Daniel Buren a Pistoia: l’arte come processo in continuo divenire

A Pistoia, una mostra che sfida ogni convenzione museale offre al pubblico l’occasione di confrontarsi con sessant’anni di ricerca artistica attraverso lo sguardo radicale e mobile di Daniel Buren. Intitolata Fare, Disfare, Rifare. Lavori in situ e situati 1968–2025, l’esposizione promossa da Fondazione Pistoia Musei si presenta come molto più di una retrospettiva: è un’indagine dinamica sull’opera di uno degli artisti più influenti del secondo Novecento, in cui il tempo si intreccia al luogo, e il passato si reinventa nel presente.

Il progetto espositivo parte da due sale iniziali, dedicate alle ricerche pittoriche dei primi anni Sessanta, per poi dispiegarsi in una narrazione che prende l’Italia come nodo centrale di una lunga e profonda relazione. Dal 1968, infatti, il nostro Paese è stato per Buren teatro di esperimenti, confronti, azioni urbane e site-specific: un laboratorio aperto che oggi diventa anche una mappa per orientarsi nella sua opera.

Il titolo scelto per la mostra – Fare, Disfare, Rifare – non è soltanto un richiamo a un approccio artistico, ma una dichiarazione poetica ed esistenziale. Per Buren, l’arte non è mai oggetto statico o definitivo, bensì processo vivo, destinato a mutare nel tempo e a riflettersi nello spazio che lo accoglie. Il paradosso di “esporre” un artista che ha sempre rifiutato la permanenza e la trasportabilità dell’opera viene superato con un gesto radicale: non raccogliendo lavori preesistenti, ma ripensandoli, rigenerandoli, talvolta smontandoli per ricomporli altrove. Rifare, dunque, equivale anche a disfare.

Molti degli interventi in mostra sono rielaborazioni di lavori precedenti, adattati o riconfigurati per il contesto pistoiese. La nozione di opera in situ – ovvero creata per un luogo specifico e in stretta relazione con esso – è centrale nella pratica di Buren. Molte di queste installazioni non possono essere trasferite, altre ancora vengono reinterpretate in nuovi ambienti, trasformandosi di volta in volta. Non si tratta di repliche, ma di variazioni: la loro identità si definisce nel momento dell’installazione, nel rapporto dialogico con l’architettura, la luce, la storia del luogo.

Un esempio emblematico è Découpé / Étiré, installato nella corte interna di Palazzo Buontalenti. L’opera, che nasce da un lavoro realizzato nel 1985 per la galleria torinese di Antonio Tucci Russo, si presenta come una successione di portici incastrabili, che dal più grande al più piccolo si aprono e si espandono in una sorta di piano prospettico. Nella sua nuova versione, la struttura originaria viene ripensata: cambiano i colori, si trasforma l’interazione con lo spazio, il contesto ridefinisce l’opera stessa. Non un semplice remake, dunque, ma una riscrittura visiva e concettuale.

La mostra non si esaurisce all’interno delle sedi museali, ma si irradia in vari luoghi pubblici della città, aprendo una riflessione sulla relazione tra arte e spazio urbano. In piazza del Duomo, ad esempio, i tessuti a bande bianche e nere di Facciata ai venti – sospesi al loggiato dell’Antico Palazzo dei Vescovi e mossi da ventilatori – instaurano un gioco di corrispondenze e contrasti con la monumentalità marmorea della Cattedrale e del Battistero. L’opera introduce un elemento cinetico che rompe l’equilibrio della pietra e invita a una lettura inedita del paesaggio storico.

Più discreto ma altrettanto efficace è Dalla terrazza alla strada: livello, visibile tra Palazzo de’ Rossi e lo Sdrucciolo del Castellare: una banda di carta a righe bianche e nere che si adatta alla superficie muraria, rievocando le azioni urbane degli Affichages sauvages che Buren realizzava alla fine degli anni Sessanta. Anche qui, l’intervento effimero dialoga con il tessuto urbano, innestando nel quotidiano un gesto artistico che lo disturba e lo valorizza.

A rendere ancora più ampio il respiro dell’iniziativa, c’è l’estensione del percorso oltre i confini cittadini. La mostra coinvolge luoghi sparsi nella campagna e nei centri storici della Toscana, da Quarrata alla Fattoria di Celle a Santomato, fino a Colle di Val d’Elsa e al Castello di Ama. In questi siti si trovano numerose opere in situ permanenti di Buren, ognuna pensata in relazione a un preciso contesto architettonico o paesaggistico. Si tratta di installazioni che non possono esistere altrove, perché nate da un’intima corrispondenza con il luogo che le accoglie.

