina non è una parola spaventosa, ma una parte della vita di milioni di persone.

Barbie, ancora una volta, ci mostra che il futuro non si costruisce solo con sogni e glitter, ma anche con consapevolezza, rappresentazione e un pizzico di coraggio. E magari, sì, anche con un cerotto rosa a forma di cuore.


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L’Arazzo di Bayeux: una narrazione millenaria tra arte, potere e diplomazia

Dopo quasi un millennio, uno dei capolavori più enigmatici e affascinanti del Medioevo lascia la Normandia per essere esposto a Londra. Un prestito storico, che intreccia diplomazia culturale, memoria collettiva e identità europea.


Nel 2026, un evento senza precedenti segnerà il panorama culturale europeo: l’Arazzo di Bayeux, una delle più straordinarie testimonianze artistiche dell’XI secolo, sarà esposto per la prima volta nel Regno Unito, dopo quasi mille anni dalla sua realizzazione. L’accordo di prestito, siglato tra il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro britannico Keir Starmer, prevede che il celebre manufatto venga accolto nella prestigiosa Sainsbury Exhibitions Gallery del British Museum, dove rimarrà in mostra da settembre 2026 a luglio 2027.

In cambio, alcuni dei pezzi più significativi delle collezioni britanniche — tra cui i tesori di Sutton Hoo e gli scacchi di Lewis — saranno temporaneamente trasferiti in Francia, rinsaldando un dialogo culturale bilaterale che, dopo le tensioni seguite alla Brexit, assume un valore tanto simbolico quanto concreto. Il prestito si inserisce in un contesto più ampio: una stagione culturale congiunta che culminerà nel 2027 con la celebrazione dei mille anni dalla nascita di Guglielmo il Conquistatore e con la partenza del Tour de France dal suolo britannico.

Un’opera senza eguali

L’Arazzo di Bayeux è molto più di un ricamo. È una narrazione visiva lunga quasi 70 metri, alta circa 50 centimetri, composta da 58 scene che illustrano, con una chiarezza e un ritmo sorprendenti, gli eventi che portarono alla conquista normanna dell’Inghilterra nel 1066. Dall’elezione di Aroldo come re d’Inghilterra, al suo giuramento a Guglielmo, fino alla battaglia di Hastings e alla sua morte — forse, come da iconografia celebre, trafitto da una freccia all’occhio —, l’arazzo si legge come un fumetto ante litteram, una “graphic novel” medievale che unisce racconto storico e allusione simbolica.

Ma l’interesse per quest’opera non è solo narrativo. Il punto Bayeux, la tecnica di ricamo usata per riempire le superfici, testimonia una perizia artigianale straordinaria. Il supporto è di lino, i filati sono in lana colorata, con decorazioni minime in oro. Nonostante alcuni danni e restauri, l’arazzo è giunto fino a noi in condizioni sorprendenti, tanto da essere definito “un miracolo della conservazione” da Sylvette Lemagnen, una delle sue più autorevoli studiose.

Un enigma tra arte e propaganda

Realizzato probabilmente tra il 1068 e il 1070, l’arazzo sarebbe stato confezionato in Inghilterra, forse nel Kent, da artigiani anglosassoni. La committenza è oggetto di dibattito. La teoria più accreditata lo attribuisce al vescovo Oddone di Bayeux, fratellastro di Guglielmo, che dopo la conquista fu nominato conte di Kent. Ma c’è chi indica in Eustachio II di Boulogne, nobile normanno coinvolto nelle lotte post-conquista, il possibile committente, o chi ipotizza addirittura che i ricamatori anglosassoni abbiano inserito messaggi nascosti nell’opera, attraverso favole e simboli che costellano le bande superiore e inferiore del tessuto.

In ogni caso, l’arazzo ha una chiara valenza politica. Rappresenta la conquista normanna non come atto di forza, ma come esito legittimo di un giuramento infranto da Aroldo. In tal senso, diventa uno strumento di propaganda visiva, che intende convincere i sudditi anglosassoni della legittimità del nuovo ordine.

