Armani ha celebrato i 50 anni aprendo il suo Archivio: la memoria diventa futuro

Giorgio Armani celebra i cinquant’anni della sua maison con ARMANI/Archivio, un progetto digitale e fisico che raccoglie mezzo secolo di collezioni. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, l’archivio non è solo memoria ma un’eredità viva, capace di dialogare con il presente e proiettarsi nel futuro della moda.

https://archivio.armani.com/it


Venezia, Mostra del Cinema. Tra riflessi lagunari e tappeti rossi, Giorgio Armani ha scelto uno dei palcoscenici più iconici del mondo per svelare un progetto che intreccia moda, cultura e memoria collettiva. Sabato 30 agosto, nel cuore della Biennale del Cinema, lo stilista ha inaugurato ufficialmente ARMANI/Archivio, piattaforma digitale e presto anche spazio fisico che raccoglie oltre mezzo secolo di creatività. Non un semplice database, ma un atlante della modernità che restituisce la coerenza e l’evoluzione di uno stile che ha ridefinito l’eleganza contemporanea.

Un archivio vivo, non una nostalgia

Il nuovo portale, online su archivio.armani.com, mette a disposizione migliaia di look provenienti dalle collezioni uomo e donna dal 1975 a oggi. Tutto il personale del Gruppo Armani potrà esplorare l’intero corpus, mentre il pubblico avrà accesso a una selezione iniziale di 57 look, destinati a crescere con aggiornamenti periodici. A breve, una sede fisica nei pressi di Milano renderà il progetto tangibile: un centro di studio e ricerca che trasforma il concetto di “archivio” in un laboratorio culturale.

Armani rifiuta l’idea di un archivio come reliquia polverosa: preferisce definirlo una living legacy, un’eredità viva che guarda al futuro. I capi storici vengono riportati in vita per dialogare con le nuove generazioni e per ispirare designer, studiosi e appassionati. Dopo Venezia, una selezione di look viaggerà in sette boutique tra Europa, America e Asia – da Milano a Tokyo – segnando il carattere globale del progetto.

Un anniversario diffuso in città

L’Archivio è solo uno dei tasselli delle celebrazioni per i cinquant’anni della maison, fondata nel 1975. Dal 16 al 29 settembre, le vetrine della Rinascente di Milano – il luogo dove Armani mosse i primi passi come vetrinista – diventeranno un tributo alla memoria storica del marchio. Il 24 settembre, la Pinacoteca di Brera ospiterà una mostra con 150 look a confronto con i capolavori della collezione d’arte, un dialogo che suggella l’idea di moda come linguaggio culturale. Infine, la Fashion Week di Milano si chiuderà con la sfilata Giorgio Armani donna primavera/estate 2026 nel cortile di Brera, ribadendo il ruolo centrale dello stilista nel panorama internazionale.

Il filo che unisce Armani e il cinema

Non sorprende che il debutto del progetto avvenga proprio a Venezia. Da “American Gigolo” (1980), con Richard Gere, a “The Untouchables” (1987) di Brian De Palma, Armani ha segnato l’immaginario cinematografico vestendo star e personaggi indimenticabili. Negli anni ha continuato a legare il proprio nome ai red carpet di Hollywood, Cannes e naturalmente della Mostra veneziana, contribuendo a creare icone di stile universali. In questo senso, ARMANI/Archivio è quasi una sceneggiatura della memoria, una pellicola che scorre attraverso giacche destrutturate, abiti fluenti e silhouette senza tempo.

Un atlante estetico e concettuale

Dietro la piattaforma digitale c’è un lavoro meticoloso di conservazione e documentazione. Ogni look è descritto come sintesi di un processo complesso: progettazione, relazione con il corpo, orchestrazione di atmosfere. La chiave di lettura non è solo tecnica ma anche concettuale: l’Archivio diventa un dizionario stilistico, capace di raccontare come Armani abbia superato i codici della moda trasformandoli in linguaggio culturale.

L’idea di heritage qui si libera dall’ombra della nostalgia per diventare motore di innovazione. Non si tratta solo di guardare indietro, ma di rimettere in circolo forme, materiali e silhouette che hanno fatto scuola, restituendo loro vitalità e offrendo ispirazioni per nuove generazioni di creativi.

Giorgio Armani: un maestro in equilibrio tra memoria e avanguardia

Armani, oggi ottantanovenne, è considerato uno dei protagonisti assoluti della moda italiana e mondiale. Insieme a Valentino e Versace, è stato tra i pionieri del prêt-à-porter di lusso e ha contribuito a consolidare l’immagine del Made in Italy come sinonimo di eleganza internazionale. La sua estetica, basata sulla sobrietà, la neutralità dei colori e la celebre giacca destrutturata, ha rivoluzionato il guardaroba maschile e femminile a partire dagli anni Ottanta.

Con ARMANI/Archivio, lo stilista ribadisce una visione che non si accontenta di custodire il passato, ma lo rilancia come risorsa culturale. Venezia diventa così il punto di partenza di un progetto che intreccia memoria, celebrazione e futuro, in linea con la traiettoria di un uomo che ha saputo trasformare lo stile in linguaggio universale.


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La Cappella Sistina si prepara a un nuovo cantiere

I Musei Vaticani hanno annunciato l’avvio di un nuovo cantiere che, sotto la guida del restauratore Paolo Violini, restituirà splendore e sicurezza a uno dei massimi capolavori della storia dell’arte. L’operazione, che si concluderà prima della Pasqua 2026, rappresenta non solo una sfida tecnica, ma anche un impegno simbolico nella tutela di un patrimonio che appartiene all’umanità intera.


A gennaio 2026 prenderà il via un intervento straordinario di manutenzione sul Giudizio Universale di Michelangelo, il colossale affresco che domina la parete d’altare della Cappella Sistina. L’operazione sarà condotta dal Laboratorio di Restauro Dipinti e Materiali Lignei dei Musei Vaticani, sotto la direzione di Paolo Violini, che da agosto ha assunto la guida dell’équipe al posto di Francesca Persegati.

Si tratta di un appuntamento cruciale per la tutela di uno dei massimi capolavori della storia dell’arte, la cui conservazione è messa alla prova dal costante afflusso di milioni di visitatori. Ogni anno, infatti, la Sistina accoglie circa sei milioni di persone, con punte giornaliere di oltre ventimila ingressi: numeri che ne fanno una delle mete più visitate al mondo e che, inevitabilmente, influiscono sul microclima della cappella e dunque sulla tenuta degli affreschi.

