“LOVING PICASSO” al JMuseo di Jesolo

Dopo il grande successo della mostra “Banksy&Friends: l’arte della ribellione”, il JMuseo di Jesolo accoglie le opere di uno tra i più influenti artisti del XX secolo con “LOVING PICASSO”, una mostra inedita che indaga gli aspetti più intimi della vita dell’artista spagnolo come quello con l’universo femminile, che tanto ha condizionato la sua vita personale come la sua produzione artistica.

“LOVING PICASSO”

JMuseo, Jesolo

19 aprile – 12 ottobre 2025

Nel fluido intreccio tra arte e vita, la mostra Loving Picasso si propone di esplorare la complessa e sfaccettata relazione che Pablo Picasso intrattenne con l’universo femminile, con le sue donne, sue muse soggetti privilegiati di studio e fonte di ispirazione che si riflette in modo inconfondibile nelle diverse fasi della sua evoluzione stilistica.

L’esposizione intende offrire al pubblico un’immersione profonda in questo aspetto cruciale della vita e dell’opera picassiana, rivelando come l’artista spagnolo abbia costantemente trasfigurato la sua esperienza emotiva e sentimentale in straordinari capolavori, nei quali la figura femminile appare contemporaneamente oggetto di desiderio, di contemplazione estetica e di trasformazione formale secondo i canoni delle sue rivoluzionarie sperimentazioni visive che hanno segnato indelebilmente la storia dell’arte del Novecento.

La sezione dedicata alle serie grafiche di Picasso si apre con la potente Tauromaquia o Arte de Torear del 1959, un ciclo nel quale la corrida, simbolo della cultura spagnola, diventa metafora di seduzione e di lotta, riflettendo la visione profondamente passionale che l’artista nutriva nei confronti delle relazioni amorose, dove il toro e il torero danzano in un rituale che evoca la tensione erotica e il gioco di potere che Picasso stesso sperimentava nei suoi rapporti con le donne.

In Dans l’atelier de Picasso, lo spettatore è invece invitato a entrare nello spazio intimo della creazione artistica, dove modelle e amanti si trasformano in protagoniste di un universo in cui l’atto creativo si confonde con l’esperienza erotica, mentre la Suite des Saltimbanques (1905) ci riporta al periodo rosa, quando la fragile figura di Fernande Olivier influenzava la visione dell’artista, popolando le sue opere di figure circensi che sembrano celebrare una bellezza malinconica e transitoria.

La Barcelona Suite (1901-1907) chiude questa sezione ripercorrendo gli anni formativi di Picasso, quando il giovane artista iniziava a esplorare il rapporto tra identità maschile e femminile attraverso una pittura che già manifestava il suo straordinario potere di metamorfosi formale e la sua capacità di cogliere l’essenza psicologica dei suoi soggetti; per concludere con una selezione delle sue ceramiche più rappresentative realizzate tra il 1952 e il 1969, periodo maturo in cui Picasso, stabilito a Vallauris, trasformò anche questa antica arte in un campo di sperimentazione dove le forme femminili assumono un carattere telluricamente sensuale, incarnandosi in vasi e piatti che celebrano la fertilità e la vitalità dell’eterno femminino attraverso un linguaggio che fonde tradizione mediterranea e innovazione formale.

Un capitolo fondamentale della mostra è dedicato a Dora Maar, fotografa e pittrice surrealista che fu compagna di Picasso durante gli anni bui della guerra civile spagnola e del secondo conflitto mondiale, un periodo in cui l’intensità della relazione si tradusse in una serie di ritratti nei quali il volto dell’amata venne sottoposto a una destrutturazione formale che rifletteva tanto la personalità complessa e tormentata della donna quanto le angosce dell’epoca.

L’esposizione presenta una selezione di disegni, oli, acquerelli e fotografie incise realizzate dalla Maar, opere che rivelano non solo il talento autonomo di questa straordinaria artista, ma anche il dialogo creativo che si instaurò con Picasso, un confronto nel quale è possibile cogliere tanto l’influenza del maestro quanto la capacità della fotografa di elaborare un linguaggio visivo personale, dove l’occhio fotografico si combina con la sensibilità pittorica in un connubio che anticipa molte delle sperimentazioni dell’arte contemporanea e che testimonia come l’influenza tra i due amanti fosse bidirezionale, in un flusso creativo nel quale ciascuno trovava nell’altro stimoli per esplorare nuove possibilità espressive.

La presenza delle litografie di Françoise Gilot costituisce un altro momento cruciale del percorso espositivo, illuminando la figura di colei che fu non solo amante e madre di due figli di Picasso, ma anche un’artista capace di affermare con determinazione la propria indipendenza creativa, tanto da essere l’unica donna che ebbe il coraggio di abbandonare l’artista, rifiutando il ruolo subalterno al quale egli tendeva a relegare le sue compagne.

Le litografie esposte testimoniano la raffinatezza del linguaggio visivo della Gilot, la sua capacità di sviluppare un proprio vocabolario formale che, pur mostrando tracce del dialogo con Picasso, manifesta una personalissima visione del mondo e una sensibilità cromatica che trasforma l’influenza del maestro in qualcosa di completamente nuovo e originale, rivelando come la giovane pittrice francese riuscì a trarre dalla relazione con il genio spagnolo gli stimoli per sviluppare un percorso artistico autonomo che proseguì con successo ben oltre la fine del loro legame sentimentale, dimostrando che l’eredità di Picasso poteva essere raccolta e trasformata in modo creativo, senza rimanerne schiacciati.

La mostra si completa con una sezione dedicata ai ritratti di Picasso realizzati da Robert Capa nel 1948, un momento in cui l’artista, ormai sessantasettenne, viveva la relazione con Françoise Gilot in un clima di apparente serenità domestica sulla Costa Azzurra. Questi scatti, realizzati da uno dei più grandi fotografi del Novecento, rivelano un Picasso giocoso e rilassato, intento a creare sulla spiaggia o nel suo studio, spesso circondato da amici e familiari, ma sempre con quello sguardo penetrante che sembra voler catturare ogni aspetto della realtà per trasformarlo in arte.

Le fotografie di Capa, con la loro immediatezza e la loro profondità psicologica, offrono uno spaccato della vita dell’artista in un momento particolare della sua esistenza, quando la presenza di una giovane compagna sembrava avergli restituito un’energia creativa che si manifestava in una produzione instancabile e in un rinnovato interesse per nuove tecniche espressive, come la ceramica, che lo avrebbe impegnato negli anni successivi, confermando ancora una volta come l’amore e la passione fossero per Picasso non solo esperienze esistenziali ma autentici motori creativi.


Sede
J MUSEO
Via Aldo Policek, 7
30016 – Jesolo (VE)

Date al pubblico
19 aprile – 12 ottobre 2025

Biglietti
Intero 12,00 €
Ridotto 10,00 €

Info su orari, eventi e biglietti e prenorazioni
www.comune.jesolo.ve.it
www.jmuseo.it
info@jmuseo.it

Social e Hashtag ufficiale
#PicassoJesolo
#LovingPicasso
@jmuseojesolo
@arthemisiaarte

Ufficio Stampa Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

Il fascino discreto degli amici immaginari dei bambini

L’infanzia, quel territorio fertile dell’immaginazione, è spesso popolato da figure elusive, compagni di giochi che sfidano le leggi della realtà: gli amici immaginari. Questi alter ego, talvolta invisibili, altre volte incarnati in un oggetto di uso quotidiano, rappresentano un fenomeno sorprendentemente comune e ricco di sfumature psicologiche. Tracy Gleason, docente di psicologia al Wellesley College e fine studiosa di questi “compagni immaginari”, ci guida in un’esplorazione di tale affascinante aspetto dello sviluppo infantile.

Contrariamente alla rappresentazione stereotipata di entità eteree che popolano l’immaginario horror, l’amico immaginario assume sovente le sembianze di un oggetto animato dalla fervida fantasia del bambino. Un peluche, una bambola, o, come nel curioso caso riportato da Gleason, una lattina di concentrato di pomodoro, possono diventare il fulcro di un’intensa relazione affettiva.

La diffusione di questo fenomeno è tutt’altro che aneddotica. Uno studio del 2004 ha rivelato che una percentuale significativa, pari al 65%, dei bambini dichiara di aver avuto almeno un amico immaginario entro il settimo anno di età. Ma quali sono le motivazioni che si celano dietro questa tendenza universale?

