Il bicchiere da Martini: geometria della modernità

Nel panorama dei cocktail classici, nessun altro riesce a evocare con tanta forza l’eleganza senza tempo, la raffinatezza e l’immaginario cinematografico quanto il Martini. Dietro la trasparenza tagliente del drink e la silhouette impeccabile del bicchiere, si cela una storia ricca di intrecci tra scienza, medicina, costume e design. Un racconto che attraversa secoli, nazioni e stili di vita, fino a condensarsi in un gesto: il tintinnio sottile di un calice triangolare, impugnato con due dita, tra un brindisi e una battuta di spirito.

L’identità alcolica del Martini affonda le radici nel XVII secolo, quando un professore olandese di medicina, Francois de Boe Sylvius, mise a punto una miscela di alcol di cereali e bacche di ginepro per curare i disturbi renali e purificare il sangue. Era il genever, precursore del moderno gin. Il successo fu immediato: la bevanda non solo era economica e facilmente producibile, ma suscitava un’euforia piacevole. Il suo consumo si diffuse ben oltre le intenzioni terapeutiche, diventando parte integrante della cultura del bere in Europa.

Il secondo ingrediente del Martini, il vermouth, nasce in Italia nel Settecento come infuso di vino bianco, spezie ed erbe medicinali. Il nome stesso – vermouth – deriva dal tedesco wermut, cioè assenzio, pianta utilizzata per combattere i parassiti intestinali. A lungo, il vermouth fu consumato come digestivo, in alternativa all’acqua potabile spesso contaminata. Le prime versioni erano scure, dolci, ricche di aromi: l’attuale formulazione, più secca e chiara, si sarebbe affermata solo nel corso del Novecento.

Il matrimonio tra gin e vermouth diede vita al Martini, un cocktail il cui nome stesso è oggetto di innumerevoli leggende. C’è chi lo attribuisce a Jerry Thomas, pioniere della mixology americana, che avrebbe creato un Martinez per un cercatore d’oro diretto a Martinez, in California. C’è chi indica invece un barista del Knickerbocker Hotel di New York, Martini di Arma di Taggia, che lo avrebbe servito nel 1911 a John D. Rockefeller. C’è infine chi riconduce il nome alla ditta italiana Martini & Rossi, che già nel 1871 esportava il suo vermouth negli Stati Uniti. Tutte ipotesi plausibili, nessuna definitiva.

Se il Martini è diventato una leggenda, è anche grazie al suo contenitore. Il bicchiere da Martini – trasparente, affilato, essenziale – è una delle forme più iconiche del design del Novecento. La sua comparsa ufficiale risale agli anni Venti, in un periodo in cui il gusto estetico si andava rapidamente evolvendo verso linee pulite, minimaliste, geometriche.

Alla base del successo di questo oggetto c’è una precisa esigenza funzionale: i cocktail come il Martini vanno serviti freddi, senza ghiaccio. Lo stelo lungo consente quindi di tenere il bicchiere senza riscaldare il contenuto con il calore della mano. La coppa ampia, che si apre in un angolo netto, avvicina la superficie del liquido al naso, favorendo la percezione degli aromi, soprattutto quelli del gin. I lati inclinati impediscono la separazione dei componenti del drink e sostengono con grazia le classiche guarnizioni: un’oliva verde, una scorza di limone, o uno spiedino da cocktail.

Dal punto di vista estetico, il bicchiere da Martini rappresenta l’incarnazione del modernismo applicato agli oggetti quotidiani. Non a caso, fu formalmente introdotto all’Esposizione di Parigi del 1925 come rielaborazione modernista della coppa da champagne, allora simbolo di raffinatezza e mondanità. La forma, derivata dall’Art Deco, rifletteva le tendenze dell’epoca anche nell’architettura e nell’arredamento: linee spezzate, angoli decisi, funzionalismo elegante.

Esistono versioni più pittoresche sulla nascita del bicchiere, come quella che lo vuole ideato durante il proibizionismo americano per consentire di svuotare velocemente il contenuto in caso di raid della polizia nei bar clandestini. Se pure apocrifa, questa storia contribuisce al fascino misterioso che circonda l’oggetto.

Negli anni Trenta, il bicchiere da Martini si impose nella cultura visiva occidentale. Appariva nei film, sulle riviste patinate, nei salotti dell’alta società tra New York e Hollywood. Con la diffusione dei servizi da cocktail per uso domestico, diventò accessibile anche al ceto medio, incarnando il sogno di una sofisticazione a portata di mano. Gli shaker in acciaio lucido, i cucchiai curvi, i colini, le pinze per olive: tutto contribuiva a creare un immaginario fatto di glamour, ritmo jazz e conversazioni scintillanti.