Un cantiere monumentale

Il progetto si affiancherà alla manutenzione ordinaria che avviene annualmente grazie a un elevatore meccanico, ma avrà un respiro ben più ampio. Verrà allestito un ponteggio di oltre dieci livelli, capace di ospitare contemporaneamente una decina di restauratori, garantendo un contatto ravvicinato con la superficie dipinta. I lavori dovrebbero concludersi entro marzo, in tempo per restituire l’affresco intatto e visibile durante le celebrazioni pasquali e la Settimana Santa.

L’intervento sarà una prova impegnativa per il nuovo responsabile del laboratorio: un’occasione per ribadire l’impegno del Vaticano non solo nella salvaguardia del proprio patrimonio, ma di un bene culturale universale, riconosciuto dall’UNESCO come parte integrante della memoria collettiva dell’umanità.

Il Laboratorio Dipinti: un secolo di storia

La squadra che si occuperà del cantiere è composta da 26 restauratori vaticani, coadiuvati in alcuni casi da collaboratori esterni. Il Laboratorio Dipinti nasce nel 1923, ma la tradizione della conservazione in Vaticano ha radici ancora più antiche: già nell’Ottocento, la cura delle opere era affidata agli artisti dell’Accademia di San Luca, una delle istituzioni più prestigiose della Roma pontificia.

Nel corso del Novecento, la storia del restauro vaticano è stata segnata da figure di grande rilievo: da Biagio Biagetti, che pose le basi metodologiche moderne, fino a Francesca Persegati, entrata nel 1990 come prima donna restauratrice nei Musei Vaticani e da poco giunta al termine del suo incarico. A caratterizzare questa tradizione è soprattutto la continuità, una trasmissione di conoscenze e pratiche da maestro ad allievo, che ha reso il laboratorio una realtà unica nel panorama internazionale.

Per i restauratori vaticani, l’opera non è soltanto materia: è anche portatrice di un valore immateriale. L’approccio, come sottolinea Violini, è vicino a quello di un medico con il proprio paziente: si osserva, si ascolta, si interviene con cura personalizzata. Una visione che tiene insieme scienza, tecnica e spiritualità, in quanto ogni dipinto sacro custodisce un messaggio cristiano che va tutelato insieme alla sua fisicità.

Dopo Michelangelo, tocca a Raffaello

Il 2026 segnerà anche l’avvio di un altro progetto di rilievo: un restauro quinquennale della Loggia di Raffaello, uno dei complessi decorativi più raffinati del Rinascimento. Realizzata su progetto dell’Urbinate e completata con l’aiuto di collaboratori come Giovanni da Udine, la Loggia si compone di 14 campate ornate da affreschi e stucchi. Le celebri grottesche, ispirate alla pittura parietale romana rinvenuta nella Domus Aurea, hanno esercitato un’influenza determinante sulla decorazione europea del Cinquecento.

Violini definisce questa decorazione un autentico “patrimonio dell’umanità”, per la sua capacità di collegare il Rinascimento con l’antichità classica, generando un linguaggio ornamentale che da Roma si è diffuso fino alle corti di Francia e Spagna. Il restauro, che richiederà anni di lavoro meticoloso, mira a restituire nitidezza ai colori e stabilità ai materiali, senza tradire l’integrità storica dell’opera.

Un’eredità che guarda al futuro

Gli interventi programmati tra il Giudizio Universale e la Loggia di Raffaello rappresentano due poli simbolici della collezione vaticana: da un lato il dramma cosmico dipinto da Michelangelo tra il 1536 e il 1541, espressione della spiritualità tormentata della Controriforma; dall’altro la grazia classica e luminosa del Rinascimento maturo di Raffaello.

In entrambi i casi, la sfida è la stessa: preservare capolavori che appartengono non solo al Vaticano, ma alla storia dell’umanità intera, coniugando il sapere tecnico con un approccio che riconosce il valore immateriale delle opere d’arte. In questo senso, i Musei Vaticani continuano a confermarsi non solo come uno dei luoghi più visitati al mondo, ma come un laboratorio permanente di custodia della memoria collettiva.


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Un violino di Stradivari tra guerra, oblio e rinascita

Secondo una ricercatrice statunitense, il celebre “Petit Mendelssohn”, violino Stradivari sottratto alla famiglia Mendelssohn durante la Seconda guerra mondiale, coinciderebbe con la “Stella”, lo strumento oggi suonato dal violinista giapponese Eijin Nimura. Il musicista, però, respinge questa tesi.


Due fotografie, due epoche lontane, un’unica domanda: il “Petit Mendelssohn”, straordinario violino Stradivari appartenuto all’illustre famiglia del compositore Felix Mendelssohn, e la “Stella”, lo strumento prediletto del violinista giapponese Eijin Nimura, sono in realtà lo stesso esemplare? La tesi è stata avanzata di recente da una ricercatrice statunitense, che ha condotto un’inchiesta minuziosa basata su archivi, immagini e cataloghi di liuteria. Un’ipotesi affascinante e controversa, che riapre una vicenda rimasta sospesa dal secondo conflitto mondiale fino agli anni più recenti.

Due storie che si incrociano

Il Petit Mendelssohn scompare nel 1945, alla fine della guerra, dopo essere stato trafugato da un caveau della Deutsche Bank a Berlino. Di lui rimangono fotografie in bianco e nero risalenti agli anni Venti e Trenta, testimoni di un passato glorioso. La sua sorte sembrava segnata dal silenzio della storia.

La Stella, invece, fa la sua comparsa nel 1995 a Parigi, in un negozio di liuteria di rue de Rome, una delle vie più celebri al mondo per il commercio di strumenti ad arco. Da allora è nelle mani di Eijin Nimura, che lo ha reso protagonista di una carriera internazionale e di numerosi concerti celebrativi, in particolare in Giappone.

Il primo è datato 1709, l’anno d’oro della produzione di Antonio Stradivari, spesso definito l’apice del suo “periodo aureo” (1700-1720), quando il liutaio cremonese raggiunge la perfezione nelle proporzioni e nell’intensità timbrica. Il secondo risalirebbe al 1707, dunque appena due anni prima, e anch’esso catalogato come capolavoro del maestro.

Stradivari, un nome che fa la storia

Antonio Stradivari (1644-1737) è considerato il più grande liutaio di tutti i tempi. Dalla sua bottega uscirono circa 1.100 strumenti, di cui ne sopravvivono oggi poco più di 650, tra violini, viole e violoncelli, ognuno con un nome proprio, spesso legato ai proprietari più illustri o a caratteristiche distintive.

Il Petit Mendelssohn figura nei registri della celebre casa d’aste Tarisio, leader mondiale nella vendita di strumenti ad arco, come uno degli esemplari perduti più ricercati. Il fatto che la “Stella” di Nimura presenti analogie strutturali e storiche ha alimentato i sospetti che si tratti in realtà dello stesso violino, riemerso cinquant’anni dopo la sua scomparsa.