Gleason suggerisce che l’amico immaginario possa rappresentare uno strumento per sperimentare le complessità del mondo sociale in un ambiente protetto. In un contesto in cui le dinamiche relazionali possono apparire labirintiche e imprevedibili, l’amico immaginario offre un porto sicuro, un confidente che non tradisce e non giudica.

Naomi Aguiar, ricercatrice e co-autrice di un volume sul tema, aggiunge un’ulteriore dimensione a questa analisi, sottolineando il ruolo ludico e di intrattenimento che questi compagni svolgono nella vita dei bambini. In fondo, la risposta potrebbe essere tanto semplice quanto profonda: i bambini creano amici immaginari perché è divertente.

Oltre l’infanzia: la persistenza del compagno immaginario

Sebbene l’amico immaginario sia un fenomeno tipico della prima infanzia, la sua presenza può estendersi all’età scolare, all’adolescenza e persino all’età adulta. La varietà delle forme che questi compagni possono assumere è sorprendente. Uno studio del 2004 ha rilevato che il 57% degli amici immaginari erano figure umane, il 41% animali, e un residuo 1% includeva esseri capaci di metamorfosi.

Le testimonianze raccolte da Aguiar e altri ricercatori offrono uno spaccato affascinante della ricchezza e della complessità di queste relazioni. Si va dalla bambina di nove anni amica di una “tigre siberiana invisibile”, dotata di forza ma bisognosa di conforto, al bambino con un pony di peluche “agente segreto con vista a raggi X”, fino all’inatteso “cartone del latte invisibile”, descritto come una sorta di coscienza.

Questi esempi evidenziano come l’amico immaginario possa fungere da specchio delle emozioni e delle preoccupazioni del bambino, aiutandolo a elaborare le sfide relazionali tipiche della sua età. Le amicizie, con le loro regole non scritte e la loro natura volontaria, possono generare ansia e incertezza. L’amico immaginario offre un terreno di prova per sperimentare dinamiche sociali, negoziare conflitti e comprendere le sfumature delle interazioni umane.

Non di rado, infatti, l’idillio immaginario è interrotto da litigi e incomprensioni. Un’amica immaginaria che tira i capelli o un gorilla che si ostina a non voler andare al parco diventano pretesti per esplorare le frustrazioni e le difficoltà che si incontrano nel tessere legami con gli altri.

Normalità, creatività e crescita

È fondamentale sottolineare che la presenza di un amico immaginario rientra pienamente nella normalità dello sviluppo infantile. Contrariamente a vecchie credenze che lo associavano a solitudine o disturbi emotivi, gli esperti concordano nel considerarlo un fenomeno sano e persino benefico.

In alcuni casi, l’amico immaginario può rappresentare un meccanismo di coping di fronte a eventi traumatici. Bambini che hanno subito abusi, ad esempio, possono inventare figure protettive che li aiutino a elaborare l’esperienza. Allo stesso modo, periodi di isolamento, come quelli imposti dalla pandemia, possono intensificare il ricorso a compagni immaginari come fonte di conforto e svago.

Ma al di là di queste situazioni particolari, l’amico immaginario è soprattutto un’espressione della straordinaria creatività infantile e del bisogno di gioco. Christine Nguyen, madre di due figli, racconta con vivacità dell’amicizia della figlia con Hammie, un criceto di peluche irriverente e sopra le righe. Hammie, con le sue bravate e il suo stile di vita eccentrico, incarna il desiderio di trasgressione e di libertà che spesso caratterizza l’infanzia.

In un mondo in cui i bambini sono costantemente sottoposti a regole e limitazioni, l’amico immaginario rappresenta uno spazio di autonomia e di creazione illimitata. È un territorio in cui l’immaginazione regna sovrana e in cui ogni bambino può essere l’artefice del proprio universo narrativo.

In conclusione, l’amico immaginario non è semplicemente un capriccio infantile, ma un fenomeno complesso e sfaccettato che merita di essere osservato con curiosità e rispetto. È una finestra sulla ricchezza della vita interiore dei bambini, sulle loro capacità creative e sulla loro resilienza nel costruire un significato nel mondo che li circonda.


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Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

130 saggi per orientarsi: una guida per lettori curiosi

Cosa leggere per comprendere davvero il mondo in cui viviamo? Quali libri sanno offrire strumenti duraturi per interpretare la realtà, al di là delle mode editoriali e dei titoli da classifica? Per chi ama la saggistica, quella vera, che attraversa i secoli e lascia un segno nella storia delle idee, esiste un punto di partenza: una selezione ragionata di opere fondamentali, da leggere almeno una volta nella vita.

È questo lo spirito con cui nasce una lista di 130 titoli, pensata per accompagnare il lettore curioso nella pianificazione delle proprie letture. Non si tratta di una classifica né di un canone immutabile, ma di una raccolta simbolica di testi non fiction che hanno plasmato, commentato o messo in crisi la cultura occidentale e non solo. Opere che, pur nella loro eterogeneità, hanno contribuito a costruire il nostro modo di pensare, di analizzare i fenomeni, di dialogare con il passato e con il presente.

La saggistica, in questa prospettiva, viene intesa nel senso più ampio possibile: tutto ciò che si colloca al di fuori della narrativa, ma che della narrativa talvolta condivide il respiro e l’ambizione. In questa lista trovano spazio opere di filosofia, scienza, arte, psicologia, economia, storia, ma anche testimonianze biografiche, testi di analisi politica, racconti di viaggio, indagini giornalistiche, riflessioni sulla cultura pop e sulla società contemporanea. È un invito a esplorare territori del sapere spesso trascurati nell’immediato.

La selezione privilegia titoli pubblicati originariamente prima del 2015. La scelta non è casuale: si è preferito lasciare al tempo il compito di discernere tra l’attualità effimera e l’autentica tenuta culturale di un testo. I libri recenti, per quanto promettenti, devono ancora superare la prova della durata. Per questo motivo, in questa guida non troverete l’ultima uscita di tendenza, ma solo opere già riconosciute come snodi cruciali nel dibattito intellettuale.

Un orientamento non esaustivo, ma ricco

Compilare una lista del genere è inevitabilmente un atto selettivo. Ci ha pensato Il Libraio.it proponendo agli amanti della storia del pensiero 130 saggi da leggere almeno una volta nella vita. Una selezione durissima, fatta di rinunce per scegliere alcuni snodi esemplari, capaci di rappresentare tradizioni, visioni del mondo, approcci disciplinari. Per tracciare tale mappa della saggistica si è attinto anche a fonti autorevoli, come le celebri liste di Robert McCrum per il Guardian, le selezioni tematiche della redazione libri dello stesso giornale britannico, e quelle della Modern Library, tra le altre. Ne è derivato un orientamento che tende, in parte, verso una prospettiva europea e anglofona, ma che conserva al suo interno una buona varietà di stili e provenienze.

Tuttavia, si tratta di un punto di partenza per chi voglia costruire il proprio percorso. Un invito alla scoperta, alla rilettura, alla riflessione. Nessun libro è segnalato come “più importante” di un altro: non esiste un ordine gerarchico, e l’elenco può essere consultato liberamente, seguendo l’intuito, la curiosità o l’urgenza del momento.

Per chi ama pensare leggendo

I 130 saggi selezionati sono stati scelti per chi legge, non per evadere, ma per capire. Per chi considera il libro non solo un rifugio, ma anche uno strumento, una sfida, talvolta persino uno specchio. La lista non ha pretese esaustive – e anzi, stimola chi la legge a integrarla, discuterla, ampliarla – ma può diventare una bussola per orientarsi nella sterminata produzione del pensiero umano.

In un’epoca di iperproduzione editoriale e consumo rapido, fermarsi su opere dense, stratificate e durature è già un gesto controcorrente. Ritrovare le radici del sapere, i testi che hanno acceso idee, che hanno messo in crisi certezze, che hanno contribuito a spostare lo sguardo: è questa l’ambizione di una simile raccolta.

Chiunque abbia sentito, almeno una volta, il bisogno di interrogarsi sul senso profondo dei fenomeni sociali, politici, scientifici o spirituali che attraversano la nostra epoca, troverà in questi 130 titoli almeno una manciata di risposte. O, più probabilmente, nuove e feconde domande.