Attrici come Katharine Hepburn, nei film quanto nella vita reale, seppero farne un accessorio di stile. Il Martini – e con lui il suo bicchiere – entrò nel linguaggio del cinema, diventando emblema di personaggi affascinanti, indipendenti, sofisticati. Divenne il drink preferito di James Bond (“shaken, not stirred”), il protagonista di brunch letterari e il compagno immancabile nei pomeriggi oziosi delle commedie sofisticate.

Oggi, il bicchiere da Martini non ha subito modifiche sostanziali. La sua silhouette è rimasta intatta, riverita da designer, illustratori, registi. Ogni tentativo di aggiornarla si è scontrato con la perfezione di una forma ormai archetipica, capace di coniugare bellezza e funzionalità in un equilibrio che sfida il tempo.

Il Martini non è soltanto un cocktail: è un’icona culturale. È il distillato di una lunga tradizione che unisce l’arte della miscelazione alla storia del design. È un gesto, uno stile, un’immagine sedimentata nell’immaginario collettivo. Ed è soprattutto una prova di come, nella semplicità apparente di un bicchiere e due ingredienti, possa vivere una complessità fatta di storie, invenzioni, influenze e aspirazioni. Una complessità che, proprio come un buon Martini, va gustata lentamente.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Il rosa Pompadour: quando un colore racconta un’epoca

Tra le molte sfumature che hanno colorato la storia dell’arte, poche portano con sé il peso culturale, politico ed estetico del cosiddetto “rosa Pompadour”. A lungo rimasta un enigma nelle botteghe e negli archivi, la composizione chimica di questa tonalità raffinata e inconfondibile è stata recentemente svelata grazie a un’indagine scientifica condotta in occasione della mostra “Boucher e Fragonard alla corte del re”, ospitata fino al 25 maggio 2025 presso la Casa Museo Fondazione Paolo e Carolina Zani, a Cellatica, Brescia.

Il risultato è una scoperta che, seppur tecnica nei presupposti, getta nuova luce su un’intera estetica settecentesca e su una delle figure più influenti dell’Ancien Régime: Madame de Pompadour.

Nato dalla volontà di esaltare il fascino e l’eleganza di Jeanne-Antoinette Poisson – meglio conosciuta come Madame de Pompadour –, il rosa Pompadour non fu soltanto una moda cromatica, ma un autentico simbolo di gusto, stile e influenza culturale. La favorita ufficiale di Luigi XV fu molto più di una figura decorativa della corte: donna colta, stratega politica, mecenate appassionata delle arti, contribuì in modo decisivo all’affermazione del rococò francese.

Tra i molti artisti da lei sostenuti, il più celebre fu François Boucher, che divenne primo pittore del re nel 1765. Fu lui a dare forma pittorica all’estetica Pompadour, prediligendo nei suoi dipinti una gamma di colori morbidi e sensuali, tra cui spiccava una tonalità di rosa pallido, vibrante e cangiante. Questo colore, codificato ufficialmente nel 1757 presso le manifatture di porcellana di Sèvres grazie al chimico Jean Hellot, divenne subito riconoscibile e ricercato, sia nell’arte che nell’arredo, nella moda e nella decorazione.

Rosa Pompadour su un porcellana. Fonte Wikipedia

Una formula svelata tra arte e scienza

La composizione del rosa Pompadour è stata finalmente chiarita attraverso sofisticate indagini diagnostiche condotte da Gianluca Poldi dell’Università di Udine, nell’ambito della mostra organizzata dalla Fondazione Zani. I risultati, presentati nel corso di un incontro intitolato “In leggerezza. Come dipinge Boucher alla luce delle analisi scientifiche”, hanno rivelato una formula sorprendentemente articolata.

Per ottenere quella sfumatura morbida, carnosa e luminosa – così cara alla ritrattistica di Venere, di putti e amorini, e ovviamente della stessa Pompadour – veniva impiegata una miscela di bianco di piombo, vermiglione finemente macinato (ottenuto dal cinabro), lacca carminio estratta dalla cocciniglia e un tocco di pigmento giallo. Una composizione studiata non solo per rendere la tinta più espressiva, ma anche per ottenere variazioni tonali capaci di evocare la fragilità dei petali di rosa e l’incarnato idealizzato della femminilità settecentesca.

La preparazione dei colori, all’epoca, era un procedimento interamente artigianale, affidato a mani esperte all’interno delle botteghe. Nulla era lasciato al caso: ogni materiale veniva selezionato per la sua resa cromatica, la sua stabilità, la sua capacità di assorbire o riflettere la luce. Il rosa Pompadour ne è esempio perfetto: un tono che riesce a fondere la grazia naturale con l’artificio della corte.

Il contesto di questa scoperta non è secondario. La mostra “Boucher e Fragonard. Alla corte del re” è un viaggio immersivo nella cultura visiva della Francia di Luigi XV, attraverso opere provenienti da una delle più importanti collezioni d’arte barocca in Italia. La Casa Museo Fondazione Zani ospita oltre 1.200 opere, tra dipinti, arredi e sculture, che testimoniano lo splendore e la teatralità della vita di corte.