La controversia

Il violinista giapponese ha sempre respinto le ipotesi di un legame tra i due strumenti, insistendo sulla provenienza distinta della sua “Stella”. Tuttavia, secondo la ricerca americana, la coincidenza di date, caratteristiche e passaggi di proprietà non sarebbe casuale.

Il dibattito resta aperto e tocca corde delicate: quelle del saccheggio nazista delle opere d’arte e degli strumenti musicali, che tra il 1933 e il 1945 colpì famiglie ebree e collezionisti in tutta Europa. La famiglia Mendelssohn, discendente del celebre compositore Felix (1809-1847), subì come molte altre la dispersione del proprio patrimonio durante il regime hitleriano.

Un simbolo di memoria

La possibilità che il Petit Mendelssohn sia sopravvissuto e continui a risuonare sotto altro nome non riguarda soltanto la storia della liuteria, ma si intreccia con la memoria della persecuzione e con il destino dei beni culturali trafugati in tempo di guerra.

Il caso solleva inoltre interrogativi sul ruolo dei musicisti contemporanei: fino a che punto è possibile separare la bellezza del suono dall’ombra della provenienza storica di uno strumento? E quanto pesa, nell’immaginario collettivo, il nome di Stradivari come garante di autenticità, rispetto alle verifiche documentarie e scientifiche?

La voce del violino

Se davvero la “Stella” fosse il “Petit Mendelssohn”, il suo percorso diventerebbe un romanzo di sopravvivenza: nato a Cremona nel cuore del Settecento, custodito da una famiglia simbolo della cultura europea, disperso tra le macerie della guerra, riapparso nel cuore di Parigi e riportato sul palcoscenico da un virtuoso dell’Estremo Oriente.

Al di là della disputa, resta il fascino di uno strumento che porta con sé tre secoli di storia. Nel legno levigato, nella vernice e nelle vibrazioni che ancora oggi commuovono gli ascoltatori, c’è la traccia di un patrimonio che unisce arte, musica e memoria.


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Il tesoro nascosto dell’ordinario secondo Virginia Woolf

Virginia Woolf ci ha insegnato che la vita non è fatta solo di momenti straordinari, ma soprattutto di gesti quotidiani che spesso dimentichiamo e che pure custodiscono il vero tesoro dell’esistenza.


C’è un tempo nella vita in cui si cercano esperienze memorabili, quelle che Virginia Woolf definiva momenti dell’essere: istanti di intensità che rimangono scolpiti nella memoria e sembrano dilatare il presente. Cadere in un dirupo tra la neve, trovarsi davanti a un orso in corsa o affrontare la notte persi nella foresta: episodi che, nell’immaginario della scrittrice britannica e di molti lettori del Novecento, rappresentano la vera materia della vita, il suo nucleo narrativo.

Eppure, come Woolf sottolineava già nel suo saggio autobiografico A Sketch of the Past (1939), gran parte dell’esistenza non è fatta di apici, ma di ciò che lei chiamava momenti di non-essere: azioni ripetitive, prive di apparente rilevanza, e proprio per questo facilmente dimenticate. Preparare la cena, piegare i panni, scrivere un biglietto. Un flusso costante di gesti che la memoria tende a cancellare, ma che, osservati con attenzione, custodiscono un diverso tipo di significato.

L’ordinario come materia narrativa

La critica letteraria ha riconosciuto in Woolf una delle prime scrittrici a voler riscattare l’ordinario dall’anonimato. Come ha osservato Liesl Olson, la sua narrativa può essere letta come un tentativo di rappresentare la vita quotidiana nella sua densità, di dare dignità letteraria a ciò che altrimenti “cadrebbe attraverso il setaccio narrativo”.

In A Room of One’s Own (1929), Woolf denunciava il predominio dei “valori maschili” nella cultura: la guerra e lo sport come materia “importante”, i sentimenti domestici relegati all’irrilevanza. Il suo progetto era rovesciare questa gerarchia, mostrando come i piccoli momenti — cucinare, conversare, guardare la luce che cade su un salotto — siano parte integrante dell’esperienza umana.

Non è un caso che molte autrici successive abbiano riconosciuto in Woolf una sorta di “salvatrice del quotidiano”: una voce capace di rendere visibile ciò che la società considerava secondario, soprattutto quando apparteneva all’universo femminile.

Dal femminismo radicale al dibattito odierno

Il tema si intreccia inevitabilmente con le riflessioni sul ruolo delle donne nella società. Nel secondo Novecento, testi come La mistica della femminilità (1963) di Betty Friedan o Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir hanno contribuito a costruire l’idea della casa come prigione e del lavoro domestico come limite alla realizzazione personale. Silvia Federici, nel suo Salario contro il lavoro domestico (1975), arrivò a definire la condizione della casalinga un “destino peggiore della morte”.

Tuttavia, altre voci — come Bell Hooks in Homeplace: A Site of Resistance (1990) o Angela Davis in Donne, razza e classe (1981) — hanno ricordato come lo spazio domestico, per le donne nere o appartenenti a classi sociali più povere, non fosse semplicemente una gabbia, ma un luogo di resistenza e di dignità, nonostante le difficoltà.

Oggi il dibattito continua: da un lato la cultura digitale, con il fenomeno delle tradwives su Instagram e TikTok, che esalta la vita casalinga attraverso immagini levigate e rituali culinari; dall’altro la critica letteraria e giornalistica che sottolinea il rischio di idealizzare, o al contrario demonizzare, la maternità e il lavoro domestico.

La maternità come prova di resistenza

Esperienze personali di madri contemporanee confermano questa tensione: a vent’anni, la ricerca era orientata a vivere l’“eccezionale”, oggi la maternità ha imposto un diverso ritmo, fatto di gesti ripetitivi e impegni apparentemente banali. Allattare, cucinare, cullare: azioni che difficilmente rimarranno scolpite nella memoria come una spedizione tra i ghiacci o una traversata in solitaria, eppure racchiudono un’intensità non meno reale.

Molte donne confessano un certo imbarazzo nell’ammettere di trovare gioia nella vita domestica, quasi fosse un tradimento del femminismo conquistato dalle generazioni precedenti. Ma il punto, forse, non è stabilire una gerarchia tra esperienze straordinarie e ordinarie: è comprendere che entrambe contribuiscono a costruire il senso della vita.

Un tesoro nascosto

Virginia Woolf scriveva nei suoi diari che la vera felicità è “nascosta in cose così comuni che nulla può toccarla”: un viaggio in autobus, una passeggiata, una lettera ricevuta. Non eroismo, ma presenza. Non trascendenza, ma concretezza.