In questo modo, la mostra si trasforma in un itinerario diffuso, un invito al viaggio attraverso un territorio che diventa esso stesso spazio espositivo. Non solo un omaggio all’artista francese, ma un’occasione per riflettere sul rapporto tra arte, tempo e spazio, e su come il contesto possa trasformare radicalmente il significato dell’opera. Ogni tappa offre una prospettiva diversa, una variazione sul tema dell’identità e della metamorfosi artistica.

Il catalogo pubblicato a corredo dell’esposizione si propone come uno strumento fondamentale per approfondire la presenza e l’evoluzione del lavoro di Buren in Italia, configurandosi come un punto di riferimento per gli studi futuri.

In definitiva, Daniel Buren. Fare, Disfare, Rifare è molto più che una mostra: è un’esperienza estetica e concettuale che invita a ripensare le categorie stesse di esposizione, permanenza e creazione artistica. Un’occasione per interrogarsi sul ruolo del luogo nell’arte contemporanea e, al tempo stesso, un tributo alla capacità dell’artista di reinventarsi e di reinventare lo spazio che lo circonda.


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Roy Lichtenstein “Golf Ball”, 1962

Nel 1962 Roy Lichtenstein espone per la prima volta alla Galleria Leo Castelli di New York. L’attesa è tale che i biglietti per l’inaugurazione si esauriscono ancor prima dell’apertura. Tra le opere in mostra spicca una tela destinata a diventare un emblema della sua prima adesione alla Pop Art: Golf Ball. Un’opera solo in apparenza semplice, che nasconde invece una sofisticata riflessione sul linguaggio visivo moderno, sulla percezione e sul ruolo dell’oggetto nel contesto artistico.

Golf Ball raffigura, letteralmente, una pallina da golf. Ma la rappresentazione è tutt’altro che banale. Lichtenstein isola il soggetto in uno spazio grigio e neutro, privato di qualsiasi riferimento ambientale o paesaggistico. La sfera è costruita attraverso una trama di archi bianchi e neri che si intersecano con regolarità matematica, modellando una tridimensionalità illusoria su una superficie rigorosamente bidimensionale. Il chiaroscuro è assente, così come la prospettiva: resta solo la superficie, e con essa il gioco percettivo che lo spettatore è chiamato a decifrare.

L’effetto è ambiguo, volutamente straniante. Come ha osservato la storica dell’arte Diane Waldman, la pallina di Lichtenstein assume un’autonomia formale, una “forma indipendente” che sembra oscillare tra l’oggetto e il segno grafico. La tensione tra volume e piattezza, tra illusione e astrazione, diventa così il vero soggetto dell’opera. La Golf Ball è una provocazione che sfida la tradizionale idea di rappresentazione, ribaltandone le regole in modo tanto radicale quanto ironico.

Lichtenstein stesso descrisse l’opera come “l’antitesi di ciò che si pensava avesse un ‘significato artistico’”. E in effetti, con la sua frontalità assoluta, con la mancanza di profondità e il rifiuto di qualsiasi elemento emozionale o narrativo, Golf Ball appare come un oggetto puro, una sorta di icona impersonale e al tempo stesso carica di tensione. Non è un caso che alcuni critici abbiano paragonato la sua presenza nel quadro alla solidità della Rocca di Gibilterra: un’immagine immobile, definitiva, imperturbabile.

Nel lessico visivo dell’opera si avverte l’eco delle composizioni in bianco e nero di Piet Mondrian – in particolare Composizione in bianco e nero del 1917 – ma anche dei suoi ovali astratti pre-bellici come Pier and Ocean (1915). Lichtenstein stesso parlava, non a caso, di “Mondrian Plus e Minus” per definire certe sue fonti di ispirazione. La scelta cromatica sobria e l’impostazione grafica sembrano infatti un tributo ironico e insieme devoto a quella linea di astrazione geometrica radicale. Tuttavia, mentre Mondrian inseguiva l’armonia universale attraverso la riduzione, Lichtenstein piega l’astrazione al servizio della cultura di massa.

In quegli stessi mesi del 1962, l’artista realizzò una serie di opere simili per soggetto e approccio: oggetti quotidiani isolati, privati del loro contesto e ricodificati attraverso un linguaggio visivo mutuato dalla pubblicità e dal fumetto. La “regolarità ripetitiva” delle superfici, come è stata definita, diventa una cifra stilistica. Ma a differenza delle immagini pubblicitarie, sempre più seduttive e sofisticate, Lichtenstein sceglie una frontalità disarmante, che priva l’oggetto di qualunque glamour. Il suo approccio è insieme analitico e ludico, minimalista ma non privo di senso dell’umorismo.