Tra le opere esposte spicca L’Allegoria della Terra, dipinta da Boucher nel 1741 per il castello di Choisy, parte di una serie dedicata ai quattro elementi, commissionata dallo stesso re. Il destino delle altre tre tele – Acqua, Fuoco e Aria – è tuttora ignoto, aggiungendo un alone di mistero al percorso espositivo.

Altro capolavoro in mostra è Venere nella fucina di Vulcano, la più grande opera di Boucher conservata in Italia, dove il dinamismo barocco e la sensualità mitologica trovano un equilibrio visivo di rara potenza. Il dipinto anticipa la versione custodita oggi al Louvre, e costituisce uno dei vertici della produzione dell’artista.

Accanto ai dipinti, il percorso si arricchisce di oggetti d’arte che rafforzano il legame con Madame de Pompadour. Emblematici i due cigni dorati che ornavano la sua toilette all’Hôtel d’Évreux, oggi sede del palazzo dell’Eliseo. Realizzati nel 1755 su disegno di Lazare Duvaux, questi pezzi testimoniano l’attenzione maniacale al dettaglio che permeava ogni aspetto dell’estetica di corte.

Fragonard e la leggerezza narrativa del rococò

Se Boucher rappresenta l’eleganza codificata del potere, Jean Honoré Fragonard incarna il lato più malizioso, narrativo e borghese del rococò. Allievo del maestro, ne proseguì e rinnovò la lezione con una pennellata più sciolta e un gusto marcato per il racconto erotico e aneddotico.

In mostra è esposta Annette a vent’anni, un dipinto appartenuto al visconte Adolphe du Barry, nipote dell’ultima favorita del re, Madame du Barry. L’opera si ispira a un racconto morale dell’illuminista Marmontel, fondendo letteratura e pittura in una scena intima e rivelatrice, emblema dell’universo galante che Fragonard seppe illustrare come pochi.

La rivelazione della formula del rosa Pompadour non è soltanto un dettaglio tecnico, ma un tassello prezioso per comprendere l’universo visivo del Settecento francese. In quel secolo dominato dalla teatralità, dalla grazia e dall’invenzione, ogni elemento era carico di significati. Il colore, in particolare, diventava uno strumento di rappresentazione del potere, della seduzione, della cultura.

Madame de Pompadour riuscì a trasformare un semplice tono cromatico in un segno distintivo del suo stile, tanto da farlo codificare nelle manifatture reali, impiegarlo nei ritratti ufficiali, negli arredi, nella porcellana. Con l’aiuto di artisti come Boucher e Fragonard, rese quel rosa simbolo di un’epoca – tanto lieve nella superficie quanto sofisticata nella sostanza.

A secoli di distanza, il rosa Pompadour continua a parlare. E oggi, grazie alla scienza e all’arte, possiamo ascoltarlo con rinnovata consapevolezza.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

L’insidia dello zucchero: un dolce inganno per la salute

La pagina illustra i pericoli del consumo eccessivo di zucchero nei prodotti alimentari industriali. Lo spunto è offerto da un articolo di Marco Brando sulla rivista Atlante di Treccani.

L’articolo menziona gli effetti negativi sulla salute come diabete, obesità e ipertensione. Spiega anche le ragioni psicologiche e neurologiche alla base del nostro desiderio di zucchero, citando esperti e studi. Il documento evidenzia ulteriormente il ruolo dell’industria alimentare e del marketing nel promuovere il consumo di prodotti malsani e ricchi di zucchero. Infine, suggerisce potenziali soluzioni sia a livello individuale che sociale, sottolineando l’importanza dell’istruzione e delle scelte informate.

L’eccessivo consumo di zucchero, spesso nascosto in molti alimenti insospettabili, sta diventando una seria preoccupazione per la salute pubblica. Le conseguenze di questa iper-assunzione, che spesso avviene senza che ne siamo pienamente consapevoli, sono molteplici e vanno dal diabete all’obesità, dall’ipertensione ad altre patologie correlate.

Il nostro amore per i sapori dolci ha radici profonde. Come spiega la professoressa Simona Bertoli, specialista in nutrizione e obesità, il senso del gusto si sviluppa sin dalla nascita e il primo sapore che sperimentiamo è proprio quello dolce del latte materno. Questa esperienza primordiale crea un legame emotivo con i dolci, associandoli a momenti di gioia e conforto.

Tuttavia, questa preferenza innata viene sfruttata dall’industria alimentare. Uno studio del Max Planck Institute for Metabolism Research di Colonia, in collaborazione con l’Università di Yale, ha dimostrato che il consumo di cibi ricchi di zuccheri (e grassi) stimola il rilascio di dopamina, un neurotrasmettitore che induce una sensazione di piacere. Questo meccanismo crea un circolo vizioso, spingendoci a consumare quantità sempre maggiori di questi alimenti per ottenere la stessa gratificazione.