Storia di una sopravvivenza

Attraverso guerre, rivoluzioni e restauri, l’Arazzo di Bayeux è sopravvissuto per oltre nove secoli. Esposto in varie sedi, ha trovato dal 1983 la sua dimora stabile nel museo di Bayeux, in Normandia. Ma la chiusura dell’edificio per lavori di restauro, prevista nel 2026, ha creato l’occasione perfetta per il suo viaggio in Gran Bretagna.

Non è la prima volta che il Regno Unito tenta di ospitare l’arazzo: già nel 1953, per l’incoronazione di Elisabetta II, e nel 1966, per il novecentenario della battaglia di Hastings, furono avanzate richieste in tal senso. Solo nel 2022 si è raggiunto un accordo formale, poi rimandato per motivi conservativi, vista l’estrema fragilità del tessuto.

Questa volta, dopo approfonditi studi e un progetto condiviso tra istituzioni museali e scientifiche, il trasferimento è stato approvato. Nicholas Cullinan, direttore del British Museum, ha definito l’arrivo dell’arazzo “una delle più straordinarie opportunità espositive della nostra epoca”, sottolineandone l’importanza storica e simbolica: “È un ponte tra due nazioni legate da una storia comune, che ha affascinato generazioni intere.”

Un’opera ancora aperta

Non tutto, però, è arrivato fino a noi. L’arazzo sembra mancare dei metri finali, quelli che probabilmente raffiguravano l’incoronazione di Guglielmo all’abbazia di Westminster, evento che segnò l’inizio della monarchia normanna in Inghilterra. “La fine deve ancora essere scritta”, ha detto Macron durante un discorso ufficiale a Windsor, con chiaro intento poetico e politico.

Un’osservazione che apre uno spiraglio su una verità più ampia: l’Arazzo di Bayeux, pur essendo un oggetto del passato, parla ancora al presente. Ci ricorda quanto la narrazione visiva sia sempre stata uno strumento di potere e quanto l’arte possa ancora essere un medium diplomatico, capace di creare ponti dove i confini si sono irrigiditi.

Tra memoria e futuro

Il ritorno dell’arazzo in terra inglese è dunque molto più di un evento museale. È un gesto culturale carico di significati: rievoca una conquista, restituisce una memoria condivisa, celebra un’identità europea intrecciata. Ed è anche, in qualche modo, un monito: ci invita a guardare alla storia non come a un repertorio di certezze, ma come a un testo in continua riscrittura, dove ogni immagine — proprio come in un ricamo — può cambiare senso a seconda di chi la osserva.

Chi visiterà Londra nel 2026 potrà finalmente ammirare da vicino la cometa di Halley che solca il cielo nel ricamo, l’armata normanna che sbarca sulle coste inglesi, la tensione epica della battaglia, ma anche la sottile ironia delle favole cucite nei margini, come quella della volpe e del corvo, forse allusione ai due contendenti della storia.

L’arte medievale ha ancora molto da dire. E l’Arazzo di Bayeux, a quasi mille anni dalla sua nascita, è qui a ricordarcelo.


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Sessantenni all’arrembaggio (dei ricordi)


Ci sono sessantenni che sembrano usciti da una saga di sopravvivenza urbana. Nessuno li ha interpellati, eppure li trovi ovunque: sui social, nei commenti dei giornali, nei gruppi WhatsApp di famiglia, pronti a raccontarti che la loro infanzia — a differenza della tua — è stata tutta una scalata sull’Himalaya, ma in sandali.

Non sono solo una generazione. Sono un monumento nazionale, una specie protetta che ha attraversato l’infanzia come un campo di battaglia, e l’adolescenza come un corso accelerato per diventare adulti, senza l’aiuto di tutorial o coach motivazionali.

Manuale base per riconoscere un sessantenne DOC

A cinque anni decifrava l’umore della madre dal suono del coperchio della pentola. A sette aveva già le chiavi di casa, istruzioni minime («Scaldati la pasta, non fare disastri») e un senso di responsabilità che oggi farebbe invidia a un amministratore delegato. A nove cucinava la pastina per i fratelli, e a dieci sapeva disinnescare un cane ringhioso con un secchio in testa.