La Golf Ball è tornata più volte nel lavoro di Lichtenstein. La si ritrova, ad esempio, in Still Life with Goldfish Bowl (1972) e in Go for Baroque (1979), a testimonianza di come quel primo esperimento conteneva già in sé molte delle tensioni che avrebbero attraversato l’intera produzione dell’artista: la dialettica tra figurazione e astrazione, la sfida ai codici visivi dominanti, la riflessione sul ruolo dell’immagine nella società dei consumi.

L’opera rappresenta un punto di svolta anche sotto il profilo formale. I contorni sono netti, standardizzati, privi di incertezze: un segno del controllo che Lichtenstein andava affinando nel suo lavoro, lontano anni luce dalle gestualità esasperate degli espressionisti astratti. Eppure, in quell’apparente freddezza si cela un’attenzione puntuale alle dinamiche percettive. L’artista gioca con le attese del pubblico, ne manipola la percezione, lo costringe a interrogarsi sul modo in cui costruisce mentalmente lo spazio.

Con Golf Ball, Lichtenstein non si limita a raffigurare un oggetto: ne fa il campo di battaglia su cui si misurano astrazione e realismo, profondità e superficie, significato e insignificanza. In questo senso, l’opera va ben oltre l’aneddoto o la curiosità pop. È un manifesto di metodo, un esercizio visivo e teorico travestito da immagine elementare. Un classico esempio di come, nella Pop Art, l’apparente semplicità possa rivelare una complessità sottile e persistente.

A oltre sessant’anni dalla sua realizzazione, Golf Ball resta un’opera di grande attualità. Non solo perché anticipa molti dei temi che oggi alimentano la riflessione sull’immagine, ma perché testimonia con forza la capacità di un artista di trasformare un oggetto ordinario in un potente dispositivo critico. Lichtenstein ci invita a guardare, ma soprattutto a pensare a ciò che guardiamo. Anche – e forse soprattutto – quando ciò che vediamo è solo una pallina da golf.


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L’intelligenza artificiale riscrive la storia della Bibbia

Uno degli enigmi più affascinanti della storia delle religioni, quello dei Rotoli del Mar Morto, sta conoscendo una nuova stagione di scoperte grazie a un’inedita alleanza tra scienza e tecnologia. Secondo un recente studio internazionale, pubblicato sulla rivista Plos One, molti dei celebri manoscritti rinvenuti a metà del Novecento nelle grotte di Qumran, in Cisgiordania, sarebbero più antichi di quanto finora ipotizzato. Per la prima volta, alcuni frammenti biblici sono stati datati con una precisione tale da poter essere collocati nell’epoca stessa in cui si ritiene siano vissuti gli autori dei testi sacri.

Il progetto, finanziato dal Consiglio Europeo della Ricerca e condotto dall’Università di Groningen nei Paesi Bassi in collaborazione con gli atenei di Pisa e Southern Denmark, ha sfruttato un nuovo modello predittivo chiamato Enoch – dal nome del patriarca biblico – che unisce intelligenza artificiale, paleografia e datazione al radiocarbonio. L’obiettivo: superare i limiti finora invalicabili nella datazione dei singoli manoscritti antichi, aggirati grazie a una sinergia fra discipline tradizionalmente distanti.

I Rotoli del Mar Morto, rinvenuti tra il 1947 e il 1956 in undici grotte nei pressi di Khirbet Qumran, rappresentano una delle più significative scoperte archeologiche del XX secolo. Si tratta di circa 900 documenti, tra testi religiosi e commentari biblici, redatti in ebraico, aramaico e greco, che hanno rivoluzionato la conoscenza del giudaismo del Secondo Tempio e gettato nuova luce sulle origini del cristianesimo. La loro datazione, però, è sempre stata incerta, oscillando genericamente tra il III secolo a.C. e il II secolo d.C., con margini d’errore che ne compromettevano il pieno valore storico.

Il nuovo studio ha rivoluzionato questo scenario. Grazie a Enoch, basato su una rete neurale profonda denominata BiNet, è stato possibile analizzare in modo automatizzato le microscopiche tracce di inchiostro e la morfologia dei caratteri nei manoscritti digitalizzati. I dati paleografici così ottenuti sono stati integrati con i risultati della datazione radiometrica, creando un modello predittivo capace di stimare l’età dei manoscritti con un’incertezza di appena 30-50 anni. Una precisione senza precedenti, che ha permesso di colmare un vuoto cronologico di riferimento fra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C.

Dei quasi mille rotoli scoperti, ne sono stati analizzati 135: il modello ha fornito stime giudicate realistiche nel 79% dei casi dagli esperti paleografi coinvolti. Il risultato più clamoroso riguarda due frammenti di testi biblici, il Libro di Daniele (4QDanielc) e il Qohelet o Ecclesiaste (4QQoheleta), datati rispettivamente al II e al III secolo a.C., ovvero alla stessa epoca in cui si ritiene siano stati scritti i testi originali. È la prima volta che manoscritti biblici possono essere associati con tanta affidabilità al periodo di vita dei loro presunti autori, fornendo una base concreta agli studi sulla trasmissione delle Scritture.