L’industria alimentare è ben consapevole di questi meccanismi e utilizza sapientemente questi fattori per rendere i propri prodotti sempre più appetibili, spesso a scapito della nostra salute. Come sottolinea ancora la professoressa Bertoli, l’abitudine di consumare quotidianamente bevande zuccherate, ad esempio, comporta l’introduzione di “calorie vuote”, prive di nutrienti essenziali, che favoriscono l’obesità e il diabete.

Il professor Giovanni Ballarini, decano dell’antropologia nutrizionale, in un suo commento, evidenzia un paradosso: mentre la denutrizione e l’obesità sono in aumento, proliferano alimenti che appagano i nostri sensi ma non apportano benefici nutrizionali, se non addirittura dannosi. Questi prodotti, promossi da un’industria che ha sviluppato il concetto del “buono da vendere, buono da mangiare”, vengono prodotti, distribuiti e consumati in grandi quantità, spesso grazie a strategie di marketing mirate.

L’avvento dell’era digitale ha amplificato ulteriormente il potere del marketing alimentare. Social media, food blogger, influencer e campagne pubblicitarie raggiungono un pubblico vasto e variegato, promuovendo cibi e bevande spesso poco salutari.

Come possiamo proteggerci da questa “trappola dolce”? A livello individuale, è fondamentale prestare attenzione alla spesa, limitando il consumo di cibi trasformati e privilegiando alimenti freschi e naturali. A livello statale, è indispensabile promuovere l’educazione alimentare, a partire dalle scuole dell’infanzia fino alle mense aziendali, per fornire ai cittadini gli strumenti necessari per fare scelte alimentari consapevoli. La strada è ancora lunga, ma la consapevolezza e l’informazione corretta sono il primo passo per invertire la tendenza e tutelare la nostra salute.

PER SAPERNE DI PIÙ

Marco Brando – Cibo, l’invasione degli ultrazuccherati
Simona Bertoli – Zuccheri a cosa servono e quando fanno male
Giovanni Ballarini – Buono da vendere, buono da mangiare
Uno studio scientifico del Max Planck Institute for Metabolism Research

Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore magna aliqua. Ut enim ad minim veniam, quis nostrud exercitation ullamco laboris nisi ut aliquip ex ea commodo consequat. Duis aute irure dolor in reprehenderit in voluptate velit esse cillum dolore eu fugiat nulla pariatur. Excepteur sint occaecat cupidatat non proident, sunt in culpa qui officia deserunt mollit anim id est laborum.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Vino dealcolato: una rivoluzione nel bicchiere?

Il vino dealcolato è un nuovo prodotto ottenuto attraverso processi di lavorazione che permettono di rimuovere l’alcol dal vino tradizionale, mantenendone il più possibile le caratteristiche organolettiche, come profumo e sapore.

Si distinguono due categorie principali:
Vino dealcolato: con un contenuto alcolico inferiore allo 0,5%
Vino parzialmente dealcolato: con un contenuto alcolico compreso tra 0,5% e 8,5%

Dopo anni di discussioni e incertezze, l’Italia si è aperta al vino dealcolato. Il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF), con il decreto ministeriale n. 672816, firmato il 20 dicembre 2024, ha recepito il regolamento europeo in materia UE 1308/2013. Con ciò ha autorizzato ufficialmente la produzione e la commercializzazione di vino con contenuto alcolico ridotto o nullo, in linea con le normative europee.

Il decreto rappresenta un punto di svolta nel panorama vitivinicolo italiano. Apre nuove prospettive per i produttori e soddisfa le esigenze di un pubblico sempre più vasto e diversificato come quello dei più giovani. La svolta, da affrontare in questi primi mesi del 2025, riguarda anche quei consumatori che scelgono di bere moderatamente, senza astenersi completamente dall’alcol in ottemperanza del nuovo Codice della strada.

Cosa ne pensano i protagonisti? Le associazioni di categoria (Federvini, Ulv, Assoenologi) hanno accolto positivamente la novità, sottolineando le opportunità che essa rappresenta per il settore. La Presidente di Federvini Micaela Pallini ha dichiarato: “La firma del decreto è un risultato significativo per il comparto vitivinicolo italiano, in una cornice normativa che non lasciava molti margini di manovra. Continueremo a lavorare per valorizzare la tradizione e il patrimonio enologico italiano anche attraverso l’introduzione di nuovi prodotti capaci di rispondere alle esigenze di un pubblico, soprattutto internazionale, sempre più attento e diversificato”.