L’idea che il valore della vita non risieda solo negli eventi memorabili, ma nel modo in cui abitiamo i ritmi quotidiani, è tornata centrale anche nelle riflessioni contemporanee. Annie Dillard, nel suo celebre The Writing Life, ricordava che “come trascorriamo le nostre giornate è, ovviamente, come trascorriamo le nostre vite”.

Accettare la ripetizione e l’apparente banalità non significa rassegnarsi: significa riconoscere un altro tipo di intensità. Una maternità vissuta come maratona di resistenza; la cura domestica come gesto che radica nella realtà.

L’oro della vita quotidiana

Se a vent’anni l’orizzonte sembrava aprirsi solo verso la ricerca dell’avventura, oggi, nella maturità, appare chiaro che l’oro della vita è nascosto nella trama minuta delle giornate. Preparare il pane, accudire un figlio, osservare un tramonto: esperienze che non fanno cronaca, ma che danno sostanza alla memoria e fondano il senso del vivere.

L’eroismo di Woolf non era quello del campo di battaglia, ma della cucina, della conversazione, dell’intreccio silenzioso delle vite. Non meno glorioso, semplicemente meno mondano. Ed è lì, nell’ordinario, che si nasconde quel tesoro che, una volta riconosciuto, può rendere la vita più solida, meno esposta ai colpi del destino.


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Marcel Breuer e la rivoluzione moderna della Sedia Wassily

Nel panorama del design del XX secolo, la sedia Wassily resta il simbolo più rappresentativo dell’opera di Marcel Breuer, architetto e designer di origine ungherese, tra le figure chiave della scuola del Bauhaus. Progettata nel 1925, questa seduta rivoluzionaria incarna l’ideale di un arredo moderno, funzionale e bello, pensato per una produzione industriale che sapesse unire estetica e accessibilità.

Originariamente concepita per arredare l’appartamento del pittore Vasilij Kandinskij, allora docente al Bauhaus, la Wassily si distacca con decisione dalle tecniche tradizionali – legno, molle e crine di cavallo – sostituendole con acciaio tubolare e cinghie in pelle Eisengard. Il risultato è una struttura leggera e avvolgente, capace di sostenere il corpo come una poltrona club, ma con una presenza quasi “sospesa” nello spazio.

Secondo alcune testimonianze, Breuer trasse ispirazione dal telaio della sua nuova bicicletta, riconoscendo nel metallo curvato una possibilità espressiva e costruttiva del tutto nuova. La sua intuizione aprì la strada a un linguaggio formale che avrebbe influenzato designer e architetti in tutta Europa.

Il Bauhaus: un laboratorio di modernità

Per comprendere la portata innovativa della Wassily, occorre collocarla nel contesto del Bauhaus, la scuola d’arte, architettura e design fondata da Walter Gropius a Weimar nel 1919. Nato all’indomani della Prima Guerra Mondiale, il Bauhaus incarnava un ideale di ricostruzione culturale e sociale: l’arte e l’artigianato dovevano fondersi con l’industria per dare vita a oggetti funzionali, belli e accessibili a tutti.

L’obiettivo era superare la separazione tra le arti “maggiori” e “minori”, tra progettazione e produzione, in favore di un design totale. Le officine del Bauhaus erano veri laboratori sperimentali: vi si lavorava a tessuti, ceramiche, vetri, tipografia, arredi e architettura, con un approccio interdisciplinare che coinvolgeva figure come Paul Klee, Wassily Kandinskij, László Moholy-Nagy e Josef Albers.

Dal 1925, con il trasferimento a Dessau, la scuola rafforzò il legame con l’industria, collaborando con aziende per produrre arredi e oggetti in serie. In un’Europa segnata da inflazione, disoccupazione e rapidi mutamenti sociali, il Bauhaus vedeva nell’oggetto industriale non solo un bene economico, ma anche un veicolo di riforma sociale: un design razionale avrebbe potuto contribuire a migliorare la qualità della vita di tutti.

Una sedia che traduce un’utopia in oggetto

La Sedia Wassily si inserisce pienamente in questo programma: leggera, igienica, facilmente producibile in serie, rappresentava l’idea che il moderno non dovesse essere un lusso, ma una condizione comune. L’acciaio tubolare, all’epoca una novità per l’arredo, consentiva di ottenere forme snelle e resistenti, e al contempo ridurre i costi di produzione.

Il successo della Wassily non si fermò agli anni Venti. Dopo la fuga di Breuer dalla Germania nazista e il suo approdo negli Stati Uniti, l’arredo conobbe una nuova stagione. Nel dopoguerra, in un clima di rinascita economica e di fiducia nell’industria, l’italiana Gavina la rimise in produzione (1962) e, dal 1968, Knoll la incluse nella propria collezione di “classici”. La sua presenza negli uffici direzionali, pur contribuendo al prestigio dell’oggetto, finì però per allontanarla in parte dalla vocazione originaria di arredo democratico.

Un’eredità che supera le mode

Oggi la Wassily continua a essere prodotta, subendo solo minime variazioni estetiche. Spesso viene erroneamente associata al movimento high-tech degli anni Settanta, ma la sua vera radice affonda nell’utopia sociale del Bauhaus. È il frutto di un’epoca in cui l’arte voleva uscire dai musei e abitare le case, in cui un oggetto di uso quotidiano poteva essere anche un manifesto culturale.

A quasi un secolo dalla sua ideazione, la Wassily resta una delle sedie più riconoscibili e studiate del Novecento: non solo un capolavoro di design, ma la traduzione in forma concreta di un sogno di modernità condivisa.


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Gianni Berengo Gardin: lo sguardo italiano del Novecento

Ha raccontato l’Italia con l’umiltà di un artigiano e la visione di un poeta. Dagli ospedali psichiatrici alle grandi architetture, dai riti popolari al mondo del lavoro: Berengo Gardin ha fissato nella memoria collettiva un intero secolo, attraverso immagini che non hanno mai ceduto all’estetismo, ma solo alla verità.


Gianni Berengo Gardin è stato uno dei maggiori interpreti della fotografia italiana del secondo dopoguerra. Nato a Santa Margherita Ligure il 10 ottobre 1930, ma cresciuto a Venezia, città che ha sempre considerato la sua vera patria affettiva e culturale, ha attraversato oltre settant’anni di storia con una macchina fotografica al collo, restituendo un’immagine limpida, onesta e profonda dell’Italia e del mondo.

La sua avventura fotografica inizia negli anni Cinquanta. In un paese ancora segnato dalle macerie della guerra, Berengo Gardin coglie subito la necessità di documentare la trasformazione sociale in atto: la ricostruzione urbana, le fabbriche, le nuove abitudini quotidiane, il lavoro, ma anche la marginalità, la devianza, l’umanità fragile e dimenticata. La fotografia, per lui, non è mai un esercizio di stile. È uno strumento etico. È racconto. È denuncia.