Un altro elemento di grande rilievo riguarda l’evoluzione degli stili grafici. Le scritture definite “asmonee”, finora attribuite al periodo tra il 150 e il 50 a.C., risulterebbero in realtà anteriori di decenni, collocabili già tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. Lo stesso vale per lo stile “erodiano”, che secondo le nuove analisi avrebbe cominciato a circolare già nella seconda metà del II secolo a.C., molto prima di quanto ipotizzato.

Fondamentale è stato anche il contributo degli studiosi dell’Università di Pisa, che hanno messo a punto un protocollo chimico innovativo per la pulizia dei frammenti da contaminanti residui, in particolare da vecchi restauri. Come spiega la professoressa Ilaria Degano, del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale, «il nostro compito è stato assicurare che i materiali inviati per la datazione fossero il più possibile puliti e privi di residui che potessero alterare i risultati». Un lavoro di estrema delicatezza, reso necessario dalla fragilità dei reperti, e destinato a diventare uno standard per le analisi future su materiali antichi.

Il progetto “Le mani che scrissero la Bibbia”, come è stato battezzato dal Consiglio Europeo della Ricerca, ha dunque aperto una nuova frontiera nella ricerca biblica e filologica. La possibilità di associare uno stile grafico a una precisa finestra temporale consente non solo di datare con maggiore precisione i testi, ma anche di avanzare ipotesi sulle scuole scribali e sui contesti di produzione, in un periodo storico cruciale per la formazione delle tradizioni ebraiche.

Se la Bibbia, come ogni testo sacro, è da sempre oggetto di interpretazioni teologiche e dispute filologiche, questa ricerca introduce un elemento di oggettività in un terreno spesso dominato da ipotesi: per la prima volta, le “mani” che hanno scritto la Bibbia si lasciano intravedere con una nitidezza sorprendente. E in controluce, emerge un ritratto più preciso del mondo che le ha generate. Un passo decisivo per ricostruire, con rigore scientifico, il lungo cammino della parola scritta nella storia dell’umanità.


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Anoressia: una malattia, una lotta, una voce che cerca ascolto

Per Hadley Freeman, l’anoressia non è stata solo una malattia, ma una lunga parentesi esistenziale, durata vent’anni, in cui il cibo, o meglio il suo rifiuto, ha rappresentato l’unico linguaggio possibile per esprimere dolore, rabbia e paura. Oggi giornalista del Sunday Times, Freeman racconta quella discesa negli abissi in un libro intenso e crudo, Good Girls: A Story and Study of Anorexia, ora pubblicato anche in Italia da 66thand2nd con il titolo Brave ragazze. Una storia di anoressia, nella traduzione di Milena Sanfilippo. Il volume, a metà tra memoir e saggio, esplora le radici intime, storiche e culturali del disturbo alimentare che l’ha accompagnata dall’adolescenza all’età adulta.

L’identità anoressica: quando la malattia diventa una maschera

Nel libro, Freeman non si sottrae a una scelta linguistica precisa: chiama sé stessa e le altre semplicemente “anoressiche”. Non per mancanza di delicatezza, ma perché, come spiega, in certi momenti della malattia si è solo quello. Non esiste più la persona, ma solo la patologia. Il corpo, il controllo, il digiuno diventano l’unico centro gravitazionale. Per questo motivo, il termine neutro “persona con anoressia” risulta per lei inadeguato: la ragazza anoressica vive un’identificazione totale con la malattia. L’anoressia, infatti, è egosintonica: non si percepisce come un problema, ma come un punto di forza, una conquista. È la fame stessa a diventare una forma di potere, una prova della propria capacità di dominarsi.

Lo aveva scritto già nel 1978 la psichiatra Hilde Bruch in La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale: alcune pazienti non solo negano la fame, ma ne traggono piacere. Lo stomaco vuoto, la sensazione di leggerezza, diventano una fonte di euforia e gratificazione.

Il commento che accende l’incendio

Hadley Freeman nasce a New York nel 1978 in una famiglia ebrea benestante, si trasferisce a Londra a undici anni e frequenta scuole private. Brava e obbediente, trova rifugio nelle regole, che divengono per lei un sistema di sicurezza. È proprio in quell’ambiente apparentemente ordinato che si consuma la frattura. Durante un’ora di educazione fisica, una compagna, notoriamente la più magra della classe, le sussurra all’orecchio: “Magari fossi normale come te”. È la parola “normale” ad accendere la miccia. Non vuole essere normale, vuole essere speciale. E da quel giorno, tutto cambia.