Tutti, soddisfatti e concordi, sono perciò pronti a ridurre parzialmente o totalmente il tenore alcolico dei vini, ottenendo così un prodotto del tutto nuovo la cui componente alcolica, secondo la norma, va da 0 a 0,5% (dealcolati), e da 0,5% a 8,5% (parzialmente dealcolati). Sono, per fortuna, esclusi dal procedimento i vini Igt, Doc e Docg. Gli amanti del buon vino dovrebbero dormire, quindi, su sette cuscini.

Battute di spirito a parte, per la verità, Il vino dealcolato rappresenta una spinta alternativa al mercato tradizionale. Superato il vuoto normativo, si può fare di necessità virtù. Questo perché l’Italia è la culla della dieta mediterranea. Occorre sempre ricordarlo. La possibilità di produrre e vendere vino analcolico in Italia e all’estero è utile per perseguire le trasformazioni del mercato globale del vino.

Ma in cosa consiste il vino senza alcol? La produzione avviene mediante diverse tecniche, le quali permettono all’alcol di evaporare a basse temperature preservando, tuttavia, le sue caratteristiche organolettiche (profumo e sapore). Viene assicurato che, alla fine della lavorazione, il vino ottenuto avrà ancora il sapore di vino. Gli scettici, che non mancano mai, commentano sarcasticamente che finiranno col chiudere i battenti anche le enoteche e che ci convertiremo al latte e alla birra, come facevano i popoli nordici nel medioevo. Una nuova sfida da affrontare al Sud, dove il buon vino è stato sin dall’antichità il punto forte di quei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo.


Le donne rivendicano: “C’è una strega in ognuna di noi”

La figura storica della “strega” è oggi reinterpretata in chiave moderna.

Sul tema la grande diffusione di libri, serie televisive, film, ma anche social media, ha contribuito alla reinterpretazione della “strega” e alla sua rinata popolarità. La cultura popolare ha promosso l’idea che “c’è una strega in ognuna di noi”, offrendo a milioni di donne e ragazze un modello che si è evoluto negli anni. Oggi l’appellativo viene rivendicato da molte donne come sinonimo di persona ribelle, sessualmente libera, potente, scomoda.

Con Halloween le streghe riaffiorano insieme ad altre figure spaventose evocate per l’occasione. Ma di streghe oramai non si parla solo alla sera di festa che precede il 1° novembre, dal momento che sia la figura storica, sia quella folclorica della “strega”, sono sempre più reinterpretate in una chiave moderna. Le streghe sono, infatti, sempre più connesse con i movimenti femministi oppure associate a rivendicazioni politiche, fungendo da metafora della condizione femminile soggetta all’egemonia patriarcale. Pertanto, a differenza di zucche, zombie e altri poltergeist, le streghe – presentate come donne perseguitate solo per il fatto di essere donne – sono divenute un tema ricorrente nel dibattito pubblico. Gli storici di professione, al contrario, tendono a evitare generalizzazioni sull’argomento, pur riconoscendo le motivazioni misogine delle accuse e la realtà delle numerose donne perseguitate e uccise per stregoneria.

Quindi, di cosa parliamo quando ci riferiamo a “streghe”? Per rispondere, è necessario considerare tre aspetti distinti ma complementari.

  • In primo luogo, la reale persecuzione degli individui accusati di stregoneria.
  • In secondo luogo, la dimensione simbolica della stregoneria, intesa come un costrutto culturale sviluppato nel corso dei secoli e ancora rilevante oggi.
  • In terzo luogo, il fenomeno contemporaneo di persone che si identificano come “streghe”, in particolare seguaci di movimenti neopagani.

I primi processi per stregoneria appaiono nelle fonti storiche all’inizio del XIII secolo, specialmente nell’Italia settentrionale. Divennero più frequenti con il cambiamento di percezione della Chiesa, che avviò un grande progetto per combattere tutte le eresie, in un contesto di crisi politica e affermazione del potere papale. Venne istituita l’Inquisizione. In questo paradigma, la stregoneria implicava un patto con il diavolo e l’invocazione dei demoni, e gli accusati affrontavano la punizione riservata agli eretici: il rogo.

Un momento chiave fu la promulgazione della bolla papale “Super illius specula” da parte di Papa Giovanni XXII nel 1326, che vedeva la stregoneria come una minaccia per la società cristiana. Anche le autorità secolari parteciparono alla repressione. I processi divennero più frequenti fino alla fine del XV secolo.

Mentre nel Medioevo uomini e donne erano colpiti in egual misura, tra il 1560 e il 1750 l’80-85% dei perseguiti erano donne. Tale cambiamento può essere compreso esaminando il concetto di Sabba, costruito nel XV secolo, che inizialmente includeva entrambi i sessi. Questo perché stereotipi contro le donne emersero rapidamente, con l’idea di una presunta debolezza si credette che fossero più suscettibili al diavolo rispetto agli uomini.