I pomeriggi erano un programma ben orchestrato: campo di calcetto, bicicletta, rientro quando calava il buio. Nel caso contrario incontravano il battipanni che una mamma in pensiero sfogava sul loro sedere. Niente messaggi, niente localizzatori. Eppure, tornavano sempre. Le ginocchia? Una costellazione di croste e cicatrici, mappa vivente delle loro imprese. I cerotti? Solo se c’era sangue. Altrimenti saliva, piantaggine e via andare.

Mangiare? Pane burro e zucchero. Pane e olio. Bevevano dal tubo dell’acqua, con un sistema immunitario che oggi servirebbe come materiale di studio nei laboratori. Le allergie? “Mai sentite nominare”, risponderebbero. E se c’erano, nessuno ci faceva troppo caso.

Questi sopravvissuti sapevano togliere macchie d’erba, sugo, biro, ruggine — perché si usciva di casa “vestiti bene”, anche solo per andare a giocare nel cortile.

Testimoni oculari della preistoria tecnologica

Hanno ascoltato la radio con le valvole, visto la TV in bianco e nero, ballato con i 45 giri, e imparato a riavvolgere una cassetta con una penna Bic. Hanno conosciuto il walkman e abbracciato i CD come fossero miracoli moderni. Quando hanno preso la patente, la vacanza era un’odissea su una 127: niente aria condizionata, niente alberghi, solo una cartina dell’ACI e un panino avvolto nella stagnola. E arrivavano. Sempre. Anche senza GPS o traduttore automatico, bastavano un sorriso e qualche parola in dialetto.

Sono l’ultima generazione cresciuta offline. Nessun Wi-Fi, nessuna app, nessuna ansia da “2% di batteria”. Ricordano il telefono a disco nel corridoio, i compleanni scritti a mano sul calendario della cucina, i quaderni di ricette con le ditate di sugo.

Sanno aggiustare qualsiasi cosa con un pezzetto di scotch, una molletta, un filo di nylon. Con un solo canale TV — poi due — non si annoiavano mai. Sfogliavano l’elenco telefonico come fosse un’enciclopedia, e una chiamata persa era solo una bella intenzione: “Ti ho pensato”.

Supereroi in incognito

Hanno riflessi da ninja metropolitano, cuore d’amianto emotivo e una caramella alla menta sempre in tasca, “per ogni evenienza” — che non si sa mai, magari si incontra la ragazza giusta.

Sono sopravvissuti a un mondo senza seggiolini, senza caschi, senza crema solare. Alle elementari senza LIM, senza tablet, solo un sussidiario e una cartella più grande di loro. Alla giovinezza senza social, senza selfie, senza filtri. Le risposte? Non si cercavano su Google: arrivavano dall’istinto, dall’esperienza, dal provare e sbagliare.

E oggi, mentre noi salviamo i nostri ricordi su cloud a pagamento, loro li custodiscono nella memoria, viva e nitida, come un album che non ha bisogno di backup. Forse è per questo che ci raccontano la loro epoca con tanta insistenza: non per nostalgia, ma per ricordarci che si può vivere anche senza connessione — e che, in fondo, le croste sulle ginocchia sono solo il segno di una libertà mai del tutto perduta.


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Substack, un’editoria parallela, intima e fluida, nata dal web

Da terra di nessuno a rifugio creativo per scrittori in cerca di libertà: la piattaforma Substack sta ridefinendo le regole della narrazione e della pubblicazione, tra newsletter sperimentali, affezionati lettori digitali e qualche ombra non trascurabile. È un’editoria parallela, intima e fluida, nata dal web e sempre più strutturata, che affascina sia le penne emergenti che i grandi nomi della narrativa mondiale.


Nata nel 2017 a San Francisco da un’idea di Chris Best, Hamish McKenzie e Jairaj Sethi, Substack era, inizialmente, solo una piattaforma per newsletter. Oggi è diventata molto di più: uno spazio a metà tra blog, vetrina e social network, in cui scrittori, giornalisti e creativi di ogni tipo pubblicano contenuti direttamente per i propri lettori. I testi non passano da redazioni, editori o algoritmi pubblicitari: arrivano nella casella email degli iscritti e, in molti casi, generano abbonamenti a pagamento. Un modello semplice, ma dirompente, che ha riscritto il rapporto tra autori e pubblico.