Come spiegano i clinici, l’anoressia non ha un’unica causa: si tratta di un disturbo multifattoriale, in cui genetica, ambiente, personalità e storia personale si intrecciano. Ma spesso esiste un evento scatenante, un momento preciso che apre la voragine.

Una fame che è paura

L’etimologia stessa del termine “anoressia” – dal greco an- (senza) e orexis (appetito) – è fuorviante. Nessuna come un’anoressica è affamata. Ma è proprio il terrore della fame, del desiderio, del bisogno, a generare il rifiuto. Si tratta, come ha osservato Massimo Recalcati nel recente L’ultima cena. Anoressia e bulimia (2024), di una patologia del rifiuto: non solo del cibo, ma dell’Altro, della relazione, dell’essere al mondo.

Freeman si chiude in se stessa, diventa ostile, incomprensibile. Corre, salta, si allena fino allo sfinimento, si chiude in bagno per fare esercizi, evita i pasti in famiglia. “La solitudine è il ricordo più vivido”, scrive. Non capiva quello che le stava succedendo e nessuno intorno a lei sapeva come aiutarla.

Contro il mito delle passerelle

Ridurre l’anoressia a una conseguenza dell’industria della moda o dei social media è non solo semplicistico, ma anche pericolosamente fuorviante. L’anoressia è un disturbo complesso, legato a dinamiche storiche e culturali molto profonde. La pressione a essere perfette, docili, silenziose, accomuna generazioni di ragazze. “Sii la brava ragazza che devi essere sempre” canta Elsa in Frozen, il film Disney del 2013. Come lei, molte adolescenti imparano fin da piccole a reprimere ogni desiderio.

Ma come ribellarsi a un modello di perfezione irraggiungibile? Come sottrarsi alla sessualizzazione dell’adolescenza, alla perdita dell’infanzia, al caos della crescita? Per molte, l’unico modo sembra passare dal corpo: affamarlo, controllarlo, cancellarlo.

Una storia lunga un millennio

Il digiuno femminile come forma di ribellione ha una lunga storia. Già tra l’VIII e il X secolo, la principessa portoghese Vilgefortis, promessa sposa al re di Sicilia, rifiutò il matrimonio imposto e, dopo essersi convertita al cristianesimo, fece voto di castità e smise di mangiare. Morì crocifissa per mano del padre, ma fu venerata per secoli in Europa come santa Liberata. Il suo corpo, affamato e ricoperto di peluria – come spesso accade nei casi di malnutrizione estrema – fu immortalato in numerose opere d’arte, tra cui il Trittico di santa Liberata di Hieronymus Bosch.

Lo storico Rudolph M. Bell, nel saggio La santa anoressia (1998), ha analizzato il fenomeno del digiuno mistico tra il XII e il XVII secolo, mettendo in parallelo la mortificazione corporale di sante come Caterina da Siena o Veronica Giuliani con i comportamenti autodistruttivi delle anoressiche moderne. Cambia il contesto, ma non la dinamica: la fame diventa linguaggio, strumento di potere, gesto estremo per affermare un’identità. Come se il corpo fosse l’unico mezzo per esprimere un rifiuto radicale.

Il piatto come campo di battaglia

Nella sua riflessione Il piatto. Una storia di donne, di appetiti e di emancipazione in un oggetto quotidiano (2025), la giornalista Annabelle Hirsch racconta come la tavola sia stata, per secoli, uno dei luoghi dove si è giocata la battaglia per l’emancipazione femminile. Lo sciopero della fame fu un’arma di lotta per le suffragette inglesi guidate da Emmeline Pankhurst, che ottennero il diritto di voto nel 1918. Quando le parole non bastavano più, fu il corpo stesso a farsi veicolo politico.

In questa prospettiva, l’anoressia contemporanea appare come l’estremizzazione di una tensione antica: un tentativo disperato di ritagliarsi uno spazio di controllo, di potere, di significato.

Il corpo come linguaggio muto

L’anoressica non vuole essere vista, ma nel contempo vuole che il suo dolore venga riconosciuto. Vuole sparire e al tempo stesso gridare. Per questo motivo, il corpo diventa una sorta di manifesto vivente. “L’anoressia è una patologia afona”, scrive Freeman. Non si urla, non si piange, non si spiegano i propri stati d’animo: li si scrive addosso, osso dopo osso.

Il corpo asessuato, spogliato dei suoi attributi femminili, è un modo per sottrarsi allo sguardo altrui, ma anche per fermare il tempo, evitare la crescita, la maternità, la sessualità.