Diversi sviluppi, in età moderna, portarono alla fine dei processi e alla depenalizzazione della stregoneria, come l’editto del Parlamento di Parigi del 1682 e il Witchcraft Act del 1736. Dopo la depenalizzazione, il fenomeno divenne oggetto di studio e interesse. Jules Michelet, in “Satanismo e stregoneria” (1862), contribuì significativamente alla riabilitazione del personaggio della strega, sottolineandone la dimensione simbolica e mitica. Alcuni autori, come i fratelli Grimm, esplorarono le connessioni tra stregoneria e antiche credenze pagane.

A cavallo del XX secolo, Alphonse Montague Summers sostenne che le streghe facevano parte di un’organizzazione segreta ostile alla Chiesa e allo Stato, perseguendo culti pagani antecedenti al cristianesimo. Margaret Alice Murray avanzò nuove e controverse interpretazioni della stregoneria come culto pagano. Le sue teorie influenzarono movimenti neopagani come la Wicca, iniziata nel Regno Unito da Gerald Gardner.

Alla fine del XIX secolo, durante la prima ondata del femminismo, Matilda Joslyn Gage vedeva le streghe come simboli della scienza repressa dall’autoritarismo religioso. Nel movimento di liberazione delle donne, le idee di Murray ispirarono il Movimento di liberazione delle streghe, che generò numerosi gruppi femministi negli Stati Uniti. Questi cercarono di riabilitare il termine “strega” come simbolo di resistenza femminile.

Scrittrici come Barbara Ehrenreich e Deirdre English proposero teorie sulle persecuzioni basate sulla minaccia che la conoscenza delle donne rappresentava per l’establishment medico maschile, anche se non vi è prova di una correlazione diretta. In Italia, movimenti attivisti presero ispirazione dalla visione di Michelet, utilizzando lo slogan “Tremate, tremate, le streghe sono tornate”.

Secondo studiose come Leopoldina Fortunati e Silvia Federici, la nascita del capitalismo comportò l’espropriazione sistematica delle donne da parte degli uomini. Françoise d’Eaubonne considerava la caccia alle streghe come una “guerra secolare contro le donne”. La figura della strega è diventata un simbolo dell’emancipazione femminile, riflettendo preoccupazioni politiche, sociali e culturali contemporanee.


Le giovani donne fuggono dalla religione organizzata. Era prevedibile.

La stagione delle streghe: perché le donne abbracciano il paganesimo?

Le streghe sono tornate. Perché?

Come la TV si è innamorata delle donne selvagge della magia

Le giovani donne gravitano verso la stregoneria moderna sui social media

Tremate, tremate le streghe sono tornate… di moda!


Gio Ponti – In mostra a Faenza l’architetto che ha valorizzato l’Italia al lavoro

«Gli italiani sono nati per costruire. Costruire è carattere della loro razza, forma della loro mente, vocazione ed impegno del loro destino, espressione della loro esistenza, segno supremo ed immortale della loro storia».
Gio Ponti, Vocazione architettonica degli italiani, 1940

Il MIC Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza continua il suo programma di valorizzazione delle personalità e delle grandi manifatture che hanno contribuito al Made in Italy ceramico. Dopo Lenci e Chini, è il turno di Gio Ponti.

Gio Ponti è stato uno dei principali promotori del Made in Italy fin dagli anni Venti, quando, come direttore artistico della Richard Ginori, ha avviato un rinnovamento della produzione. La mostra “Gio Ponti. Ceramiche 1922-1967”, curata da Stefania Cretella e ospitata al MIC Faenza che si concluderà il 13 ottobre 2024, celebra la figura di questo architetto, designer e intellettuale, punto di riferimento per la creazione di uno stile italiano nelle arti decorative.

Durante la sua lunga carriera, oltre alla Richard Ginori, Ponti ha collaborato con diverse realtà ceramiche italiane, tra cui la Cooperativa Ceramiche di Imola, Pietro Melandri e il contesto faentino (notevoli le cartepeste realizzate con i Dalmonte), le Ceramiche Pozzi, Joo e Gabbianelli. Queste collaborazioni hanno dato vita a progetti unici e straordinariamente attuali. Ponti è stato al centro del dibattito culturale italiano e della definizione del razionalismo italiano, collaborando con critici come Ugo Ojetti ed Edoardo Persico, e lavorando con Luigi Fontana e Giovanni Gariboldi, suo successore alla Richard Ginori.

Ponti è stato anche protagonista delle Biennali di Monza, dove ha presentato le novità introdotte nel repertorio della Richard-Ginori e i risultati delle sue sperimentazioni, condivise con altri architetti milanesi coinvolti nei progetti del Labirinto e della Domus Nova per La Rinascente a Milano.