Oggi Substack conta 5 milioni di abbonamenti a pagamento. I dieci account di maggiore successo generano complessivamente oltre 40 milioni di dollari l’anno. Eppure, più dei numeri, colpisce il tipo di scrittura che sta fiorendo su questa piattaforma: narrativa d’appendice, saggi autobiografici, autofiction, analisi culturali, reportage, racconti horror, riflessioni diaristiche, contenuti multimediali. Insomma, un ecosistema ibrido e creativo, spesso lontano dai generi canonici dell’editoria tradizionale.

La libertà di raccontare

Uno dei casi più emblematici è quello di Naomi Kanakia, scrittrice americana che ha pubblicato su Substack un racconto di 15.000 parole, poi recensito con entusiasmo dal New Yorker. Il giornalista Peter C. Baker, seguendo la vicenda, ha colto il senso profondo dell’esperienza: leggere quel testo è stato, a suo dire, come “entrare in una puntata trash di un reality”, ma poi lasciarsi trasportare da una narrazione capace di toccare corde profonde, là dove il racconto trova il suo significato autentico.

Kanakia paragona Substack a una “open mic night digitale”, dove ogni autore può testare il proprio lavoro davanti a un pubblico reale, immediato, partecipe. Una dimensione interattiva e affettiva che trasforma la scrittura in un’esperienza condivisa, costruita giorno dopo giorno, newsletter dopo newsletter.

Il vantaggio è duplice: da un lato, l’autore controlla direttamente il contenuto e il rapporto con i lettori; dall’altro, può monetizzare senza mediazioni. Secondo i dati interni alla piattaforma, se almeno il 10% degli iscritti gratuiti si converte in abbonato a pagamento, un autore può raggiungere una sostenibilità economica del proprio lavoro.

Tra Stati Uniti e Italia: la narrativa in diretta

Il successo di Substack ha travalicato l’oceano. In Italia, Paolo Di Paolo – finalista al Premio Strega 2024 – ha scelto la piattaforma per lanciare 1999, un progetto narrativo sperimentale composto da venti newsletter che combinano testo, fotografie, tracce audio, dettagli d’epoca e perfino letture interpretate da attori come Filippo Scotti, già protagonista del film È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino. L’insieme ha il tono del romanzo d’appendice, aggiornato in chiave digitale, dove il lettore ascolta, guarda e legge allo stesso tempo.

Un altro nome di rilievo è quello di Paolo Nori, finalista allo Strega 2025, che prosegue la sua autofiction a puntate con lo stile personalissimo e disincantato che lo ha reso popolare tra gli appassionati della scrittura spezzata e ironica. La sua presenza su Substack è la prosecuzione ideale delle scritture online che già animavano i suoi blog, ma con un pubblico più fedele, attivo e – spesso – pagante.

La crisi dell’editoria e la necessità di reinventarsi

Dietro il boom di Substack c’è però un fenomeno più profondo: la crisi strutturale dell’editoria. Secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori, nei primi quattro mesi del 2025 il mercato del libro ha registrato un calo del 3,6% in valore e del 3,2% in copie vendute rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: quasi un milione di volumi in meno acquistati. Le cause sono molteplici: l’impatto dello smartphone sulla lettura continuativa, l’invecchiamento della popolazione, il declino delle abitudini culturali tradizionali.

Le rilevazioni Istat mostrano che i lettori più assidui sono ancora i giovani tra gli 11 e i 14 anni, in particolare le ragazze. Ma già dopo i 15 anni, il tempo dedicato alla lettura cala bruscamente, fagocitato dallo scrolling infinito di contenuti. In questo scenario, per chi scrive, le alternative si fanno urgenti. E piattaforme come Substack offrono una via d’uscita: un modo per raggiungere direttamente i lettori, fuori dai meccanismi di mercato, dalle promozioni librarie e dalle logiche delle grandi case editrici.

Le luci e le ombre del modello

Non mancano, però, le critiche. Substack è finita al centro delle polemiche per aver ospitato e monetizzato contenuti di estrema destra o figure controverse come Steve Bannon, Joe Rogan e Joseph Mercola, promotore di teorie anti-scientifiche. La piattaforma ha rifiutato di intervenire con misure di censura, sostenendo una linea di libertà d’espressione radicale, ma aprendo al contempo interrogativi etici sulla responsabilità editoriale.