Un’uscita senza trionfo

Freeman è sopravvissuta, ma non trionfante. Dopo nove ricoveri, una lunga terapia e una vita riconquistata centimetro per centimetro, la parola “guarigione” le appare comunque ambigua. C’è sempre una parte di sé che rimane là, nel corridoio dell’ospedale, con i biscotti sbriciolati e i passi lenti. Le capita ancora oggi di incrociare per strada ragazze magrissime che le fanno scattare dentro un riconoscimento immediato e doloroso. Sono spettri, apparizioni, richiami.

Non esiste una fine netta, ma un equilibrio da mantenere. “Essere malate è una rogna, per sé e per gli altri”, scrive. E aggiunge: “Non bisogna arrivare a distruggersi per sentirsi autorizzate alla rabbia”.Una possibilità di ritorno

L’anoressia è un percorso che lascia cicatrici. Ma, come racconta Freeman, arriva a volte un momento – piccolo, silenzioso – in cui qualcosa cambia. Si insinua un pensiero: non voglio più che la mia vita sia questa. Se nel Medioevo l’unico esito possibile era la crocifissione o il rogo, oggi – almeno in parte – è possibile trovare nuove vie. L’identità anoressica, così seducente nella sua assolutezza, può essere sostituita da qualcosa di più imperfetto ma più umano: il desiderio, il legame, il ritorno alla vita.

Perché la fame che brucia dentro – quella vera – è fame di riconoscimento, di ascolto, di senso. E non può essere colmata da una ciotola vuota.


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L’arte come atto di resistenza: da Cézanne a Giacometti

Nel cuore della National Gallery of Australia, una mostra racconta la forza dell’arte nei momenti più oscuri della storia. Cézanne to Giacometti: Highlights from Museum Berggruen/Neue Nationalgalerie, aperta fino al 21 settembre 2025, ripercorre l’evoluzione del modernismo attraverso le opere di grandi maestri del XX secolo, ma soprattutto attraverso la straordinaria vicenda personale e culturale di Heinz Berggruen, il mercante d’arte ebreo che trasformò l’esilio in una dichiarazione di libertà estetica e morale.

Una fuga, una rinascita

Nel 1936, a soli 25 anni, Heinz Berggruen fu costretto a lasciare la Germania nazista. Uscì dal paese con in tasca appena dieci marchi e un’identità mutilata, costretto fino ad allora a firmare gli articoli da giornalista con le sole iniziali “hb” per sfuggire all’antisemitismo dilagante. Trovò rifugio negli Stati Uniti, dove la sua vita prese una direzione inaspettata: da profugo a collezionista raffinato, da anonimo emigrato a protagonista del mondo dell’arte moderna. Ma all’epoca della fuga, un simile destino sembrava del tutto impensabile.

Solo un anno dopo la sua partenza, il regime nazista dava il via alla campagna più aggressiva contro la cultura moderna. La mostra Entartete Kunst (“Arte degenerata”), allestita a Monaco nel 1937, fu il culmine di questa offensiva. Oltre 16.000 opere furono confiscate dai musei tedeschi; alcune furono ridicolizzate pubblicamente, altre distrutte. Paul Klee, Kandinsky, Chagall, Picasso: gli artisti moderni venivano bollati come nemici della nazione, simboli di un decadimento da estirpare.

La collezione come testimonianza e riscatto

In questo contesto, l’impresa di Berggruen assume i tratti di una contro-narrazione potente. La sua prima acquisizione – un acquerello di Paul Klee acquistato a Chicago nel 1940 per 100 dollari – non fu soltanto un investimento, ma un gesto carico di significato personale e politico. Klee, anch’egli costretto a lasciare la Germania, rappresentava per Berggruen un’identificazione profonda, una memoria condivisa. L’opera, che egli considerava un “talismano”, lo accompagnò persino durante il servizio militare nell’esercito statunitense. “Un promemoria di una casa perduta, e di una Germania che non esisteva più”, osserva Natalie Zimmer, curatrice del Museum Berggruen a Berlino.

La raccolta di opere moderniste divenne negli anni una delle più vaste e raffinate collezioni private mai costituite. Ma soprattutto, fu un’opera di memoria e resistenza. Ogni acquisizione – dai ritratti frammentati di Picasso alle sculture filiformi di Giacometti, dagli acquerelli di Klee ai disegni di Matisse – era anche una sfida implicita all’estetica ufficiale del Terzo Reich. In un’epoca in cui l’arte era arma ideologica, Berggruen costruiva, tassello dopo tassello, un archivio dell’inaccettabile, dell’espulso, del vietato.