Le esposizioni sono state una costante nella carriera di Ponti, che ha partecipato attivamente con i suoi progetti e come membro dei comitati organizzatori. Ha collaborato con le Triennali di Milano ed è stato protagonista di eventi come “Italy at Work. Her Renaissance in Design Today”, una mostra itinerante negli Stati Uniti tra il 1950 e il 1951, e “Italia ’61”, organizzata a Torino per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia.

Ponti ha fondato due riviste fondamentali per il design e l’alto artigianato artistico, Domus e Stile, che hanno promosso le arti destinate all’arredo domestico e diffuso il linguaggio moderno. Queste idee hanno trovato coronamento nella progettazione e costruzione del Grattacielo Pirelli a Milano (1956-60), capolavoro del razionalismo italiano e simbolo della modernità nel dopoguerra in Italia.

Il film “Amare Gio Ponti”, diretto da Francesca Molteni e prodotto da Muse Factory of Projects in collaborazione con Gio Ponti Archives e promosso da Molteni&C, documenta il ricco e vario percorso dell’illustre architetto.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Boldini esalta il suo ego ritraendo insieme le sue due amanti in “Conversazione al caffè”

Giovanni Boldini, Conversazione al caffè, 1879 ca., olio su tavola. Collezione privata

Due belle signore in Conversazione al caffè, opera di Giovanni Boldini (Ferrara 1842 – Parigi 1931), pittore che, come pochi, seppe rappresentare la Belle Époque. All’interno del caffè si scorge un gruppo composto da due uomini e una donna. Entrambe le donne, protagoniste del dipinto, sono le uniche persone sedute ai tavolini all’aperto del caffè parigino. A destra è Berthè, la bionda, una giovane timida e riservata che fu la sua prima modella francese, con la quale condivise alloggio, pittura e sentimento. A sinistra l’irruente e disinibita contessa Gabrielle de Rasty, la bruna, la quale lo introdusse nel bel mondo salottiero e con la quale intrecciò una focosa relazione. Gabrielle domina la conversazione e sprigiona uno sguardo che incuriosisce e affascina l’osservatore; Berthè, al contrario, finge disinteresse e, cedendo a un apparente disagio, volge lo sguardo alla sua sinistra, fissando qualcosa fuori campo (per dirla con un linguaggio cinematografico) così da non ascoltare ciò che non vorrebbe udire.

Boldini era noto per la sua capacità di catturare l’essenza della Belle Époque parigina, e questo dipinto ne è un esempio perfetto. «Le donne di Boldini sono nature flessuose e disinibite che mostrano senza reticenza un modello di bellezza erudito e, spogliandosi, affermano la loro autodeterminazione di individui maturi e emancipati, pienamente consapevoli della propria femminilità» (Tiziano Panconi).

Nonostante Boldini non fosse eccessivamente prestante (alto appena un metro e cinquantaquattro) aveva un successo straordinario con le donne. Ma aveva anche amici influenti come il conte Robert de Montesquieu, un dandy che Marcel Proust rappresenterà nella “Recherche” sotto il nome del barone de Charlus de Alla, il «Genio» più alto dell’aristocrazia e dello «spirito Guermantes». Boldini si farà apprezzare nei salotti bene come ritrattista alla moda, soprattutto di belle signore, per la sua tavolozza romantica, con un tocco macchiaiolo che anticipa l’arte impressionista. Noi lo ammiriamo in questa Conversazione al caffè, dove riesce a ritrarre in compagnia due delle sue innumerevoli amiche, nell’atmosfera di una invernale, ma non piovosa, giornata parigina.

LEGGI ANCHE: Berthè la musa indimenticabile di Giovanni Boldini (Da Tiziano Panconi, Boldini Mon Amour, Pacini Editore, Pisa, 2008).


Nel Salento una storia che unisce e poi divide

Un romanzo da leggere assolutamente è quello  di Francesca Giannone ambientato nel Sud d’Italia. Ci stiamo riferendo a “Domani, domani” di Francesca Giannone . È il suo secondo libro dopo l’acclamato romanzo d’esordio “La portalettere”.

“Domani, domani” riporta i lettori nel Salento degli anni ’50, questa volta seguendo le vicende di Lorenzo e Agnese, fratello e sorella che si ritrovano ad affrontare la vendita dell’amato saponificio di famiglia. Lorenzo e Agnese hanno sempre vissuto all’ombra del saponificio di famiglia, un’eredità che il padre ha gestito con dedizione per anni. Tuttavia, i tempi cambiano e l’azienda inizia a vacillare. Con il cuore pesante, il padre decide di vendere l’attività, lasciando i due fratelli ad affrontare un futuro incerto. Mentre Lorenzo cerca di adattarsi alla nuova realtà, Agnese si aggrappa ai ricordi del passato e fatica ad accettare la perdita. Entrambi dovranno fare i conti con i propri sogni e desideri, imparando a trovare la forza dentro di sé per andare avanti.