C’è poi il rischio di una polarizzazione del dibattito, simile a quella dei social network: chi ha già un grande seguito guadagna ulteriore visibilità e risorse, mentre gli autori emergenti faticano a farsi notare. Alcuni osservatori hanno sollevato il dubbio che Substack, dietro la facciata indipendente, finisca per replicare le stesse dinamiche di esclusione del sistema editoriale tradizionale.

Una nuova forma di letteratura?

Eppure, nel cuore di questo nuovo paesaggio digitale, qualcosa di autenticamente interessante sta accadendo. Le opere che nascono su Substack sono spesso ibride, fluide, difficili da classificare: racconti lunghi, memoir, saggi brevi, dialoghi con i lettori, riflessioni sul mestiere di scrivere. Sono testi in trasformazione, che si modellano anche in base ai feedback ricevuti, ai gusti del pubblico, alle suggestioni del momento.

Scrittori come Salman Rushdie, Etgar Keret, Rick Moody o Chuck Palahniuk hanno scelto Substack per sperimentare forme nuove, per proporre testi “non ufficiali”, per esplorare senza filtri. La piattaforma è diventata una sorta di zona franca letteraria, in cui coesistono l’autoproduzione, il rapporto diretto con i lettori e una libertà formale rara altrove.

È forse presto per dire se il “prossimo grande romanzo americano” verrà pubblicato su Substack, come suggeriva provocatoriamente un articolo del New Yorker. Ma è certo che oggi, su questa piattaforma, si sta scrivendo una nuova pagina della letteratura contemporanea: una pagina digitale, partecipata, flessibile. E, forse, irrimediabilmente diversa da tutte le precedenti.


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Achille Castiglioni e il gioco del progetto

Alla Fondazione Castiglioni di Milano una mostra lunga un anno racconta la dimensione ludica del design, tra ricordi di famiglia, prototipi d’autore e una collezione di giochi che è anche archivio di idee.


Cosa significa progettare giocando? Alla Fondazione Achille Castiglioni di Milano, la risposta non è solo teorica, ma prende la forma concreta di un viaggio lungo un anno, tra oggetti, disegni, aneddoti e suggestioni che mettono in scena il legame profondo tra invenzione e spirito ludico. La mostra Gioco e Progetto. Progetto è Gioco – visitabile dal 28 maggio 2025 al 27 maggio 2026 – è un’immersione nel cuore più autentico del metodo Castiglioni, fatto di rigore e levità, di intelligenza e sorriso, in cui ogni oggetto racconta una possibilità, ogni gesto creativo diventa occasione per stupirsi.

Il gioco, del resto, è un atto serio. Lo diceva lo stesso Achille, che amava ripetere “Non prendiamoci troppo sul serio” ma che ha sempre affrontato il progetto con una serietà divertita e contagiosa. Un atteggiamento che emerge con chiarezza nella mostra curata da Giovanna Castiglioni – figlia del designer – e allestita da Marco Marzini, dove si intrecciano la ricerca formale e funzionale con la gioia dell’invenzione quotidiana.

Il gioco come metodo, non come passatempo

Il percorso espositivo parte da una premessa semplice ma potente: il gioco non è evasione, è una forma del pensiero progettuale. Come scriveva Huizinga nell’Homo Ludens, è una componente fondamentale dell’evoluzione culturale. Castiglioni ne fa uno strumento critico e creativo, un modo per interrogare la realtà, scomporla e ricomporla con leggerezza e precisione. Ogni progetto, ogni oggetto, nasce da uno “scarto” di senso, da una deviazione, da una scintilla ludica che apre la strada alla funzione.

Proprio per questo, l’esposizione non si limita a documentare, ma cerca di coinvolgere il visitatore in un’esperienza dinamica. Fin dall’ingresso, le illustrazioni dell’architetto Carlo Stanga – disposte come quinte teatrali – accolgono il pubblico in una sorta di teatro delle meraviglie. I suoi disegni reinterpretano gli oggetti iconici di Castiglioni trasformandoli in personaggi giocosi, quasi a introdurre il tono leggero e insieme riflessivo della mostra.