Dal Bauhaus all’Australia

La mostra della NGA non si limita a celebrare i grandi nomi dell’avanguardia europea, ma ne racconta anche la diaspora, il radicarsi in nuovi territori. Paul Cézanne, “il padre di tutti noi”, secondo Picasso, apre simbolicamente il percorso: la sua visione strutturale e innovativa della pittura prefigura le rivoluzioni formali di cubismo e fauvismo, influenzando profondamente artisti di generazioni successive. Anche laddove il legame non è immediato, l’eredità si fa sentire. Le sculture essenziali e svuotate di Alberto Giacometti, per esempio, “sono costruite particella per particella, come le pennellate costruttive di Cézanne”, sottolinea David Greenhalgh, curatore della NGA.

Ma la mostra dà spazio anche a figure spesso trascurate nella narrativa dominante. Dora Maar, nota ai più come musa di Picasso, viene qui riscoperta come artista autonoma e provocatoria. Nel suo Ritratto di Pablo Picasso del 1938, Maar ribalta i ruoli tradizionali: il genio maschile diventa oggetto dello sguardo, ritratto in forme disturbanti e con occhi vuoti, quasi alienati. Ancora più eloquenti sono le sue fotografie in bianco e nero: frammenti urbani e volti anonimi, documenti di un mondo osservato con lucidità e compassione.

Un altro snodo cruciale della mostra riguarda Ludwig Hirschfeld-Mack, artista formatosi al Bauhaus e costretto all’esilio. Fuggito in Inghilterra, fu poi deportato in Australia come “straniero nemico”. Internato nei campi di Hay, Orange e Tatura, trasformò la prigionia in produzione artistica. La sua xilografia Desolazione: campo di internamento, Orange, Nuovo Galles del Sud (1941) è una testimonianza visiva toccante dell’alienazione e della resistenza interiore, capace di innestare il linguaggio dell’avanguardia europea nella realtà austera del paesaggio australiano.

Un’eredità riconciliata

Nel 2000, Heinz Berggruen compì un gesto che chiuse simbolicamente il cerchio della sua vicenda. Vendette l’intera collezione allo Stato tedesco a condizioni favorevoli, rifiutando offerte più vantaggiose provenienti da Londra o Ginevra. “Fu un grande atto di riconciliazione”, osserva Gabriel Montua, direttore del Museum Berggruen, “da parte di qualcuno che era stato cacciato dalla Germania e che, sessant’anni dopo, scelse di restituire tutto a Berlino”.

La collezione, ora parte integrante della Neue Nationalgalerie, non è soltanto una galleria di capolavori. È un monumento alla capacità dell’arte di attraversare le catastrofi, un archivio del dissenso, un elogio dell’alterità. La mostra di Canberra – che raccoglie i vertici di questa raccolta – rende accessibile a un nuovo pubblico l’eredità di un uomo che fece della bellezza una risposta alla barbarie, e della memoria un gesto di fiducia nel futuro.


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Tra marketing di massa e nostalgia della semplicità

C’è una scena sempre più familiare a chiunque abbia messo piede in un supermercato negli ultimi anni. Una donna, ferma davanti al banco frigorifero, scruta le confezioni di mozzarella con lo sguardo di chi sta valutando un acquisto esistenziale. Sfiora l’involucro, legge le etichette, confronta ingredienti, origini e certificazioni. Intorno a lei, il flusso dei clienti scorre veloce: pochi secondi per ciascuna decisione, un gesto meccanico, un compromesso tra convenienza e consuetudine.

Il suo è un gesto raro, quasi anacronistico, in un contesto in cui il “good enough” – il “va bene così” – è diventato l’approccio dominante alla spesa. La proliferazione dei prodotti sugli scaffali – decine di varianti dello stesso bene, differenze minime spacciate per innovazioni decisive – ha trasformato ogni scelta in un rompicapo. L’illusione della varietà ha prodotto l’effetto opposto: saturazione, confusione, rinuncia.

Questa è la trappola della troppa scelta, un paradosso che il marketing contemporaneo ha alimentato per decenni, nel tentativo di differenziare prodotti che, sotto la superficie, sono straordinariamente simili.

Il miraggio della differenziazione

Youngme Moon, docente ad Harvard e autrice del saggio Different, descrive con precisione questo fenomeno. Nel suo racconto, lo scaffale del supermercato diventa il simbolo di una tendenza più ampia: quando un marchio introduce una novità – uno yogurt con un nuovo probiotico, uno shampoo “tonificante” – gli altri lo seguono a ruota. È la legge del branco applicata al marketing. Il risultato è un’omogeneità eterogenea: tutto appare diverso, ma in realtà è tutto uguale.

L’innovazione si riduce spesso a modifiche cosmetiche: un nuovo colore, un’etichetta rivisitata, un claim più o meno credibile (“naturalmente ricco di calcio”, “senza olio di palma”, “dalla fattoria alla tavola”). La competizione si gioca sul terreno delle micro-varianti, e raramente sfocia in una vera rottura di paradigma. I prodotti si moltiplicano senza cambiare davvero, mentre i consumatori si ritrovano sopraffatti, costretti a scegliere tra decine di opzioni tutte ugualmente intercambiabili.