Come nel suo precedente romanzo, Giannone intesse una storia ricca di intrighi familiari, colpi di scena e descrizioni evocative della sua terra d’origine, il Salento. I temi esplorati includono la perdita, la speranza, l’amore e la forza dei legami familiari.

Domani, domani è stato accolto con recensioni positive dalla critica, che ha elogiato la scrittura di Giannone, la sua capacità di delineare personaggi complessi e la sua rappresentazione autentica del Salento.

Ecco il link dove trovare maggiori informazioni sul romanzo:
Editrice Nord: https://www.editricenord.it/autore/francesca-giannone.html


Villaggio Olimpico di Parigi 2024: polo inclusivo ed eco-sostenibile

Rendering di progetto

Da venerdì 26 luglio 2024 a domenica 11 agosto 2024, in quest’arco di tempo si celebreranno i Giochi della XXXIII Olimpiade, noti sulla stampa internazionale come “Parigi 2024”, a 100 anni esatti dall’ultima volta che la città ha ospitato l’evento. Dal punto di vista organizzativo saranno ospitati circa 10.500 atleti provenienti da oltre 206 paesi. Questo significa che una delle novità più entusiasmanti è che il team culinario del villaggio preparerà ben 40.000 pasti al giorno per gli atleti, con un menu che include 500 ricette da tutto il mondo. Quattro saranno i temi gastronomici prescelti: francese, asiatico, mondiale e afro-caraibico.

Tutto ciò si svolgerà all’interno del Villaggio Olimpico di Parigi 2024, progettato per essere un esempio di sostenibilità, con edifici a basso impatto ambientale e numerose iniziative ecologiche. Proviamo a scorrere velocemente alcuni dei punti salienti:

  1. Edifici a basso impatto ambientale: Gli edifici del villaggio hanno una impronta di carbonio inferiore del 30% rispetto ai progetti di costruzione moderni. Sono progettati per adattarsi ai cambiamenti di temperatura, utilizzando un sistema di raffreddamento a base d’acqua e riscaldamento da una rete geotermica.
  2. Energia rinnovabile: Il villaggio utilizzerà energia geotermica e solare per ridurre l’impatto ambientale. Inoltre, sarà implementata una politica di zero rifiuti e una flotta di veicoli a zero emissioni sarà operativa durante i Giochi.
  3. Economia circolare: Il progetto segue i principi dell’economia circolare, minimizzando la costruzione di nuove infrastrutture e utilizzando edifici esistenti o temporanei.
  4. Alimentazione sostenibile: Saranno offerti pasti a base vegetale per ridurre l’impatto ambientale del cibo.

Questi sforzi mirano a creare un modello di Giochi Olimpici più sostenibile e responsabile, lasciando un’eredità positiva per le future generazioni. Oltre ad essere un luogo di riposo e allenamento per gli atleti, il Villaggio sarà un vero e proprio hub di socializzazione e svago. Al suo interno, infatti, troveranno spazio anche Centri di intrattenimento con cinema, sale giochi e spazi per eventi culturali. Non mancheranno Strutture per il tempo libero come campi sportivi, piscine e aree verdi per relax e socializzazione, come non mancheranno neppure Servizi medici quali ambulatori e centri di fisioterapia per garantire la salute e il benessere degli atleti.

A conclusione dei Giochi, il Villaggio Olimpico si trasformerà in un quartiere ecosostenibile a disposizione della comunità locale. Gli alloggi saranno convertiti in 3500 appartamenti residenziali, mentre le strutture sportive e i centri commerciali diventeranno punti di riferimento per il tempo libero e i servizi del quartiere.

Ne risulterà un quartiere nel quale circa l’80% degli edifici è stato costruito con materiali riciclati o provenienti da filiere locali, a dimostrazione di un impegno concreto verso un futuro più verde. L’attenzione all’ambiente si traduce anche nell’utilizzo di energia rinnovabile, grazie all’installazione di pannelli solari che coprono il 30% del fabbisogno energetico del villaggio.

Il Villaggio Olimpico di Parigi 2024 rappresenta un esempio tangibile di come i grandi eventi sportivi possano coniugare eccellenza competitiva, sostenibilità ambientale e inclusione sociale. Un modello da seguire per future edizioni dei Giochi e per lo sviluppo urbano in generale.

Di seguito alcuni siti web sulle tematiche di riferimento:

  1. Paris 2024: High ambitions for lower-carbon Games – Olympics.com
  2. Eco-Friendly Paris Olympics Initiatives: Sustainable Efforts for a …
  3. Paris 2024, the eco-friendly Olympics – Ville de Paris
  4. Our Legacy and Sustainability plan – Paris 2024 – Olympics.com
  5. Sustainability and Legacy Report – Paris 2024 – Olympics.com

Sito ufficiale di Parigi 2024: https://olympics.com/it/paris-2024