Una Wunderkammer di giochi e invenzioni

Il cuore pulsante dell’allestimento è una grande struttura mobile – definita “caravanserraglio traboccante di vibranti giochi curiosi” – che ospita una straordinaria collezione di giochi raccolti da Achille e successivamente ampliata dai figli. Caleidoscopi, strumenti sonori, oggetti volanti, meccanismi interattivi e, soprattutto, una sorprendente raccolta di trottole: giochi semplici solo in apparenza, ma capaci di incarnare quella doppia natura – accessibile e complessa – che tanto affascinava Castiglioni.

Le trottole, in particolare, assumono qui un ruolo simbolico. Alcune furono regalate da Achille al figlio Carlo, che ha continuato a collezionarle. La trottola è un gioco arcaico, universale, che richiede abilità e precisione, e che nella sua forma essenziale racchiude un’intera grammatica progettuale. Un oggetto piccolo e rotante che suggerisce movimento, equilibrio, trasformazione: concetti chiave anche nella storia del design.

Oggetti anonimi, prototipi memorabili

In un’altra sala, quella dei prototipi, la mostra esplora il legame tra gioco e invenzione attraverso alcuni progetti realizzati da Castiglioni e dai suoi fratelli, nati da intuizioni ludiche come il salto di scala, il disorientamento visivo, l’accumulazione. Sono oggetti pensati per fiere, esposizioni o per il consumo industriale, ma sempre capaci di evocare un sorriso o una sorpresa. Una parte importante dell’esposizione è dedicata proprio agli “oggetti anonimi”, spesso conservati nelle celebri vetrinette della Fondazione, che per la prima volta vengono aperte al pubblico per mostrare il loro “kosmos” nascosto.

La sala dello specchio – già nota ai visitatori per il suo gioco di riflessioni e illusioni – si arricchisce di nuovi significati, diventando uno spazio in cui la raccolta di gadget, giochi e strumenti tecnici racconta una vita spesa a osservare, collezionare e immaginare.

Costruzione in equilibrio di tavoli Leonardo, realizzata per la mostra itinerante “Achille Castiglioni Designer” dal 1984 al 1986. Progetto di A. Castiglioni. Courtesy Fondazione Achille Castiglioni

Un archivio di relazioni e intelligenze affini

Nella sala delle riunioni, infine, si incontrano i “compagni di gioco” di Achille: amici, colleghi, maestri dell’immaginazione come Bruno Munari, Enzo Mari, Charles e Ray Eames, Aoi e Max Huber. Figure che, come lui, hanno saputo trasformare il lavoro progettuale in un gesto poetico e accessibile, capace di parlare a grandi e piccoli, esperti e curiosi.

La mostra si nutre anche di memorie private e racconti familiari. Alcuni giochi in esposizione appartenevano all’infanzia di Giovanna e Carlo, e il percorso si fa anche biografico, offrendo uno sguardo intimo su una casa-laboratorio in cui il confine tra professione e vita quotidiana era costantemente attraversato da slanci creativi. Non a caso, molte delle domande più frequenti durante le visite guidate riguardano proprio il rapporto tra Achille e i suoi figli: “Ma vostro padre giocava con voi? Quali erano i vostri giochi preferiti?”

Un invito a cambiare sguardo

Tutta la mostra è costruita come un dispositivo partecipativo: molti oggetti si possono toccare, attivare, mettere in movimento. Il layout, pensato da Marco Marzini, si sviluppa come un grande emporio ambulante, con pannelli forati e superfici espositive massimizzate. L’obiettivo è far giocare il pubblico, stimolarne la curiosità e proporre un esercizio di “ginnastica mentale”, come lo definisce Giovanna Castiglioni. Il suo approccio alla comunicazione – nelle visite guidate come nelle conferenze – si basa proprio sull’uso del gioco come strumento didattico e progettuale.

Nel corso dell’anno, la mostra sarà accompagnata da workshop, laboratori e conferenze, anche in collaborazione con altre istituzioni museali. L’idea è quella di far vivere l’archivio Castiglioni non come un deposito da conservare, ma come una fucina in continua evoluzione, capace di parlare al presente e di ispirare nuove generazioni di progettisti.