A seguire è la lista elaborata da Il Libraio.it e questo qui sotto è il link alla pagina da cui l’abbiamo tratta:

130 saggi da leggere una volta nella vita

  1. La sesta estinzione – Elizabeth Kolbert
  2. Storie – Erodoto
  3. Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo – Stephen Hawking
  4. Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente – Richard Dawkins
  5. La doppia elica – James D. Watson
  6. Primavera silenziosa – Rachel Carson
  7. La struttura delle rivoluzioni scientifiche – Thomas S. Kuhn
  8. Una stanza tutta per sé – Virginia Woolf
  9. Essere e tempo – Martin Heidegger
  10. L’origine delle specie – Charles Darwin
  11. Walden. Vita nei boschi – Henry David Thoreau
  12. Sui diritti delle donne – Mary Wollstonecraft
  13. La ricchezza delle nazioni – Adam Smith
  14. L’ imperatore del male. Una biografia del cancro – Siddhartha Mukherjee
  15. La vita immortale di Henrietta Lacks – Rebecca Skloot
  16. Tra me e il mondo – Ta-Nehisi Coates
  17. Il tennis come esperienza religiosa – David Foster Wallace
  18. La repubblica – Platone
  19. Il capitale – Karl Marx
  20. Così parlò Zarathustra – Friedrich Nietzsche
  21. Saggio sulla libertà – John Stuart Mill
  22. Se questo è un uomo – Primo Levi
  23. Il secondo sesso – Simone de Beauvoir
  24. L’interpretazione dei sogni – Sigmund Freud
  25. Analecta – Confucio
  26. Aspetti del romanzo – Edward Morgan Forster
  27. Una teoria della giustizia – John Rawls
  28. Sei pezzi facili + Sei pezzi meno facili – Richard P. Feynman
  29. Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti – Giorgio Vasari
  30. Miti d’oggi – Roland Barthes
  31. Declino e caduta dell’impero romano – Edward Gibbon
  32. La banalità del male – Hannah Arendt
  33. Postwar. Europa 1945-2005 – Tony Judt
  34. Gödel, Escher, Bach. Un’eterna ghirlanda brillante – Douglas Hofstadter
  35. Se niente importa – Jonathan Safran Foer
  36. Pensieri – Marco Aurelio
  37. L’arte della guerra – Sun Tzu
  38. Il linguaggio e la mente – Noam Chomsky
  39. Un indovino mi disse – Tiziano Terzani
  40. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione – Michel Foucault
  41. Saggi – Montaigne
  42. Critica della ragion pura – Immanuel Kant
  43. Retromania – Simon Reynolds
  44. Da animali a dèi. Breve storia del genere umano – Yuval Noah Harari
  45. Limonov – Emmanuel Carrère
  46. Sette brevi lezioni di fisica – Carlo Rovelli
  47. L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello – Oliver Sacks
  48. Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni – Jared Diamond
  49. Lezioni americane – Italo Calvino
  50. Dovremmo essere tutti femministi – Chimamanda Ngozi Adichie
  51. Pensieri lenti e veloci – Daniel Kahneman
  52. Il cigno nero – Nassim Nicholas Taleb
  53. Intelligenza meccanica – Alan M. Turing
  54. Discorso sulla servitù volontaria – Etienne de La Boétie
  55. La consolazione della filosofia – Severino Boezio
  56. La guerra del Peloponneso – Tucidide
  57. Spillover – David Quammen
  58. Breve trattato sulla decrescita serena + Come sopravvivere allo sviluppo – Serge Latouche
  59. Parole nel vuoto – Adolf Loos
  60. Il mito dell’analisi – James Hillman
  61. Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo – William McDonough e Michael Braungart
  62. Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein – Kip Thorne
  63. La vita segreta delle piante – Christopher Bird e Peter Tompkins
  64. La scimmia nuda – Desmond Morris
  65. La grande cecità – Amitav Gosh
  66. Il mondo di Sofia – Jostein Gaardner
  67. Le origini culturali della cognizione umana – Michael Tomasello
  68. Infinite forme bellissime. La nuova scienza dell’Evo-Devo – Sean B. Carroll
  69. Breve storia di quasi tutto – Bill Bryson
  70. Il teatro e il suo doppio – Antonin Artaud
  71. Il viaggio dell’eroe – Christopher Vogler
  72. Tractatus Logico-Philosophicus – Ludwig Wittgenstein
  73. Donne, razza e classe – Angela Davis
  74. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Walter Benjamin
  75. Etica ed economia – Amartya Sen
  76. Dei delitti e delle pene – Cesare Beccaria
  77. Minima moralia – Theodor W. Adorno
  78. Il Secolo breve – Eric Hobsbawm
  79. Il canone occidentale – Harold Bloom
  80. Gli uomini mi spiegano le cose – Rebecca Solnit
  81. Modernità e ambivalenza – Zygmunt Bauman
  82. Le confessioni – Sant’Agostino
  83. Il libro rosso – Carl Gustav Jung
  84. Evoluzione ed etica – Thomas Henry Huxley
  85. La mia vita con gli scimpanzé – Jane Goodall
  86. Il resto è rumore – Alex Ross
  87. Nelle terre estreme – Jon Krakauer
  88. Come educare il potenziale umano – Maria Montessori
  89. Il principe – Niccolò Machiavelli
  90. Sulla fotografia – Susan Sontag
  91. Retorica e poetica – Aristotele
  92. I principi della matematica – Bertrand Russell
  93. Teoria speciale e generale della relatività – Albert Einstein
  94. Il montaggio – Sergej M. Ėjzenštejn
  95. Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica – Karl R. Popper
  96. Teoria e pratica della non violenza – Mahatma Gandhi
  97. I sogni di mio padre – Barack Obama
  98. La costituzione italiana
  99. Pensare come una montagna – Aldo Leopold
  100. Arcipelago Gulag – Aleksandr Solženicyn
  101. Il contratto sociale – Jean Jacques Rousseau
  102. Il mito di Sisifo – Albert Camus
  103. La brevità della vita – Lucio Anneo Seneca
  104. L’arte di correre – Haruki Murakami
  105. Apocalittici e integrati – Umberto Eco
  106. Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente – Edward W. Said
  107. L’eunuco femmina. La femminilità come prodotto artificiale della castrazione di un essere chiamato donna – Germaine Greer
  108. I diritti dell’uomo e altri scritti politici – Thomas Paine
  109. Diario – Anna Frank
  110. Il mondo infestato dai demoni – Carl Sagan
  111. In principio era Darwin. La vita, il pensiero, il dibattito sull’evoluzionismo – Piergiorgio Odifreddi
  112. L’ultimo teorema di Fermat. L’avventura di un genio, di un problema matematico e dell’uomo che lo ha risolto – Simon Singh
  113. L’arte di amare – Erich Fromm
  114. Cannibali e re. Le origini delle culture – Marvin Harris
  115. Vi racconto l’astronomia – Margherita Hack
  116. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – Max Weber
  117. Autunno del Medioevo – Johan Huizinga
  118. La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero – Edgar Morin
  119. La teoria dei colori – Johann Wolfgang Goethe
  120. Elogio della follia – Erasmo da Rotterdam
  121. Ricordi di un entomologo – Jean-Henri Fabre
  122. Gaia. Nuove idee sull’ecologia – James Lovelock
  123. Lettere dal carcere – Antonio Gramsci
  124. L’anello di Re Salomone – Konrad Lorenz
  125. Il sublime oggetto dell’ideologia – Slavoj Žižek
  126. Nelle tempeste d’acciaio – Ernst Jünger
  127. I re taumaturghi – Marc Bloch
  128. Momenti fatali. Quattordici miniature storiche – Stefan Zweig
  129. Open – Andre Agassi
  130. Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – John Maynard Keynes
  131. BONUS: I 50 libri che hanno cambiato il mondo – Andrew Taylor

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Nell’antica Grecia a un banchetto si discute d’amore

Nel cuore dell’antica Atene del 416 a.C., durante un banchetto riservato agli uomini, si svolge un dialogo destinato a lasciare un segno indelebile nella storia della filosofia: il “Simposio” di Platone. In questa cornice conviviale, sette oratori si susseguono in un’indagine poliedrica sul significato dell’amore. Tra questi spicca la figura di Socrate, il filosofo che, con la sua celebre ammissione di ignoranza (“l’unica cosa che so è di non sapere”), ha rivoluzionato il pensiero occidentale.

Eppure, nel Simposio, Socrate sorprende i suoi commensali affermando di conoscere la “verità” sull’amore. Una verità, tuttavia, non frutto della sua speculazione solitaria, ma appresa da una figura misteriosa e affascinante: Diotima di Mantinea.