Nel 1954 pubblica le prime immagini sul settimanale “Il Mondo” diretto da Mario Pannunzio, punto di riferimento per la cultura laica e democratica dell’Italia repubblicana. Nel 1962 inizia a lavorare come fotoreporter professionista e collabora nel tempo con importanti testate italiane e internazionali, da L’Espresso a Domus, da Stern a Time, fino a Le Figaro.

Berengo Gardin è stato spesso accostato a Henri Cartier-Bresson, padre del reportage umanista europeo. A legare i due fotografi non è solo la scelta del bianco e nero, ma una medesima fiducia nella forza espressiva della realtà. Ogni sua foto è frutto di un’attesa, di un gesto preciso, di un equilibrio cercato tra forma e contenuto. Eppure, come ricordava lui stesso, non era l’estetica il fine della sua fotografia, ma “la chiarezza dello sguardo”.

Non a caso, Italo Zannier, storico e critico tra i primi a valorizzarne l’opera, lo definì “il fotografo italiano più ragguardevole del dopoguerra”, sottolineandone la capacità di restare sempre aggiornato pur senza inseguire le mode, e di coniugare rigore documentario e sensibilità artistica.

L’impegno sociale: “Morire di classe” e oltre

Tra i lavori più noti e incisivi, si distingue il reportage Morire di classe (1969), realizzato insieme a Carla Cerati nei manicomi italiani prima della legge Basaglia. Le immagini crude, senza filtri, scossero l’opinione pubblica e divennero un’arma culturale a sostegno del movimento antipsichiatrico. Il libro, curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro, fu un vero e proprio spartiacque per il fotogiornalismo italiano.

Nel 2022, il film Nei giardini della mente ha riportato l’attenzione su quel lavoro fondamentale, offrendo un’intensa testimonianza autobiografica del fotografo, ormai novantenne, che racconta con lucidità la sua esperienza tra gli ospedali psichiatrici.

L’Italia dell’identità collettiva

Dal secondo dopoguerra fino al nuovo millennio, Gianni Berengo Gardin ha restituito un ritratto unico dell’identità italiana. Ha fotografato fabbriche, ferrovie, campagne, periferie e paesaggi urbani, mantenendo sempre uno sguardo empatico e partecipe. Ha lavorato a lungo con enti pubblici, editori, aziende, istituzioni culturali. Tra i suoi soggetti privilegiati, la gente comune, i riti popolari, le feste di paese. Con la mostra In festa. Viaggio nella cultura popolare italiana, presentata nel 2017 al festival “Dialoghi sull’uomo” di Pistoia, ha riunito sessant’anni di scatti dedicati a questo mondo vivo, spesso trascurato ma ricco di senso.

L’architettura e il paesaggio

Importanti anche i suoi lavori nel campo dell’architettura. Amico di Carlo Scarpa, ne documentò opere come la tomba Brion a San Vito di Altivole. A partire dal 1979 seguì con costanza i progetti di Renzo Piano, costruendo un vero e proprio archivio fotografico dell’architetto genovese, dalle prime realizzazioni italiane fino alle grandi opere internazionali.

Nel 2009 ha pubblicato Reportrait, raccolta di oltre duecento ritratti di intellettuali, artisti e architetti italiani, molti dei quali inediti. È di particolare rilievo anche il suo contributo alla documentazione delle grandi trasformazioni urbane e industriali del paese: dalle città del nord all’entroterra sardo, dal Sud contadino alla modernità industriale.

Le grandi mostre

Berengo Gardin ha tenuto oltre trecento mostre personali in Italia e nel mondo. Le sue fotografie sono state esposte al MoMA di New York, alla Biblioteca Nazionale di Parigi, alla George Eastman House di Rochester, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Nel 1994 fu tra i pochi fotografi italiani a essere incluso nella mostra sull’arte italiana al Guggenheim Museum di New York.

Numerose le retrospettive che gli sono state dedicate: dal Museo dell’Elysée di Losanna (1991) alla Fondazione Forma di Milano, dalla personale su La Porrettana in cinque amici (2009) al ciclo Storie di un fotografo tra il 2013 e il 2014, passando per la denuncia visiva sul passaggio delle grandi navi a Venezia, realizzata con il FAI tra il 2014 e il 2015.

Nel 2016, la mostra Vera fotografia. Reportage, immagini, incontri, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, ha celebrato la sua intera carriera, esponendo oltre 250 immagini.

Un’eredità visiva

La sua produzione editoriale è immensa: oltre 250 volumi fotografici. Tra i più noti: Morire di classe, Il Mondo, Dentro il lavoro, Un paese vent’anni dopo (con Cesare Zavattini), In treno attraverso l’Italia (con Ferdinando Scianna e Roberto Koch), Venise des saisons, Il racconto del riso, vincitore del Premio Marco Bastianelli nel 2014. Ha fotografato Giorgio Morandi nel suo studio di via Fondazza, ha raccontato la Sardegna nuragica, ha dedicato libri a Mimmo Paladino e a Hugo Pratt, ha perfino prestato le sue immagini a un progetto di t-shirt artistiche con It@rt.

Riconoscimenti

Numerosi i premi e i riconoscimenti ricevuti: dall’Oskar Barnack Award ad Arles (1994) per il reportage sui rom in Italia, al Lucie Award alla carriera (2008), fino alla laurea honoris causa in Storia e critica dell’arte conferitagli dall’Università degli Studi di Milano nel 2009. È stato membro dell’agenzia Contrasto e dello storico circolo fotografico veneziano “La Gondola”.

L’ultimo scatto

Gianni Berengo Gardin si è spento il 6 agosto 2025 a Genova, all’età di 94 anni. Fino all’ultimo ha mantenuto intatto quello sguardo che, più di ogni teoria estetica, ha saputo raccontare la bellezza dell’ordinario e la complessità del reale. Un testimone prezioso, un archivio umano di immagini e di memoria. In un’epoca in cui l’immagine tende a dissolversi nel consumo immediato, il suo lavoro resta come una lezione permanente di profondità, coerenza e umanità.


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L’arte senza voce critica: il tramonto delle stroncature

Nel panorama culturale italiano le recensioni negative stanno scomparendo, soffocate da timori di ritorsioni, dinamiche di marketing e un diffuso fastidio per il dissenso. Senza un autentico dibattito critico, l’arte rischia di ridursi a mera vetrina promozionale.