L’esempio dei biscotti Oreo negli Stati Uniti è emblematico: così tante varianti che nemmeno Wikipedia riesce a censirle tutte. E non è un caso isolato. Le penne Bic nere? Introvabili, sommerse da alternative “fluide”, “ergonomiche”, “a scorrimento veloce”. La personalizzazione estrema ha lasciato il posto a una frammentazione sterile.

In uno dei supermercati di Bologna

Consumatori disillusi

In questo scenario, il consumatore medio reagisce con pragmatismo. Secondo Moon, si può dividere in almeno tre categorie: il connoisseur, attento, curioso, spesso appassionato; l’opportunista saggio, che fa scelte sensate ma senza entusiasmo; e il pragmatico disilluso, che agisce per inerzia, delegando alle promozioni o al posizionamento sullo scaffale.

Queste categorie coesistono dentro ciascuno di noi. Possiamo essere cultori della birra artigianale e allo stesso tempo acquirenti svogliati di carta igienica in promozione. A seconda del tempo, dell’interesse o del budget, oscilliamo tra coinvolgimento e indifferenza. E quando la spesa diventa un’impresa, la semplificazione torna ad avere un valore.

I consumatori si stancano. Anche il più appassionato esperto, dopo anni passati a riconoscere impercettibili note fruttate in un vino piemontese di nicchia, può finire per rifornirsi di bottiglie in offerta al discount. Il tempo, non la qualità, diventa la risorsa scarsa.

E così, la figura del connoisseur, prima celebrata come emblema di raffinatezza e competenza, inizia a essere percepita con sospetto. Chi si appassiona troppo a mozzarelle o acque minerali rischia l’etichetta del bizzarro. Le differenze sono troppo lievi per giustificare tanto impegno.

La standardizzazione come rifugio

I produttori lo sanno, e adeguano le strategie. È più sicuro aggiungere una nuova variante di shampoo che lanciare un prodotto realmente diverso. I manager preferiscono soluzioni a basso rischio e risultati misurabili nel breve periodo. Le innovazioni radicali – come quelle che un tempo hanno permesso a Google o IKEA di emergere – sono rare, e soprattutto costose, rischiose, non garantiscono il successo né premiano chi ci prova.

In Italia, un mercato storicamente avverso al fallimento, chi rischia è penalizzato. Meglio un 5% in più di vendite trimestrali che un’idea dirompente da coltivare per tre anni. I manuali di marketing predicano differenziazione, ma nella pratica si premia la sopravvivenza.

Dove finisce la scelta

Eppure, non tutto è perduto. Il digitale offre nuovi spazi di espressione, e una riconciliazione possibile tra i mondi contrapposti del consumo: quello del connoisseur e quello del pragmatico. Online si trovano sia piattaforme con pochi prodotti selezionati (come Brandless, che vende articoli a prezzo unico e in numero limitato), sia store iperspecializzati in nicchie microscopiche, dove i cultori del gusto possono scambiarsi recensioni e scoperte.

Un esempio? Le recensioni di acque minerali su Amazon, dove alcuni utenti giudicano la qualità sulla base del residuo fisso, consigli medici, persino ipotesi sulla conservazione in magazzino. È l’iper-competenza traslata nel regno dell’ordinario, dove anche un’acqua da supermercato può diventare oggetto di culto.

Ma la vera svolta sarà tecnologica. Intelligenza artificiale e comandi vocali stanno già cambiando il nostro rapporto con la spesa. Dire “Alexa, aggiungi la mozzarella e la birra alla lista” significa abbandonare il processo decisionale. È l’algoritmo a conoscere le nostre preferenze, a filtrare le opzioni, a liberarci dal peso della scelta. Il connoisseur sopravvive nei forum, il pragmatico trionfa nel machine learning.

Verso una nuova sobrietà?

Il futuro potrebbe dunque non essere una guerra tra eccesso e semplificazione, ma una convivenza digitale tra stili di consumo. Ognuno di noi potrà oscillare, a seconda dei momenti e delle piattaforme, tra esplorazione e automatismo, tra passione e pigrizia. L’identità del consumatore si fa fluida, come la sua presenza sugli scaffali – reali o virtuali che siano.

E se la varietà continuerà a crescere, lo farà in silenzio, nascosta dietro un’interfaccia più semplice, in grado di proteggerci da quell’abbondanza che, per molti, è ormai solo un fastidio. La mozzarella giusta, alla fine, la troverà l’intelligenza artificiale. Purché non sia quella al cetriolo.


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