Diotima, descritta da Socrate come una “donna non ateniese, intelligente, che aveva conoscenza di questo e di molte altre cose”, si rivela essere la sua maestra d’amore. La sua identità storica è avvolta nel mistero: molti la considerano una creazione platonica, una sacerdotessa simbolica. Ma se accettassimo la testimonianza di Socrate e riconoscessimo in Diotima una figura reale, cosa implicherebbe ciò per la nostra comprensione del pensiero socratico e della natura stessa dell’amore?

La scala dell’amore di Diotima

La “verità sull’amore” rivelata da Diotima a Socrate si articola in una dottrina complessa e sfaccettata. L’amore, o meglio, lo spirito divino Eros, si manifesta a diversi livelli. Si parte dall’attrazione erotica verso la bellezza fisica di un corpo, per poi elevarsi al riconoscimento della bellezza come qualità astratta, presente in molteplici forme.

Questo percorso ascendente conduce l’amante a contemplare non solo la bellezza corporea, ma anche la bellezza dell’anima, la saggezza, le leggi e le istituzioni di una comunità. In ultima analisi, l’amore si configura come un viaggio iniziatico verso la “forma del bene”, l’apice della virtù morale.

Un mosaico di prospettive sull’amore

La concezione trascendente dell’amore proposta da Diotima, con la sua “scala” di elevazione spirituale, appare enigmatica persino a Socrate. Tuttavia, le tappe di questo percorso sono prefigurate dagli interventi degli oratori che precedono Socrate nel Simposio.

Ciascuno di essi, con la propria visione parziale e limitata, contribuisce a delineare un quadro più completo e sfumato dell’amore. Fedro esalta la nobiltà dell’amore, capace di ispirare gesti eroici e sacrifici. Pausania distingue tra l’amore puramente fisico e la forma più elevata di amore, fondata sull’impegno reciproco e la comunione spirituale. Erissimaco vede nell’amore una forza cosmica di armonia, operante nel corpo umano, nella musica e nella natura. Agatone celebra il potere creativo e l’eloquenza dell’amore, fonte di ispirazione artistica e letteraria. Aristofane, con il suo celebre mito degli “umani originari” divisi da Zeus, descrive l’amore come la ricerca della propria metà perduta, il desiderio di ricomporre l’unità primigenia.

Diotima: una figura storica nascosta?

Socrate identifica, dunque, in Diotima la fonte della sua dottrina sull’amore. L’assenza di attestazioni storiche indipendenti di Diotima ha alimentato lo scetticismo sulla sua reale esistenza. Tuttavia, i dettagli specifici forniti da Socrate suggeriscono che Diotima potrebbe essere almeno in parte ispirata a una figura storica realmente esistita: Aspasia di Mileto.

Aspasia, moglie di Pericle, il potente statista ateniese, era una donna di grande cultura e influenza. Le voci dell’epoca la dipingevano come una consigliera politica di Pericle, una figura controversa al centro della vita intellettuale ateniese.

Aspasia e l’ombra della peste

Un dettaglio enigmatico nel racconto di Socrate getta una luce nuova sul legame tra Diotima e Aspasia. Socrate afferma che Diotima “rinviò la peste di 10 anni, mentre gli Ateniesi compivano sacrifici per scongiurarla”. Questo riferimento temporale conduce a un evento storico preciso: la campagna di Pericle contro Samo del 439 a.C., segnata da una violenza inaudita.

La brutalità della conquista di Samo, con la crocifissione dei comandanti nemici e il diniego della sepoltura, suscitò orrore e timore tra gli Ateniesi. La mancata sepoltura dei nemici era considerata un sacrilegio, un’offesa agli dei che avrebbe potuto scatenare la loro ira sotto forma di pestilenza.

L’eco di questi timori risuona nell’Antigone di Sofocle, dove la mancata sepoltura di Polinice è vista come causa di contaminazione e punizione divina. In questo contesto, l’affermazione di Platone nel Simposio suggerisce che Aspasia, con la sua influenza su Pericle, potrebbe aver promosso sacrifici espiatori per placare gli dei e scongiurare la pestilenza. Il nome stesso di Diotima, che significa “onorata da Zeus”, rafforza il legame con Aspasia, soprannominata “Era” (moglie di Zeus) dai poeti comici in riferimento al suo rapporto con Pericle.

Aspasia, maestra di eloquenza e d’amore

Le testimonianze storiche dipingono Aspasia come una donna di straordinaria intelligenza ed eloquenza. Il suo salotto ateniese era un luogo di incontro per l’élite intellettuale, dove si discuteva di filosofia e, soprattutto, di amore. In questo ruolo, Aspasia può essere paragonata ai sofisti, i maestri itineranti che istruivano i giovani ateniesi nell’arte della retorica e della filosofia.

I discorsi di Diotima sull’amore, così come li riporta Socrate, trovano un riscontro nelle testimonianze su Aspasia: un approccio etico all’amore, che parte dalla sfera fisica per elevarsi alla virtù morale, in sintonia con la dottrina di Diotima.

I misteri dell’amore: tra Aspasia e Platone

Il discorso di Diotima nel Simposio si articola in una sorta di iniziazione ai “misteri” dell’amore. I “misteri minori” conducono all’amore per l’ordine e la giustizia, mentre i “misteri maggiori” culminano nella contemplazione della bellezza trascendente.

Tuttavia, a un certo punto del discorso, Platone introduce una distinzione sottile ma cruciale. Diotima mette in dubbio la capacità di Socrate di comprendere i “misteri maggiori”. Questo segna il punto di divergenza tra il pensiero di Aspasia e la filosofia platonica. La dottrina di Diotima si addentra in territori metafisici, introducendo la concezione delle “forme” che Platone svilupperà successivamente.

Il filosofo, pur riconoscendo l’influenza di Aspasia, non poteva attribuire a lei l’intera dottrina, consapevole che la seconda parte, i “misteri maggiori”, era una sua elaborazione personale. Aristotele stesso sottolineerà come Socrate non avesse alcun interesse per la teoria delle forme, pilastro della metafisica platonica.

L’eredità di Alcibiade: amore incarnato e trascendenza

Per riportare il discorso su un piano più terreno e concreto, Platone introduce la figura di Alcibiade, che irrompe nel simposio e pronuncia un elogio appassionato di Socrate. Il suo ritratto di Socrate, uomo di straordinaria forza d’animo, eloquenza e bellezza interiore, riprende molti dei temi affrontati dagli oratori precedenti, compresa la dottrina di Diotima.

L’intervento di Alcibiade, con la sua enfasi sull’amore incarnato e vissuto, sembra quasi mettere in ombra le astrazioni metafisiche di Diotima. Ma Platone non intende rinnegare la “verità sull’amore” rivelata da Diotima. Il discorso di Alcibiade non contraddice la dottrina di Diotima, ma la completa, mostrando come l’amore, pur nella sua imperfezione umana, contenga il germe della trascendenza.

La “verità sull’amore” che emerge dal Simposio è dunque un’armonia di concreto e astratto, un riconoscimento della forza trasformativa dell’amore in molteplici dimensioni: fisica, etica e intellettuale. La scala di Diotima non è un rifiuto dell’amore fisico, ma un’elevazione progressiva dell’energia erotica verso la saggezza.

riscoprire Aspasia: una voce fondamentale della filosofia

Il Simposio di Platone, letto alla luce della possibile influenza di Aspasia, ci offre una nuova prospettiva sulla filosofia greca. Ci mostra come le idee filosofiche possano nascere e svilupparsi nel dialogo, al di là dei confini di genere e sociali.

Riconoscere il contributo di Aspasia al pensiero socratico e alla dottrina di Diotima significa riscoprire una voce fondamentale della filosofia occidentale, una figura che ha saputo coniugare l’intelligenza, l’eloquenza e una profonda comprensione della natura umana.


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La più grande Biblioteca d’Italia si trova a Firenze

Contrariamente a quanto molti potrebbero credere, il primato della biblioteca più fornita d’Italia non spetta a Roma, bensì a Firenze. Sia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR) che la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (BNCF) sono istituzioni di rilievo nazionale, create dallo Stato per custodire il patrimonio editoriale italiano, una missione che affonda le radici in una tradizione nobile, talvolta ricondotta alla leggendaria Biblioteca di Alessandria.