Nel panorama culturale italiano sembra che le mostre siano sempre “imperdibili”, che i musei non sbaglino mai un colpo e che curatori e istituzioni vivano in una perfezione espositiva senza incrinature. Ma la realtà è più complessa: le recensioni negative, un tempo parte integrante del dibattito artistico, sono oggi un fenomeno quasi in via d’estinzione. A mancare non è soltanto il coraggio di scrivere una stroncatura, ma soprattutto uno spazio autentico di confronto critico. Chi ci avverte di questo fenomeno è Federico Giannini, direttore responsabile della rivista Finestre sull’Arte, con un articolo intitolato “Scrivere stroncature non è un divertimento

Le ragioni della scomparsa di una vera e propria critica d’arte sono molteplici, ma la più immediata è il timore delle conseguenze. Una recensione negativa può provocare reazioni a catena, dalle più blande – frecciatine sui social, accuse di scrivere “per invidia” o per rancori personali – alle più pesanti: esclusioni da mailing list, inviti che svaniscono, telefonate furibonde da uffici stampa, attacchi alla reputazione, insinuazioni nei circuiti culturali. Nei casi peggiori si rischiano collaborazioni interrotte, la perdita di future opportunità lavorative, minacce di querele, persino molestie di persona. In un settore ristretto, dove poteri economici e relazioni sociali sono concentrati, il confine tra libertà di giudizio e convenienza diventa sottile. Così si va dal critico temerario – spesso isolato e senza nulla da perdere – fino all’adulatore di professione, sempre pronto a scambiare un’analisi sincera per un posto in prima fila a una preview esclusiva.

Nonostante questo, il mito del critico che “gode” nello stroncare persiste. La verità è più semplice: recensire è un lavoro, non un hobby sadico. In una testata che pratica la critica argomentata, la recensione negativa è un evento fisiologico ma raro. Su 42 articoli pubblicati dall’inizio del 2025, solo cinque rientrano nella categoria della stroncatura; la maggior parte dei testi offre valutazioni sfumate, spesso positive, ma sempre ragionate. Il compito di una recensione non è demolire o celebrare a priori, ma fornire ai lettori un’analisi motivata e valutativa di ciò che si espone al pubblico.

Tuttavia, questo non basta a salvare la critica dall’erosione. La difficoltà di esprimere dissenso è uno dei sintomi di una crisi più profonda: precarizzazione del lavoro giornalistico, concentrazione del potere editoriale, assimilazione della critica a puro marketing culturale. Nel flusso di comunicati stampa riciclati, classifiche di “mostre imperdibili” e contenuti sponsorizzati, lo spazio per una voce indipendente si restringe sempre più. Gli stessi lettori, abituati al profluvio di entusiasmi social, finiscono per diffidare delle recensioni positive argomentate se mancano di controparte critica. Di fronte a questa impasse, molti preferiscono evitare del tutto la recensione, lasciando il campo a descrizioni neutre e promozionali.

La reazione allergica alle critiche negative nasce anche da un equivoco diffuso: confondere l’analisi di un’opera con un attacco personale. I social media, che mescolano opinione e insulto, non aiutano a distinguere. Viviamo in una “società palliativa”, che rifugge il dissenso, e in cui la cultura è spesso gestita come un prodotto da vendere, non come un terreno di dibattito. In questo contesto, una recensione negativa, anche se argomentata, viene percepita come una mancanza di rispetto verso il lavoro di artisti, curatori e istituzioni, anziché come un contributo utile alla riflessione.

Eppure, la sopravvivenza stessa delle arti visive dipende dall’esistenza di un ecosistema critico vitale. Senza confronto, senza dibattito, senza il rischio di leggere giudizi scomodi, l’arte rischia di scivolare verso la marginalità, ridotta a intrattenimento di facciata o a prodotto di marketing. Non si tratta di pretendere che un artista gioisca davanti a una stroncatura, ma di recuperare l’idea che una critica ben argomentata – positiva o negativa che sia – sia parte essenziale di una cultura sana.

La vera sfida, oggi, è riabituarsi alla critica come strumento di crescita collettiva. Significa accettare che una recensione non è una spedizione punitiva, che dietro un giudizio non ci sono complotti politici o rancori personali, ma il lavoro di chi si assume il compito di osservare, analizzare e restituire ai lettori una riflessione ragionata. Solo così il mondo dell’arte potrà evitare l’anestesia del consenso e recuperare il suo valore più autentico: quello di stimolare pensiero, dialogo e, quando necessario, conflitto.


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Moka Bialetti: la piccola rivoluzione italiana che ha cambiato il caffè per sempre

Dall’intuizione di Alfonso Bialetti nel 1933 alla consacrazione nei musei di design internazionali, la caffettiera ottagonale in alluminio ha trasformato un rito sociale, portando l’espresso dal bar alle case di milioni di persone in tutto il mondo.


È difficile trovare una cucina italiana, e oggi anche molte straniere, priva di una Moka. Piccola, ottagonale, d’alluminio, la caffettiera inventata nel 1933 da Alfonso Bialetti non è solo un oggetto di uso quotidiano: è un simbolo di design, un’icona culturale che ha trasformato per sempre il modo di bere caffè in casa. Dietro la sua nascita si nasconde una storia di intuizione, abilità artigianale, spirito imprenditoriale e, non da ultimo, il segno di un’epoca in cui il metallo leggero per eccellenza, l’alluminio, era diventato emblema di modernità.

Dalla Francia al Piemonte: l’esperienza di un fonditore

La vicenda comincia nel 1919 a Crusinallo, piccola frazione di Omegna, sul lago d’Orta. Dopo una lunga esperienza nelle fonderie francesi, Alfonso Bialetti torna in Italia portando con sé competenze tecniche preziose nella lavorazione dell’alluminio, allora un materiale nuovo e versatile. Apre una piccola officina per produrre semilavorati metallici, destinati in gran parte all’industria emergente del tempo. Nel giro di pochi anni, la sua “Fonderia in Conchiglia” diventa un laboratorio noto per precisione e inventiva, terreno fertile per l’idea che, più di un decennio dopo, avrebbe cambiato il rituale del caffè domestico.

Un’ispirazione nata dal bucato

La leggenda vuole che l’intuizione decisiva arrivi osservando la moglie fare il bucato con una “lisciveuse”, un grosso pentolone dotato di un tubo centrale attraverso il quale l’acqua bollente, mossa dalla pressione del vapore, saliva e ricadeva sui panni da lavare. Bialetti intuì che lo stesso principio fisico poteva essere applicato al caffè: l’acqua riscaldata dal fornello sarebbe salita, attraversando il filtro con la polvere macinata, per riversarsi infine nella parte superiore della caffettiera sotto forma di bevanda scura e aromatica.