Il progetto come gioco serio

“Che cos’è e a cosa serve?” è la domanda che viene spesso posta ai visitatori, quasi a sfidarli a cambiare prospettiva. La risposta non è mai univoca, e questo è parte del gioco. Perché, in fondo, progettare è esattamente questo: un esercizio di immaginazione, un gioco serio. E visitare la Fondazione Achille Castiglioni, oggi più che mai, significa riscoprire questa attitudine fondamentale. Ritrovare – tra trottole, specchi e marionette – quello sguardo bambino che rende tutto possibile.


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L’ultima stagione del geniale maestro giapponese

Un volume internazionale esplora il tardo Hokusai tra arte, pensiero, tecnica e memoria: il maestro giapponese rivisitato da studiosi di tutto il mondo, oltre la celebre “Grande Onda”


Oltre l’immagine iconica de La grande onda di Kanagawa, oltre il cliché dell’artista ossessionato dal Monte Fuji e il mito dell’artigiano geniale, esiste un Hokusai meno conosciuto, più intimo, riflessivo, radicalmente innovativo. È questo il punto focale della pubblicazione Late Hokusai: Society, Thought, Technique, Legacy, un volume riccamente illustrato e frutto di una collaborazione accademica internazionale, che restituisce al grande maestro dell’ukiyo-e la complessità del suo lungo crepuscolo creativo.

Il libro nasce come naturale prosecuzione del simposio “Late Hokusai: Thought, Technique, Society”, tenutosi al British Museum nel maggio 2017 in occasione della mostra Hokusai: Beyond the Great Wave, ampiamente acclamata da pubblico e critica. L’esposizione, che riuniva opere realizzate tra i 61 e i 90 anni dell’artista, ha rappresentato una rara occasione per osservare da vicino l’ultima e più feconda fase della sua carriera: un arco finale che ha sfidato il tempo, la tecnica e il mercato, e che oggi diventa oggetto di un’indagine corale.

Un progetto editoriale dal respiro globale

Articolato in quattro sezioni tematiche – Società, Pensiero, Tecnica, Eredità – il volume raccoglie saggi di studiosi provenienti da Regno Unito, Europa, Stati Uniti e Giappone. Ognuno di essi affronta il “tardo Hokusai” da prospettive differenti ma complementari, integrando approcci storici, filologici, religiosi, culturali e artistici. Ne emerge un profilo polifonico, lontano dalle semplificazioni della divulgazione popolare, ma ancora capace di stupire per vitalità, sperimentazione e profondità intellettuale.

A fare da filo conduttore è l’idea di un artista che, lungi dal declinare, trova nella vecchiaia una seconda giovinezza creativa. I supporti si moltiplicano – xilografie a colori, dipinti a pennello su carta o seta, disegni e libri illustrati – così come i temi, che spaziano dalla religiosità buddhista all’eredità culturale cinese, dai giochi di scala visuale alle strategie editoriali, fino ai risvolti biografici e familiari della sua produzione.

La grande onda di Kanagawa, dalla serie Trentasei vedute del Monte Fuji, 1830 circa

Hokusai e la società del suo tempo

La prima sezione, dedicata alla Società, si concentra sul contesto culturale ed economico che ha circondato e alimentato l’attività del maestro negli ultimi decenni di vita. I contributi spaziano dalla biografia ricostruita da Tazawa Hiroyoshi, all’analisi della corrispondenza privata con Frank Feltens, fino a uno studio di Alfred Haft sulla mobilità culturale di Hokusai durante il periodo trascorso a Obuse. Un’attenzione particolare è riservata al rapporto con la figlia Ei, conosciuta con lo pseudonimo Ōi, artista a sua volta, di cui Julie Nelson Davis rilegge il ruolo non più come semplice assistente, ma come vera e propria partner intellettuale nello studio.

Non manca l’aspetto commerciale, affrontato da Ellis Tinios in un saggio sull’editore Eirakuya Tōshirō e sulla costruzione del “marchio Hokusai”, dimostrando quanto il maestro fosse perfettamente consapevole della dimensione mercantile dell’arte nel Giappone dell’epoca Edo.