Lo status di “biblioteca nazionale” implica un impegno costante all’arricchimento delle collezioni, con l’acquisizione annuale di nuove pubblicazioni. Nel caso specifico di Firenze, il patrimonio di partenza è imponente: si contano 15 milioni di volumi, un numero che include non solo libri, ma anche opuscoli, manoscritti, incunaboli, autografi ed edizioni cinquecentesche. Un tesoro librario unico, di valore inestimabile e in continua espansione.

Per dare un’idea della vastità di questo patrimonio, nel 2013 si calcolò che le scaffalature dei depositi librari fiorentini si estendevano per 135 chilometri lineari, una cifra che cresce di circa 1,5 chilometri ogni anno. È importante sottolineare che non è l’edificio in sé ad aumentare di dimensioni, pur necessitando di spazi sempre maggiori, ma il catalogo: 6 milioni di volumi a stampa, 2,7 milioni di opuscoli, 25.000 manoscritti, 3.716 incunaboli, 30.000 edizioni del XVI secolo e oltre un milione di autografi. Nel 2013, le opere consultate in un anno ammontavano a 304.214.

La storia della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (BNCF) è strettamente legata alla sua illustre antenata. La prima biblioteca pubblica del mondo fu fondata proprio a Firenze nel 1441, con il nome di Medicea pubblica. Le origini dirette dell’attuale BNCF risalgono al bibliotecario Antonio Magliabechi, che nel 1714 donò la sua collezione privata di circa 30.000 volumi al Granduca Cosimo III, con l’intento di istituire una biblioteca pubblica “a beneficio universale della città di Firenze”. A partire dal 1737, la Biblioteca Magliabechiana ottenne il diritto di deposito legale limitatamente alla città di Firenze, poi esteso al Granducato di Toscana, e fu aperta al pubblico nel 1747. Il patrimonio crebbe ulteriormente grazie a donazioni, lasciti testamentari e acquisizioni da monasteri soppressi.

Una tappa fondamentale nella storia dell’istituzione fu il 22 dicembre 1861, quando l’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Francesco De Sanctis, ne ordinò la fusione con la Biblioteca Palatina (Palazzo Pitti), dando vita alla Biblioteca Nazionale. Con un decreto del 25 novembre 1869, alla biblioteca fu concesso il diritto di deposito legale su tutto il territorio italiano.

Dopo che Firenze divenne capitale del Regno d’Italia nel 1865, in seguito all’annessione del Regno di Sardegna-Piemonte, e successivamente il trasferimento della capitale a Roma nel 1870, si decise di non spostare la Biblioteca Nazionale da Firenze. Nel 1876 fu inaugurata una seconda Biblioteca Nazionale a Roma. Dal 1885, per distinguerle dalle altre biblioteche nazionali, le due istituzioni assunsero il nome di “Biblioteca Nazionale Centrale”.

A partire dal 1911, fu costruito l’attuale edificio della biblioteca in Piazza dei Cavalleggeri, sulle rive dell’Arno, su progetto dell’architetto Cesare Bazzani, poi ampliato da Vincenzo Mazzei. La biblioteca si trasferì nella nuova sede nel 1935.

Il patrimonio della biblioteca ha rischiato di essere irrimediabilmente perduto durante la tragica alluvione del 4 novembre 1966. La vicinanza al fiume fece sì che l’acqua invadesse completamente gli interni dell’edificio, raggiungendo in alcuni punti i sei metri di altezza. I danni furono ingenti, ma l’opera degli “Angeli del Fango”, volontari provenienti da tutto il mondo, fu provvidenziale. Nel freddo di novembre e in condizioni difficili, senza elettricità, si prodigarono per mettere in salvo i libri, in un’impresa che merita a pieno titolo l’appellativo di eroica. Il loro impegno è oggi ricordato da una targa nel portico d’ingresso della biblioteca. Oggi, con un patrimonio di circa nove milioni di volumi, la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze si conferma come la più grande d’Italia, un faro di cultura e sapere nel cuore del Rinascimento italiano.


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Per Pasquetta andavamo ad Èmmaus

Gite fuori porta il lunedì dell’Angelo

Per Pasquetta andavamo ad Èmmaus

Il profumo della primavera si mescola all’aria frizzante di festa: è arrivata Pasquetta, il Lunedì dell’Angelo che segue la solennità della Pasqua. Se la domenica è stata dedicata alla famiglia e alle celebrazioni, il lunedì è il giorno perfetto per staccare la spina e godersi le prime tiepide giornate all’aperto. Un giorno senza formalità: Pasquetta è sinonimo di scampagnate, picnic sull’erba e, immancabilmente, grigliate in compagnia. Che siate diretti verso fresche pinete o spiagge dorate oppure verso gli angoli suggestivi da riscoprire, la parola d’ordine è convivialità e relax.

La chiamiamo comunemente Pasquetta, perché è il giorno dopo la Pasqua, la sua continuazione, detta perciò anche piccola Pasqua. Quindi, come la Pasqua, neppure questa festa ha una data fissa, ma cade sempre tra il 23 marzo e il 26 aprile. Nei primi secoli cristiani, la Pasqua si celebrava per un’intera settimana dopo la domenica solenne, ma nella maggior parte dei Paesi in seguito è stata ridotta a un solo giorno. Di fisso la Pasquetta ha che cade sempre di lunedì. Tuttavia, la domanda più ricorrente è sapere quale sia il motivo questo lunedì sia diventato una festa solenne. Questo perché è la risposta dell’uomo alla sorpresa di Dio. Il significato è quindi radicato nella tradizione cristiana, ma cosa centrano le scampagnate? Proviamo a spiegarlo.

Sappiamo bene che ogni evangelista segue una narrazione propria, ma in questo caso, tutti concordano che il terzo giorno Gesù Cristo sia risorto dal sepolcro. I Sacri testi, però, non sono in grado di descrivere l’evento miracoloso, ma possono testimoniare che la tomba era vuota quando un gruppo di donne giunse nel luogo della sepoltura con l’intento di completare l’imbalsamazione del cadavere di Gesù. Imbalsamazione sospesa il venerdì sera, inizio del sabato, sul calare del sole. Secondo il racconto del Vangelo di Marco, Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Maria di Salome, all’alba del giorno dopo il sabato, cioè la domenica mattina, trovarono che il macigno che avrebbe dovuto serrare la tomba era stato rimosso e il sepolcro si presentava del tutto vuoto. Ecco, però, che un angelo apparve alle tre donne e le rassicurò dicendo loro di non avere alcun timore, perché Gesù il Crocifisso era risorto esattamente come aveva predetto. Gesù, parlando di sé stesso, aveva detto: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (Luca). Poi l’angelo raccomandò alle donne di andare subito a riferirlo agli apostoli ed esse non mancarono di farlo.

La nostra festa del Lunedì dell’Angelo prende, quindi, il nome da questo episodio evangelico nel quale è annunciata la Resurrezione di Gesù Cristo. A seconda delle versioni non tutti i Vangeli concordano sul numero dei presenti all’apparizione dell’angelo e neppure fanno chiarezza se ad apparire sia stato un solo angelo o più di uno. Inoltre, tacciono del tutto sul perché le guardie non si fossero accorte di un evento sbalorditivo come la resurrezione di un morto. Infatti, su indicazione di Pilato, era stato ordinato da parte delle autorità locali che la tomba venisse «vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: “È risorto dai morti”. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!» (Matteo).

Leggiamo lo stesso episodio davanti alla tomba vuota, secondo il Vangelo di Matteo: «Dopo il sabato, verso l’alba del primo giorno della settimana, Maria Maddalena e l’altra Maria andarono a vedere il sepolcro. Ed ecco si fece un gran terremoto; perché un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e vi sedette sopra. Il suo aspetto era come di folgore e la sua veste bianca come neve. E, per lo spavento che ne ebbero, le guardie tremarono e rimasero come morte. Ma l’angelo si rivolse alle donne e disse: «Voi, non temete; perché io so che cercate Gesù, che è stato crocifisso. Egli non è qui, perché è risuscitato come aveva detto; venite a vedere il luogo dove giaceva. E andate presto a dire ai suoi discepoli: “Egli è risuscitato dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, ve l’ho detto».