Con l’ingegnere Luigi De Ponti, nel 1933 sviluppò il prototipo della Moka Express, scegliendo l’alluminio per la sua leggerezza e capacità di condurre il calore in modo uniforme. Il nome richiamava la città yemenita di Mokha, storicamente legata alle prime esportazioni di caffè verso l’Europa. La forma ottagonale, ispirata agli stili Art Déco e all’architettura razionalista dell’epoca, ne avrebbe favorito il successo anche come oggetto di design.

Dal lusso dei bar alla cucina di casa

All’inizio il caffè espresso era una bevanda da consumare nei bar, preparata con grandi macchine a leva di cui solo i locali pubblici disponevano. La Moka rese possibile portare quel sapore intenso tra le mura domestiche, “democratizzando” una piccola gioia quotidiana fino ad allora appannaggio di pochi. Negli anni Trenta la produzione era ancora artigianale, non superava le poche migliaia di pezzi l’anno, e Bialetti li vendeva personalmente nei mercati e alle fiere della provincia piemontese.

Dopo la Seconda guerra mondiale, con il ritorno del figlio Renato da un campo di prigionia in Germania, l’azienda entrò in una nuova fase. Negli anni Cinquanta sorse uno stabilimento capace di produrre fino a 18 mila caffettiere al giorno, pari a milioni di pezzi l’anno, e il marchio cominciò la sua ascesa in Italia e all’estero. Nel 1958 fece la sua comparsa l’“Omino con i baffi”, caricatura di Renato Bialetti con il dito alzato come per ordinare un espresso al bar, disegnata da Paul Campani e resa celebre da caroselli pubblicitari che fecero scuola nella comunicazione dell’epoca.

Un fenomeno sociale e culturale

La diffusione della Moka segnò una svolta anche nel tessuto sociale italiano. Preparare il caffè non era più un rito esclusivamente pubblico: diventava un gesto familiare, parte della quotidianità domestica, capace di scandire il ritmo delle mattine, delle pause di lavoro, delle conversazioni tra amici. L’oggetto stesso, con il suo design semplice e funzionale, entrò nell’immaginario collettivo, diventando un simbolo dell’ingegno italiano, riconosciuto a livello internazionale.

Il brevetto originale, scaduto nel 1953, permise a numerosi concorrenti di produrre varianti simili. Ma il modello Bialetti rimase un classico insuperato, fedele all’alluminio, che secondo molti contribuisce a esaltare il sapore della bevanda grazie alla patina che si crea con l’uso. A partire dagli anni Settanta, la Moka Express entrò a far parte delle collezioni permanenti di musei come la Triennale di Milano e il MoMA di New York, consacrandosi come un capolavoro di design industriale.

Un mito che resiste al tempo

Nonostante l’avvento delle macchine per caffè espresso con capsule e cialde, che negli ultimi decenni hanno conquistato molte cucine, la Moka resta un oggetto imprescindibile per milioni di persone. Negli anni Duemila, l’azienda Bialetti ha affrontato periodi di crisi finanziaria, tra debiti e ristrutturazioni, e ha chiuso lo storico stabilimento di Crusinallo nel 2010. Eppure la piccola caffettiera continua a essere prodotta e venduta in tutto il mondo, con oltre 300 milioni di esemplari stimati dal 1933 a oggi.

Più che un semplice utensile, la Moka è una testimonianza vivente del rapporto speciale tra italiani e caffè, un ponte tra innovazione industriale, cultura popolare e arte del design. A quasi un secolo dalla sua nascita, rimane l’oggetto che più di ogni altro racconta una storia di inventiva, modernità e quotidianità condivisa, in cui il gusto intenso dell’espresso si fonde con l’eleganza senza tempo di un’idea geniale.


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La tecnologia 3D riaccende il dibattito sull’origine del telo

Una simulazione 3D suggerisce che il celebre telo torinese possa essere frutto di un’opera medievale realizzata con una matrice scolpita, ma il mistero rimane aperto tra fede, arte e scienza.


La Sindone di Torino, una delle reliquie più venerate e discusse della cristianità, torna al centro del dibattito scientifico internazionale. Un recente studio pubblicato sulla rivista Archaeometry, frutto di una ricerca condotta dal brasiliano Cicero Moraes, esperto di ricostruzioni tridimensionali di figure storiche, rilancia un’ipotesi nota da tempo: l’immagine dell’uomo impresso sul lenzuolo non deriverebbe dal contatto con un corpo umano, ma sarebbe stata prodotta utilizzando una scultura a bassorilievo, probabilmente nel Medioevo.

Un’analisi digitale di nuova precisione

L’indagine di Moraes, pubblicata dalla rivista scientifica edita da Wiley per conto dell’Università di Oxford, ha sfruttato strumenti di simulazione 3D di ultima generazione. Due scenari sono stati messi a confronto: nel primo, un telo virtuale è stato steso su una ricostruzione anatomica di un corpo umano; nel secondo, su una scultura piatta e sagomata. I risultati non lasciano dubbi: solo il modello in bassorilievo produce un’immagine sovrapponibile a quella della Sindone, mentre il contatto con un corpo reale genera distorsioni incompatibili con il reperto torinese.

Secondo Moraes, la matrice medievale avrebbe potuto essere realizzata in legno, pietra o metallo, e pigmentata o riscaldata solo nelle aree di contatto, imprimendo così la figura visibile ancora oggi sul lino. Una tecnica del tutto plausibile per l’artigianato del XIII-XIV secolo, periodo già indicato nel 1989 dalle analisi al radiocarbonio, che datarono il tessuto tra il 1260 e il 1390 dopo Cristo.

Un’ipotesi antica, nuovi strumenti di verifica

Lo storico Andrea Nicolotti, docente all’Università di Torino, concorda con le conclusioni di Moraes, pur sottolineando che non rappresentano una rivoluzione. «Sappiamo da secoli – spiega – che l’immagine non può derivare dal contatto diretto con un corpo tridimensionale». Il nuovo studio, piuttosto, aggiunge un tassello tecnologico alla ricerca, dimostrando come la computer grafica possa aiutare a verificare ipotesi storiche rimaste a lungo dibattute.

La comunità scientifica aveva già accumulato elementi a sostegno della tesi medievale: dalle prime fotografie del 1898 di Secondo Pia alle indagini spettroscopiche e radiografiche del progetto internazionale Shroud of Turin Research Project tra il 1978 e il 1981, fino alla datazione al carbonio-14 del 1988. La novità del lavoro di Moraes è quella di mostrare “come” il telo avrebbe potuto essere realizzato, inquadrandolo nelle pratiche artigianali dell’epoca.

