Leggere e rileggere – Luigi Capuana, un verista tra le fate

di Sergio Bertolami
Prefazione al libro Luigi Capuana, Il Raccontafiabe, 2014, Experiences

Ve l’immaginate un austero signore di cinquantasette anni, cultore di Hegel e di De Sanctis, già ispettore scolastico, già sindaco della sua natale Mineo (in Sicilia), conosciuto dal grande pubblico ed attaccato dalla critica letteraria per quel suo romanzo scandalo, “Giacinta”, che dichiarava la propria appartenenza alla corrente verista? Ve lo immaginate passare il giorno, serrato nel suo studio, lacerato dal dubbio di aver “fatto tutti i mestieri e non essere riuscito in nessuno”? Bene, questo signore è Luigi Capuana, amico di Verga e di Zolà, di Prati e di Aleardi, di Vigo, di Pitrè, del giovane Pirandello.

Sulla scrivania sono freschi di stampa i suoi “Studi sulla letteratura contemporanea”, ma lui è in crisi depressiva. Quando scrittore di successo, docente universitario, gli torneranno alla mente quei giorni, confesserà di essere stato “triste ed anche un po’ ammalato, con un’inerzia intellettuale” da far rabbia. Fissava le bianche pareti del suo studio, mentre il sole di gennaio faceva sentire il tepore dei suoi raggi e i passeri picchiavano famigliarmente col becco all’imposta chiusa della finestra. In mano i fogli di lavoro vergati in quei giorni irrequieti. Scriverà a Verga che tutto quel mondo di fatti, di personaggi, di luoghi gli apparteneva intimamente, sbocciato senza saper come “sotto un’esaltazione nervosa che aveva dell’allucinazione”.

Le staffilate dei critici letterari erano niente di fronte alla “seria preoccupazione del giudizio di quel pubblico piccino” che irrompeva rumorosamente, due, tre volte al giorno, nel suo studio, impaziente di ascoltare le nuove storie di fate, di maghi, di re, di regine, di orchi, di incantesimi. Quando aveva provato a raccontare della Bella addormentata, Cappuccetto rosso, Cenerentola, fiabe vecchie, “i bambini gli voltarono le spalle e lo piantarono come un grullo”. Così non gli rimaneva che trasformarsi in un racconta-fiabe. “Gli pareva un mestiere facile, da divertircisi anche lui”. Lui, che non credeva “potesse mai accadere a chi è già convinto che la realtà sia il vero regno dell’arte”. Aveva teorizzato un metodo scientifico, attraverso il quale la realtà dalla vita doveva essere la fonte privilegiata della narrazione, non certo le valutazioni personali. Pur tuttavia, quelle fiabe, sembravano mettere tutto in discussione. Eppure, in altre realtà europee, c’era chi, con metodo scientifico, filologico, era intento a raccogliere l’impronta della tradizione e a raccontare le stesse fiabe che quei ragazzini irrequieti avevano già mandato a memoria d’un fiato. Erano i racconti dei suoi tempi, quelle Fiabe per bambini e per famiglia, scritte tra il 1812 il 1814 da due fratelli tedeschi Jakob e Wilhelm Grimm. C’erano poi le storie di quel danese, Hans Christian Andersen: erano uscite in rivista e poi raccolte in volumi, le ultime pubblicate da appena dieci anni.

Luigi Capuana, disegno di Antonino Gandolfo –
Fonte Wikipedia

Per accontentare quei diavoletti, decise allora, di andare a comprarne qualcuna più recente, alla Fiera delle Fate, ma queste lo informarono che “Fiabe nuove non ce n’è più; se n’è perduto il seme”. Non rimaneva che scriverne di inedite.

Così si ricordò del mago Tre-Pi, che cercava, raccoglieva, ascoltava, elencava, fiabe e le conservava “nei cassetti fatti a posta, classate e numerate”. Era un’altro tipo di esplorazione, rispetto a quella finora esercitata col verismo: riguardava le forme originarie e «ingenue» del mito. Le tre Pi del mago erano quelle del suo amico Giuseppe Pitrè, che per professione faceva il medico, ma per passione s’era inventata una nuova scienza, la demologia, per studiare la psicologia del popolo: pensieri, usi, costumi. Con il mago Tre-Pi aveva scambiato opinioni e relazioni, ne aveva assimilato i racconti fantastici. Ora poteva tradurli in una nuova proposta letteraria. Poteva “mettere audacemente le mani sopra una forma di arte così spontanea, così primitiva”, apparente- mente contraria al carattere dell’arte moderna. Poteva ricreare, come Collodi o De Amicis, un nuovo linguaggio mitologico-simbolico, una serie di contesti in cui calare i temi ricorrenti della fantasia infantile, “primo pascolo artistico delle nostre piccole menti”.

Come quel povero diavolo di racconta-fiabe, che girava paesi-paesi per incantare i bambini, si accinse ad immaginarne di nuove. “Non sapeva neppure una parola di quel che dovea raccontare; ma, aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, come se l’avesse saputa a mente da gran tempo”. Decise allora, non solo di narrarle quelle storie, ma di scriverle e pubblicarle, col timore, tuttavia, di raccogliere un pugno di mosche. Così, quel signore depresso, che mai avrebbe immaginato la gioia di vedere rifiorire la fantasia, con gran gusto, negli anni mise insieme ben cinque raccolte. Tutto ciò, a dispetto dello scarso sviluppo dell’editoria italiana di fine Ottocento, e soprattutto malgrado l’altissimo livello d’analfabetismo, che toccava l’80% della popolazione. Figurarsi quanto poter contare su di un pubblico di bambini e giovanissimi. Magari qualche benigno lettore, come lui con i suoi nipotini, avrebbe raccontato quelle fiabe ai propri bambini. Così il signor Capuana concluse di pubblicare il primo libro di quella che si rivelò una fortunata serie. E non mancò di rafforzare l’intima speranza di trovar “qualcuno che volesse giudicarlo non soltanto come un libro destinato ai bambini, ma anche come opera d’arte”.

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