Salta all’occhio, però, che i testi Sacri fanno riferimento a «dopo il sabato, verso l’alba del primo giorno della settimana» (Matteo), quindi raccontano di fatti avvenuti nel giorno di domenica. Noi stiamo parlando, invece, di Lunedì dell’Angelo. Il suo annuncio avvenne nel “giorno dopo Pasqua”, che per noi è chiaramente lunedì. Ma questo non corrisponde con l’esattezza temporale narrata dai Vangeli, giacché la Pasqua ebraica si celebra di sabato e il giorno successivo non può che cadere di domenica, com’è espressamente scritto nei Vangeli. In compenso la nostra Pasqua si festeggia proprio di domenica, perché nei Vangeli è riportato che il sepolcro vuoto di Gesù Cristo fu scoperto il giorno successivo al sabato. Insomma, i testi cristiani, come quelli ebraici, seguono gli evangelisti quando chiamano la Pasqua anche Domenica della Resurrezione. Ma poi i cristiani inventano un lunedì di troppo quando narrano dell’apparizione dell’angelo che sarebbe avvenuta di lunedì anziché di domenica.

Per raccontare la Resurrezione, forse conviene cambiare prospettiva e ricorrere ad altre apparizioni, in tal caso da parte dello stesso Gesù. Tra queste apparizioni emerge l’episodio riferito a Maria di Magdala. Conviene per l’esattezza leggere direttamente il testo dell’evangelista Giovanni: «Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi, ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!” – che significa: “Maestro!”… Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto».

Tra le apparizioni potremmo citare quella agli undici apostoli oppure, come ulteriore esempio, l’apparizione all’incredulo Tommaso. Leggiamo in Giovanni: «Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”».

Nondimeno, l’apparizione ai discepoli di Èmmaus può offrire una diversa prospettiva degli eventi e spiegare anche perché la tradizione popolare cristiana abbia legato al lunedì di Pasquetta le immancabili gite fuoriporta. Seguiamo il racconto. Due discepoli, fra i tanti che accompagnavano Gesù e che assistettero alla sua morte in croce, lasciarono Gerusalemme e si misero in cammino verso il proprio villaggio, che si chiamava Èmmaus, distante pochi chilometri da Gerusalemme. Lungo la strada vennero avvicinati da uno sconosciuto, che chiese loro di cosa stessero discutendo con tanta tristezza.

Leggiamo, a questo proposito, il racconto che ne fa l’evangelista Luca: «Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. Domandò loro: ”Che cosa?”. Gli risposero: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto»

Scrive Luca: «Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”». I discepoli invitarono l’uomo a fermarsi in una locanda e a cenare con loro. A tavola lo sconosciuto spezzò il pane, ripetendo immancabilmente il rito eucaristico dell’ultima cena, e in quel momento i due discepoli riconobbero in lui Gesù. «I loro occhi si aprirono» (Luca). Tuttavia non fecero in tempo a parlargli, perché egli scomparve davanti ai loro occhi. Nella sua lettera apostolica Mane nobiscum Domine, Giovanni Paolo II così commentava: «Il volto di Gesù scompare, e si fa strada quello del Maestro che sta con loro, nascosto nello spezzare del pane che apre gli occhi a riconoscerlo… Quando le menti sono illuminate ed i cuori sono ingentiliti, i segni iniziano a parlare».

Nella locanda Gesù Cristo si fece, dunque, riconoscere per dimostrare di essere veramente risorto, e poi scomparire per tornare dal Padre Suo. A Maria di Magdala aveva detto, infatti, di riferire a tutti: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Esterrefatti, i due si rimisero in viaggio e tornarono immediatamente a Gerusalemme, dove giunsero la notte stessa e raccontarono agli altri discepoli, lì riuniti, la loro esperienza. Asserirono, convintamente, di avere incontrato Gesù di Nazareth risorto dalla morte.

Dal racconto si comprende facilmente, perciò, che l’andare fuori città perpetua il ricordo del percorso a piedi, fatto dai due discepoli uscendo da Gerusalemme per recarsi verso Èmmaus e poi fare ritorno di nuovo a Gerusalemme. Una scampagnata per pranzare (o cenare) in un bel pic-nic all’aria aperta è, dunque, un modo allegro e popolare di ricordare questo momento conviviale di fratellanza.

La Val di Zoldo si prepara in vista del Dolomiti Extreme Trail

Iniziato in Val di Zoldo, nelle Dolomiti Bellunesi, il conto alla rovescia per la KAILAS FUGA Dolomiti Extreme Trail, l’evento per gli appassionati della corsa in montagna che si svolge dal 2013 sui sentieri della Val di Zoldo, nel cuore delle Dolomiti Bellunesi, sito patrimonio dell’umanità Unesco, i prossimi 6-7-8 giugno 2025. 

In vista dell’appuntamento, l’agenzia Gruppo Matches che segue il prestigioso marchio sportivo cinese, ha ideato per domenica 27 aprile, un training camp insieme al Team KAILAS FUGA, l’azienda cinese specializzata nella realizzazione di scarpe, abbigliamento e accessori per gli sport outdoor che da questo 2025 è il nuovo title sponsor della manifestazione per i prossimi tre anni. 

Il KAILAS FUGA TRAINING CAMP si svolgerà alla Sporting Area di Pralongo, nei pressi di Forno di Zoldo. La formula è quella del test sul campo: dalle ore 10 della domenica, si potranno provare i prodotti KAILAS FUGA dedicati al trail running con un test di corsa che si svilupperà su un tracciato di 10,5 chilometri e di 690 metri di dislivello positivo, lungo un tratto dei sentieri che saranno percorsi anche dalle gare di giugno. A coordinare il test sarà Donatello Rota, ultra-runner (vanta, tra le altre prestazioni, un secondo posto al Tor des Géants 2024) e preparatore atletico.  

Tutto questo solo per i primi 50 atleti ed appassionati che si iscriveranno entro  il 23 aprile 2025 nel link dedicato:

Un nuovo progetto di sport per Gruppo Matches – ha detto il suo Ceo Andrea Cicini –, che supporta la promozione del brand  KAILAS FUGA, un brand che ha creduto nell’agenzia e nel DXT, al fine di far conoscere a sempre più atleti del settore trail prodotti innovativi e ad alte performance per le lore prestazioni sportive. L’annunciata sinergia col marchio per il prossimo triennio è la conferma che il Dolomiti Extreme Trail sta facendo bene, riuscendo a posizionarsi nel tempo tra le alte vette delle migliori manifestazioni di trail in Europa. Sicuramente tra le più tecniche”.

KAILAS FUGA Dolomiti Extreme Trail 2025 si svolgerà dal 6 all’8 giugno 2025 e proporrà diverse distanze: 103 K (la gara più lunga e difficile, con 7.150 metri di dislivello positivo e altrettanti di dislivello negativo), la 72 K (5.550 metri di dislivello), la 55 K (la prima nata, 3.800 metri di dislivello), la nuova nata 35 K (2 mila metri di dislivello), la 22 K (1.300 metri di dislivello) e la 11 K (470 metri di dislivello). Quest’ultima sarà esclusivamente in forma non competitiva. Per i più piccoli ci sarà la Mini Dxt, su tracciato-gymkana di 2 chilometri. La 103 K, la 72 K, la 55 K, la 35 K e la 22 K sono gare qualificanti per l’UTMB Mont-Blanc e partecipano a ITRA National League oltre che al campionato Europe Trail Cup.

Media | Press Office Gruppo Matches
e-mail: media@gruppomatches.com


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Se la cura del viso diventa naturalmente cura di sé

Massaggio al viso, non una novità

Le origini del massaggio manuale al viso affondano le radici nelle antiche civiltà orientali, in particolare in Cina e in India, dove veniva praticato già migliaia di anni fa come rituale di bellezza e strumento di riequilibrio energetico. Nella medicina tradizionale cinese, il massaggio del viso era parte integrante delle tecniche di digitopressione (come il Tui Na) per stimolare i meridiani e favorire il benessere dell’intero organismo. In Giappone, l’arte del Kobido — riservata originariamente alle imperatrici — è un esempio raffinato di trattamento che unisce manualità e filosofia. In Europa, il massaggio facciale si diffonde a partire dal Rinascimento, evolvendosi nel tempo fino a diventare, tra Ottocento e Novecento, una componente fondamentale dei trattamenti estetici professionali.