La replica dell’arcivescovo di Torino

La pubblicazione ha però suscitato reazioni immediate in ambito ecclesiastico. Il cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino e custode della Sindone, ha espresso «preoccupazione per la superficialità di certe conclusioni», ricordando che la reliquia resta un oggetto di studio aperto a indagini libere, ma che ogni nuova “rivelazione” merita di essere valutata con rigore scientifico. Il Centro Internazionale di Studi sulla Sindone di Torino ha annunciato l’analisi dettagliata dei metodi e dei risultati dello studio di Moraes.

Un enigma che resiste al tempo

La simulazione 3D non risolve tutti i misteri del telo torinese. Restano aperte questioni complesse, come la presenza di tracce di sangue umano e pollini di piante mediorientali risalenti all’epoca di Gesù, incompatibili con un manufatto puramente medievale secondo alcuni ricercatori. Inoltre, l’iconografia della crocifissione medievale rappresentava i chiodi sulle mani, mentre l’uomo della Sindone mostra ferite ai polsi, dettaglio reso noto solo da studi medici moderni.

Ciò nonostante, l’ipotesi del bassorilievo riporta la discussione alle radici storico-artistiche della reliquia. Se davvero fosse un’opera medievale, la Sindone resterebbe un capolavoro di ingegno tecnico e di sensibilità religiosa, capace di suscitare emozione e devozione per oltre sette secoli. Il lavoro di Moraes apre anche una nuova pista di ricerca: chi fu il misterioso artigiano capace di creare un’immagine destinata a sfidare per sempre la scienza, la storia e la fede?


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Alla scoperta della medicina antica nelle biblioteche di Cambridge

Centinaia di manoscritti medici medievali sono ora accessibili online tramite la Cambridge Digital Library, come parte del progetto “Curious Cures”. Questi manoscritti contengono rimedi insoliti e istruzioni per amuleti magici, offrendo uno sguardo affascinante sulla medicina e le credenze del passato.


Fino al 6 dicembre 2025, l’Università di Cambridge ospita una delle mostre più insolite e affascinanti degli ultimi anni: Curious Cures, una rassegna in due sezioni che si snoda tra il Milstein Exhibition Centre e le Gallerie Nord e Sud del primo piano della biblioteca universitaria. Un viaggio tra ricette mediche, pratiche terapeutiche e superstizioni curative, che rivela come, in pieno Medioevo, la ricerca del benessere fosse un territorio complesso e ricco di contraddizioni, guidato tanto dall’osservazione empirica quanto da suggestioni astrologiche, credenze religiose e intuizioni ardite.

La mostra, curata dallo specialista di manoscritti medievali James Freeman, è il frutto di un progetto di ricerca biennale sostenuto da Wellcome, e si basa su un imponente lavoro di digitalizzazione e conservazione di 186 manoscritti medici redatti tra l’XI e il XVI secolo. Questi volumi, oggi custoditi presso la Biblioteca dell’Università di Cambridge e in dodici dei suoi college, offrono una straordinaria panoramica sulla conoscenza medica dell’epoca e sulle pratiche curative adottate tra le mura di monasteri, nelle case dei notabili o presso gli speziali di città.

I visitatori possono avvicinarsi a un mondo che, per quanto distante nei secoli, non smette di interrogarci: come si trattava una vescica infiammata o un caso di “digrignamento dell’utero”? Che rimedi si prescrivevano per mal di denti, mal di testa o per forme più gravi come il “cancro alla bocca” o le “ferite brucianti”? Quali rimedi venivano suggeriti per problemi estetici come l’alito cattivo o le lentiggini? E ancora: quale ruolo avevano ingredienti oggi impensabili, come grasso d’anguilla, escrementi di colomba o fegato di volpe, nelle ricette terapeutiche medievali?

A partire da questi interrogativi, il progetto Curious Cures in Cambridge Libraries ha puntato non solo a preservare fisicamente i manoscritti, ma anche a renderli pienamente accessibili alla ricerca contemporanea. Grazie all’impiego della tecnologia Transkribus – uno dei più avanzati sistemi di riconoscimento della scrittura manoscritta – è stato possibile trascrivere oltre 8.000 ricette mediche inedite, rendendo consultabili i testi secondo criteri innovativi, dalle ricerche per parola chiave alle analisi comparative.

Questi manoscritti, noti come receptaria, rappresentano una mescolanza di testi compatti, annotazioni a margine e aggiunte manoscritte successive. Molti contengono centinaia di ricette, alcune trascritte in latino o francese, ma una parte significativa è scritta in inglese medio: un segnale importante della diffusione della cultura medica anche tra chi non aveva accesso all’educazione accademica. La lingua volgare entra così nel campo del sapere scientifico, indicando un passaggio cruciale nella storia della comunicazione e della divulgazione medica.

Ma è l’elenco degli ingredienti, spesso sorprendente, a restituire con più forza l’immaginario dell’epoca. Accanto a erbe comuni come salvia, timo, rosmarino e menta, si trovano piante meno note, come betonica e consolida, e una vasta gamma di componenti animali. Tra i più curiosi: la cistifellea di lepre per curare una “ragnatela nell’occhio” o il grasso di cucciolo arrosto per lenire la gotta. Le ricette spesso prevedono l’uso di birra, latte, miele o vino come solventi, ma anche spezie provenienti da lontano come pepe, zenzero e cumino: segno che le reti commerciali dell’epoca erano più vivaci e articolate di quanto si creda comunemente.

Il lavoro di digitalizzazione non si limita alla trascrizione testuale: grande attenzione è dedicata alla contestualizzazione materiale dei manoscritti. Il modo in cui le ricette sono impaginate, i segni lasciati dai copisti, le aggiunte successive e le note marginali offrono agli studiosi preziosi indizi sull’evoluzione del sapere medico, sulle modalità della sua trasmissione e sulle dinamiche sociali che ne hanno influenzato la diffusione. Le informazioni sulla provenienza e la storia dei volumi permettono inoltre di indagare chi li ha consultati, dove, e con quale intento.

Le immagini digitali ad alta risoluzione, le descrizioni catalografiche e le trascrizioni complete dei manoscritti sono oggi raccolte nella Cambridge Digital Library, dove sono liberamente consultabili da studiosi e appassionati di tutto il mondo. Una finestra spalancata su un universo che, pur affondando le radici nel passato remoto, parla ancora al presente: non solo perché riflette il bisogno umano – sempre attuale – di cura, ma anche perché invita a una riflessione sulle origini e i limiti della scienza, sul ruolo dell’esperienza e della sperimentazione, e sulla natura mutevole del sapere medico.

Per chi volesse abbinare alla visita un momento di ristoro, la mostra prevede anche un passaggio nella Library Tea Room, uno spazio dove ripensare, magari davanti a una tazza di tè, a quanto la medicina – e l’umanità – abbiano attraversato, con ingegno e meraviglia, il confine tra scienza e credenza.


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