Tra religione, filosofia e iconografia

La seconda parte del volume – Pensiero – esplora le componenti spirituali e intellettuali dell’opera tarda. Lucia Dolce mette in luce l’influenza del buddhismo del Loto e del fervore religioso urbano nella produzione di Hokusai, mentre Janine Anderson Sawada analizza la devozione dell’artista per il Monte Fuji, tema ricorrente e simbolicamente centrale nella sua visione del mondo.

Yamamoto Yoshitaka affronta invece il dialogo visivo e culturale con la Cina attraverso l’analisi dell’Ehon kōkyō, libro illustrato dedicato alla pietà filiale, mentre Angus Lockyer e Yasuhara Akio si addentrano nel mondo fantastico popolato da draghi e creature immaginarie, che costellano l’immaginario visivo di Hokusai e affondano le radici in fonti iconografiche antiche.

Katsushika Hokusai (1760–1849), il maestro taoista Zhou Sheng sale una scala di nuvole fino alla luna, da “Banmotsu ehon daizen”  (Il grande libro illustrato di tutto). Disegno preparatorio, inchiostro su carta, Giappone, anni 1820-1840.

L’arte come disciplina e sperimentazione

La sezione Tecnica raccoglie saggi che restituiscono l’inesausta ricerca formale di Hokusai, capace di attraversare materiali, formati e stili con uno spirito che oggi potremmo definire quasi contemporaneo. Timothy Clark, curatore della mostra e direttore del progetto, apre questa parte con un saggio sulle tecniche pittoriche tardive, invitando a un’osservazione rallentata e consapevole, in grado di cogliere sfumature, ripensamenti, soluzioni formali che testimoniano una straordinaria tensione verso l’eccellenza.

L’artista, pur in un contesto commerciale competitivo e fortemente serializzato, continua a elaborare una grammatica personale, in cui la qualità non è mai sacrificata alla quantità. Anche nei prodotti destinati al mercato di massa, si riconosce quella coerenza stilistica che rende ogni opera di Hokusai immediatamente identificabile e sorprendentemente moderna.

La costruzione di un mito

La quarta sezione, Eredità, è forse la più affascinante. Analizza come, nei 130 anni successivi alla morte dell’artista, si sia costruito – e in parte distorto – il mito di Hokusai. Le sue storie oggi più note derivano non solo dai suoi lavori autentici, ma anche da un flusso ininterrotto di studi, attribuzioni dubbie, falsi, imitazioni e riappropriazioni. Una dinamica ambivalente, che da un lato ha contaminato l’immagine storica del maestro, ma dall’altro ha alimentato l’interesse globale, facendo di Hokusai una figura chiave dell’immaginario artistico mondiale.

Come sottolinea il contributo critico di Elizabeth Lillehoj, pubblicato sulla rivista Impressions della Japanese Art Society of America, questo volume non è solo un compendio di alta erudizione: è uno strumento indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi seriamente alla figura di Hokusai, al di là delle semplificazioni visive. L’eccellenza dell’apparato iconografico, la qualità della stampa e l’accuratezza editoriale fanno di Late Hokusai una pubblicazione di riferimento per studiosi, appassionati e istituzioni museali.

Un nuovo capitolo nella ricezione occidentale

Il progetto editoriale riflette anche un importante cambiamento nel modo in cui l’arte giapponese viene studiata e raccontata in Occidente. Lungi dall’essere una figura esotica da museo, Hokusai emerge qui come autore complesso, stratificato, radicato nel proprio tempo ma capace di dialogare con il nostro presente. L’interdisciplinarietà dei saggi – tra storia dell’arte, religione, studi culturali e filologia – testimonia una crescente apertura delle humanities internazionali alla pluralità delle fonti e dei linguaggi.

In un momento in cui l’editoria specializzata fatica a produrre opere coraggiose, Late Hokusai si impone come una pubblicazione di confine, capace di aggiornare e rilanciare la ricerca su uno degli artisti più amati e studiati del panorama globale. Un’opera che, come le onde di Hokusai, continua a propagarsi nel tempo, portando con sé riflessioni nuove, domande aperte, prospettive ancora da esplorare.


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