Il “nuovo” di Annaluisa Corvaglia

Nel panorama dell’estetica e del benessere, Anna Luisa Corvaglia si distingue tuttavia come una professionista innovativa, per aver creato (e brevettato) la Riflessologia Facciale Rimodellante, una tecnica che unisce la riflessologia facciale ai benefici del massaggio connettivale, unica in Italia e in Europa, combinando tecniche manuali avanzate con la potenza della stimolazione dei punti e delle zone riflesse del viso. La parte strutturale del metodo è quindi rappresentata da manovre profonde sui muscoli facciali, sulle suture craniche e sulla postura, ma è integrata dalla efficacia del massaggio Guà Sha. Originario della medicina tradizionale cinese, questo massaggio (Guà, “raschiare” e Sha “comparsa di temporanei rossori”) nasce come tecnica di guarigione per il corpo, finalizzata a liberare i ristagni energetici e a stimolare una migliore circolazione linfatica e sanguigna. Diventa così una straordinaria componente in una routine di bellezza per la sua capacità di stimolare il drenaggio dei liquidi, rilassare la muscolatura e favorire un aspetto più disteso e luminoso. Si effettua con l’ausilio di appositi strumenti levigati, solitamente in pietra di giada o quarzo rosa, che scorrono delicatamente sulla pelle seguendo linee specifiche con movimenti decisi, ma controllati, e a volte in combinazione con oli o sieri naturali. A completare il metodo di Annaluisa Corvaglia, poi, il lavoro sui meridiani.

Tra le righe delle rughe

Come si vede, si tratta di un approccio olistico che mette al centro il riequilibrio delle energie, permettendo di ottenere risultati sia a livello estetico, con un rimodellamento dei tratti ben visibile, sia un miglioramento generale del benessere della persona. Ogni viso e ogni ruga vengono osservati attentamente, letti, per capire infatti anche gli aspetti emotivi che possono influire sull’aspetto di quel viso. Non solo per risolvere inestetismi, ma anche per attenuare disturbi comuni come tensioni muscolari, dolori cervicali e i diversi sintomi legati allo stress, attraverso un invito a rallentare e a riconnettersi col proprio corpo. Ai tempi del multitasking e della sovrastimolazione digitale, Annaluisa Corvaglia fa del suo metodo un rituale di bellezza sì, ma anche un rituale di ascolto e rigenerazione, “raschiando” via lo stress, un gesto alla volta.

SkinGym, non solo uno luogo fisico

Come “terapista facciale”, Annaluisa Corvaglia apriva quest’anno a Roma, al quartiere Parioli, lo studio SkinGym, dove esercita e che è diventato un crogiolo di professionalità, in costante dialogo tra loro, tutte rivolte alla cura e al benessere fisico e psichico della persona. Dopo anni di esercizio della professione di estetista esperta, quindi, ha lasciato che “il sogno di un’altra cosa” divenisse possibile. Per lei, certo, per le donne e gli uomini che si rivolgono a lei. Ma non solo.

SkinGym è infatti anche una piattaforma che promuove l’auto trattamento delviso attraverso un metodo naturale e indolore, con esercizi mirati, permettendo così a chiunque e da dovunque di prendersi cura della propria pelle in modo naturale e consapevole.  In quest’ambito anche la pubblicazione del libro “Visogym. Il lifting viso che ti fai tu!”, non solo una guida pratica all’automassaggio facciale, rendendo democraticamente accessibili almeno parte tecniche avanzate praticate in studio anche a casa, ma anche un testo capace di regalare un surplus di consapevolezza sulla necessità di conoscere la propria pelle, e più in generale il proprio corpo, per assecondarne inclinazioni e bisogni. E sentirsi meglio. Il viso, la testa, il collo, sono infetti crocevia di muscoli, stazioni linfonodali, punti ricettivi per la riflessologia, e quindi anche a queste parti del corpo fa bene andare “in palestra”, con benefici l’aspetto della pelle, invitata e guidata a tornare tonica, elastica, luminosa, ma anche per l’intero corpo e la psiche stessa della persona.

Di che parliamo quando parliamo di Bellezza

Oggi come ieri, infatti, la bellezza di un viso come di un corpo ha molto a che fare con quanto di bello il nostro viso e il nostro corpo celano di noi stessi. Quello che siamo è quello che poi, in qualche modo, il nostro viso e il nostro corpo lasciano trapelare. Per questo arrivare a concepire una routine di bellezza “naturale”, che funziona solo attraverso pratiche di massaggio manuale, vecchie e nuove, e che promette però di andare “un po’ più a fondo” a liberare positività e ricercare equilibrio, un metodo di ricerca a tutto tondo di uno stato di benessere mentale fisico, è un qualcosa che Annaluisa Corvaglia ha voluto inseguire e per il quale non smette di studiare, e che per noi può valere la pena di sperimentare ed imparare.


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Il bicchiere da Martini: geometria della modernità

Nel panorama dei cocktail classici, nessun altro riesce a evocare con tanta forza l’eleganza senza tempo, la raffinatezza e l’immaginario cinematografico quanto il Martini. Dietro la trasparenza tagliente del drink e la silhouette impeccabile del bicchiere, si cela una storia ricca di intrecci tra scienza, medicina, costume e design. Un racconto che attraversa secoli, nazioni e stili di vita, fino a condensarsi in un gesto: il tintinnio sottile di un calice triangolare, impugnato con due dita, tra un brindisi e una battuta di spirito.

L’identità alcolica del Martini affonda le radici nel XVII secolo, quando un professore olandese di medicina, Francois de Boe Sylvius, mise a punto una miscela di alcol di cereali e bacche di ginepro per curare i disturbi renali e purificare il sangue. Era il genever, precursore del moderno gin. Il successo fu immediato: la bevanda non solo era economica e facilmente producibile, ma suscitava un’euforia piacevole. Il suo consumo si diffuse ben oltre le intenzioni terapeutiche, diventando parte integrante della cultura del bere in Europa.

Il secondo ingrediente del Martini, il vermouth, nasce in Italia nel Settecento come infuso di vino bianco, spezie ed erbe medicinali. Il nome stesso – vermouth – deriva dal tedesco wermut, cioè assenzio, pianta utilizzata per combattere i parassiti intestinali. A lungo, il vermouth fu consumato come digestivo, in alternativa all’acqua potabile spesso contaminata. Le prime versioni erano scure, dolci, ricche di aromi: l’attuale formulazione, più secca e chiara, si sarebbe affermata solo nel corso del Novecento.

Il matrimonio tra gin e vermouth diede vita al Martini, un cocktail il cui nome stesso è oggetto di innumerevoli leggende. C’è chi lo attribuisce a Jerry Thomas, pioniere della mixology americana, che avrebbe creato un Martinez per un cercatore d’oro diretto a Martinez, in California. C’è chi indica invece un barista del Knickerbocker Hotel di New York, Martini di Arma di Taggia, che lo avrebbe servito nel 1911 a John D. Rockefeller. C’è infine chi riconduce il nome alla ditta italiana Martini & Rossi, che già nel 1871 esportava il suo vermouth negli Stati Uniti. Tutte ipotesi plausibili, nessuna definitiva.

Se il Martini è diventato una leggenda, è anche grazie al suo contenitore. Il bicchiere da Martini – trasparente, affilato, essenziale – è una delle forme più iconiche del design del Novecento. La sua comparsa ufficiale risale agli anni Venti, in un periodo in cui il gusto estetico si andava rapidamente evolvendo verso linee pulite, minimaliste, geometriche.

Alla base del successo di questo oggetto c’è una precisa esigenza funzionale: i cocktail come il Martini vanno serviti freddi, senza ghiaccio. Lo stelo lungo consente quindi di tenere il bicchiere senza riscaldare il contenuto con il calore della mano. La coppa ampia, che si apre in un angolo netto, avvicina la superficie del liquido al naso, favorendo la percezione degli aromi, soprattutto quelli del gin. I lati inclinati impediscono la separazione dei componenti del drink e sostengono con grazia le classiche guarnizioni: un’oliva verde, una scorza di limone, o uno spiedino da cocktail.

Dal punto di vista estetico, il bicchiere da Martini rappresenta l’incarnazione del modernismo applicato agli oggetti quotidiani. Non a caso, fu formalmente introdotto all’Esposizione di Parigi del 1925 come rielaborazione modernista della coppa da champagne, allora simbolo di raffinatezza e mondanità. La forma, derivata dall’Art Deco, rifletteva le tendenze dell’epoca anche nell’architettura e nell’arredamento: linee spezzate, angoli decisi, funzionalismo elegante.

Esistono versioni più pittoresche sulla nascita del bicchiere, come quella che lo vuole ideato durante il proibizionismo americano per consentire di svuotare velocemente il contenuto in caso di raid della polizia nei bar clandestini. Se pure apocrifa, questa storia contribuisce al fascino misterioso che circonda l’oggetto.

Negli anni Trenta, il bicchiere da Martini si impose nella cultura visiva occidentale. Appariva nei film, sulle riviste patinate, nei salotti dell’alta società tra New York e Hollywood. Con la diffusione dei servizi da cocktail per uso domestico, diventò accessibile anche al ceto medio, incarnando il sogno di una sofisticazione a portata di mano. Gli shaker in acciaio lucido, i cucchiai curvi, i colini, le pinze per olive: tutto contribuiva a creare un immaginario fatto di glamour, ritmo jazz e conversazioni scintillanti.

Attrici come Katharine Hepburn, nei film quanto nella vita reale, seppero farne un accessorio di stile. Il Martini – e con lui il suo bicchiere – entrò nel linguaggio del cinema, diventando emblema di personaggi affascinanti, indipendenti, sofisticati. Divenne il drink preferito di James Bond (“shaken, not stirred”), il protagonista di brunch letterari e il compagno immancabile nei pomeriggi oziosi delle commedie sofisticate.

Oggi, il bicchiere da Martini non ha subito modifiche sostanziali. La sua silhouette è rimasta intatta, riverita da designer, illustratori, registi. Ogni tentativo di aggiornarla si è scontrato con la perfezione di una forma ormai archetipica, capace di coniugare bellezza e funzionalità in un equilibrio che sfida il tempo.

Il Martini non è soltanto un cocktail: è un’icona culturale. È il distillato di una lunga tradizione che unisce l’arte della miscelazione alla storia del design. È un gesto, uno stile, un’immagine sedimentata nell’immaginario collettivo. Ed è soprattutto una prova di come, nella semplicità apparente di un bicchiere e due ingredienti, possa vivere una complessità fatta di storie, invenzioni, influenze e aspirazioni. Una complessità che, proprio come un buon Martini, va gustata lentamente.


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Il rosa Pompadour: quando un colore racconta un’epoca

Tra le molte sfumature che hanno colorato la storia dell’arte, poche portano con sé il peso culturale, politico ed estetico del cosiddetto “rosa Pompadour”. A lungo rimasta un enigma nelle botteghe e negli archivi, la composizione chimica di questa tonalità raffinata e inconfondibile è stata recentemente svelata grazie a un’indagine scientifica condotta in occasione della mostra “Boucher e Fragonard alla corte del re”, ospitata fino al 25 maggio 2025 presso la Casa Museo Fondazione Paolo e Carolina Zani, a Cellatica, Brescia.

Il risultato è una scoperta che, seppur tecnica nei presupposti, getta nuova luce su un’intera estetica settecentesca e su una delle figure più influenti dell’Ancien Régime: Madame de Pompadour.

Nato dalla volontà di esaltare il fascino e l’eleganza di Jeanne-Antoinette Poisson – meglio conosciuta come Madame de Pompadour –, il rosa Pompadour non fu soltanto una moda cromatica, ma un autentico simbolo di gusto, stile e influenza culturale. La favorita ufficiale di Luigi XV fu molto più di una figura decorativa della corte: donna colta, stratega politica, mecenate appassionata delle arti, contribuì in modo decisivo all’affermazione del rococò francese.

Tra i molti artisti da lei sostenuti, il più celebre fu François Boucher, che divenne primo pittore del re nel 1765. Fu lui a dare forma pittorica all’estetica Pompadour, prediligendo nei suoi dipinti una gamma di colori morbidi e sensuali, tra cui spiccava una tonalità di rosa pallido, vibrante e cangiante. Questo colore, codificato ufficialmente nel 1757 presso le manifatture di porcellana di Sèvres grazie al chimico Jean Hellot, divenne subito riconoscibile e ricercato, sia nell’arte che nell’arredo, nella moda e nella decorazione.

Rosa Pompadour su un porcellana. Fonte Wikipedia

Una formula svelata tra arte e scienza

La composizione del rosa Pompadour è stata finalmente chiarita attraverso sofisticate indagini diagnostiche condotte da Gianluca Poldi dell’Università di Udine, nell’ambito della mostra organizzata dalla Fondazione Zani. I risultati, presentati nel corso di un incontro intitolato “In leggerezza. Come dipinge Boucher alla luce delle analisi scientifiche”, hanno rivelato una formula sorprendentemente articolata.

Per ottenere quella sfumatura morbida, carnosa e luminosa – così cara alla ritrattistica di Venere, di putti e amorini, e ovviamente della stessa Pompadour – veniva impiegata una miscela di bianco di piombo, vermiglione finemente macinato (ottenuto dal cinabro), lacca carminio estratta dalla cocciniglia e un tocco di pigmento giallo. Una composizione studiata non solo per rendere la tinta più espressiva, ma anche per ottenere variazioni tonali capaci di evocare la fragilità dei petali di rosa e l’incarnato idealizzato della femminilità settecentesca.

La preparazione dei colori, all’epoca, era un procedimento interamente artigianale, affidato a mani esperte all’interno delle botteghe. Nulla era lasciato al caso: ogni materiale veniva selezionato per la sua resa cromatica, la sua stabilità, la sua capacità di assorbire o riflettere la luce. Il rosa Pompadour ne è esempio perfetto: un tono che riesce a fondere la grazia naturale con l’artificio della corte.

Il contesto di questa scoperta non è secondario. La mostra “Boucher e Fragonard. Alla corte del re” è un viaggio immersivo nella cultura visiva della Francia di Luigi XV, attraverso opere provenienti da una delle più importanti collezioni d’arte barocca in Italia. La Casa Museo Fondazione Zani ospita oltre 1.200 opere, tra dipinti, arredi e sculture, che testimoniano lo splendore e la teatralità della vita di corte.

Tra le opere esposte spicca L’Allegoria della Terra, dipinta da Boucher nel 1741 per il castello di Choisy, parte di una serie dedicata ai quattro elementi, commissionata dallo stesso re. Il destino delle altre tre tele – Acqua, Fuoco e Aria – è tuttora ignoto, aggiungendo un alone di mistero al percorso espositivo.

Altro capolavoro in mostra è Venere nella fucina di Vulcano, la più grande opera di Boucher conservata in Italia, dove il dinamismo barocco e la sensualità mitologica trovano un equilibrio visivo di rara potenza. Il dipinto anticipa la versione custodita oggi al Louvre, e costituisce uno dei vertici della produzione dell’artista.

Accanto ai dipinti, il percorso si arricchisce di oggetti d’arte che rafforzano il legame con Madame de Pompadour. Emblematici i due cigni dorati che ornavano la sua toilette all’Hôtel d’Évreux, oggi sede del palazzo dell’Eliseo. Realizzati nel 1755 su disegno di Lazare Duvaux, questi pezzi testimoniano l’attenzione maniacale al dettaglio che permeava ogni aspetto dell’estetica di corte.

Fragonard e la leggerezza narrativa del rococò

Se Boucher rappresenta l’eleganza codificata del potere, Jean Honoré Fragonard incarna il lato più malizioso, narrativo e borghese del rococò. Allievo del maestro, ne proseguì e rinnovò la lezione con una pennellata più sciolta e un gusto marcato per il racconto erotico e aneddotico.

In mostra è esposta Annette a vent’anni, un dipinto appartenuto al visconte Adolphe du Barry, nipote dell’ultima favorita del re, Madame du Barry. L’opera si ispira a un racconto morale dell’illuminista Marmontel, fondendo letteratura e pittura in una scena intima e rivelatrice, emblema dell’universo galante che Fragonard seppe illustrare come pochi.

La rivelazione della formula del rosa Pompadour non è soltanto un dettaglio tecnico, ma un tassello prezioso per comprendere l’universo visivo del Settecento francese. In quel secolo dominato dalla teatralità, dalla grazia e dall’invenzione, ogni elemento era carico di significati. Il colore, in particolare, diventava uno strumento di rappresentazione del potere, della seduzione, della cultura.

Madame de Pompadour riuscì a trasformare un semplice tono cromatico in un segno distintivo del suo stile, tanto da farlo codificare nelle manifatture reali, impiegarlo nei ritratti ufficiali, negli arredi, nella porcellana. Con l’aiuto di artisti come Boucher e Fragonard, rese quel rosa simbolo di un’epoca – tanto lieve nella superficie quanto sofisticata nella sostanza.

A secoli di distanza, il rosa Pompadour continua a parlare. E oggi, grazie alla scienza e all’arte, possiamo ascoltarlo con rinnovata consapevolezza.


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