Settant’anni di impegno per il paesaggio, la cultura e la memoria del Paese

L’associazione Italia Nostra compie settanta anni: fondata nel 1955, ha percorso un lungo cammino fra lotte civili, battaglie per il patrimonio culturale e ambientale e la quotidiana custodia di bellezza e memoria in Italia. Il traguardo offre l’occasione per riflettere sul ruolo, le trasformazioni e le sfide che attendono la tutela del nostro patrimonio, dal centro urbano al paesaggio, dall’ambiente naturale all’architettura.


Origini e primi passi

Italia Nostra nasce a Roma il 29 ottobre 1955, su iniziativa di un gruppo che comprendeva lo storico e attivista Umberto Zanotti Bianco, lo scrittore Giorgio Bassani, lo storico dell’arte Antonio Cederna, la giornalista Desideria Pasolini dall’Onda, l’intellettuale Elena Croce e altri ancora. L’obiettivo originario era semplice ma radicale: impedire lo scempio urbanistico che minacciava il centro storico di Roma e promuovere un modello di città coniugato a memoria, cultura, ambiente.
Negli anni, l’associazione ha ampliato il suo raggio d’azione: dalla città al paesaggio, dalle emergenze ambientali ai beni culturali, fino a diventare uno dei punti di riferimento della società civile italiana impegnata nella tutela.

Un percorso di impegno concreto

L’articolo celebrativo del settantesimo anniversario sul Corriere della Sera riporta come «il patrimonio … difeso a gomitate» sia una formula forte che riassume decenni di lotte – contro l’edilizia selvaggia, contro l’abbandono dei beni, contro la superficialità della tutela.
Da parte sua, Italia Nostra ha promosso iniziative culturali, campagne d’informazione, monitoraggi del territorio e progetti didattici: per esempio, il percorso espositivo interno – articolato in quattro sezioni tematiche: la Città, il Paesaggio, il Patrimonio Culturale e l’Ambiente Naturale – mostra concretamente la sua azione sul territorio.
Nella pratica quotidiana ciò ha significato contrapporsi a decisioni urbanistiche dannose, denunciare abusi, proporre ipotesi alternative, educare le nuove generazioni anche al rispetto del paesaggio e del patrimonio. È il versante civico e “dal basso” della tutela, che spesso non appare sui grandi cronisti della cultura ma costituisce la linfa dell’associazione.

Contesto storico e culturale

Quando Italia Nostra viene fondata, l’Italia del dopoguerra è in piena trasformazione: ricostruzione, boom economico, massiccia espansione edilizia, spesso senza regole. In questo scenario, la tutela dei beni culturali e ambientali stenta a trovare spazio nel dibattito pubblico. Italia Nostra agisce dunque come anticipatrice, anticipando una sensibilità che di lì a poco diventerà istituzionalizzata (ad esempio con l’articolo 9 della Costituzione e successive leggi in materia).
Col passare dei decenni, muta anche il contesto: la globalizzazione, la digitalizzazione, la crisi ambientale e climatica, la crescita del turismo di massa, la trasformazione del paesaggio italiano — tutti fattori che rendono più complessa la tutela. L’associazione ha saputo adattarsi, ma la “difesa del patrimonio” oggi richiede linguaggi nuovi, alleanze diverse e strumenti aggiornati.

Le sfide dell’oggi e di domani

Il traguardo dei settanta anni non è una conclusione ma una nuova soglia: il paesaggio viene frammentato da infrastrutture, il patrimonio culturale soffre di risorse ridotte, l’ambiente naturale subisce gli effetti del riscaldamento climatico e del consumo di suolo. In questo contesto, il ruolo di un’organizzazione come Italia Nostra è duplice: continuare a vigilare e denunciare, ma anche formulare proposte positive.
Tra gli obiettivi attuali emerge una necessità educativa: rendere i cittadini protagonisti della tutela, non soltanto spettatori. In tal senso, l’associazione ha già intrapreso iniziative ampie – ad esempio l’esposizione dei 37 pannelli tematici che raccontano la sua storia e il proprio impegno negli ultimi decenni.
Altro punto cruciale è la collaborazione con istituzioni pubbliche, enti locali, università e persone comuni: la salvaguardia del patrimonio non può restare un atto isolato, ma deve diventare parte integrante della progettazione urbana, della gestione dei parchi, delle politiche turistiche, della cultura civica.

Un bilancio aperto

Guardando indietro, Italia Nostra può vantare conquiste simboliche e molto concrete: dalla tutela di aree archeologiche all’opposizione agli abusi edilizi, dalla promozione della cultura ambientale alle battaglie legali.
Ma la vera misura del suo successo si potrà valutare nel prossimo decennio: quanto riuscirà a incidere sulla trasformazione delle città, sulla qualità del paesaggio, sulla coscienza collettiva della bellezza come valore attivo e non passivo.

In definitiva, settanta anni sono un risultato importante, ma anche un richiamo: custodire il patrimonio non è un atto d’archivio, bensì una forma di responsabilità verso il futuro.


70 anni di Italia Nostra (1955–2025)

1955 – La fondazione

Nasce a Roma il 29 ottobre. Tra i fondatori: Umberto Zanotti Bianco, Giorgio Bassani, Antonio Cederna, Desideria Pasolini dall’Onda, Elena Croce e Pietro Paolo Trompeo.
L’obiettivo è difendere i centri storici e contrastare le speculazioni edilizie che minacciano la bellezza e l’identità delle città italiane.

1958 – La prima battaglia: l’Appia Antica

Italia Nostra si schiera contro i progetti di lottizzazione sull’Appia Antica, salvando uno dei più importanti tratti archeologici di Roma.
Nasce qui il concetto moderno di paesaggio come bene culturale.

Anni ’60 – Le campagne per Venezia e Firenze

L’associazione denuncia il degrado del centro storico veneziano e gli effetti dell’industria chimica di Marghera. Nel 1966, dopo l’alluvione di Firenze, promuove la prima grande mobilitazione civile per il restauro dei beni artistici danneggiati.

1970–1975 – Le “città da salvare”

Italia Nostra elabora un documento che diventerà punto di riferimento per la tutela urbanistica.
Sostiene l’idea che la salvaguardia dei centri storici debba essere integrata nei piani regolatori, anticipando la visione oggi alla base dell’urbanistica sostenibile.

Anni ’80 – Dal paesaggio urbano all’ambiente naturale

Il dibattito si allarga alla tutela ambientale: coste, boschi, fiumi e campagne entrano nel campo d’azione. Nel 1986 l’associazione ottiene importanti risultati nella difesa delle aree protette e dei parchi regionali.

Anni ’90 – La legge Galasso e la svolta istituzionale

Italia Nostra sostiene e contribuisce alla diffusione della Legge 431/1985 (detta “Legge Galasso”), che introduce la tutela paesaggistica estesa.
Si intensificano le collaborazioni con scuole e università: nasce una rete di sezioni locali impegnate in educazione civica e ambientale.

2000–2010 – Patrimonio diffuso e partecipazione civica

L’associazione sviluppa una visione integrata del patrimonio: non solo monumenti e opere d’arte, ma anche paesaggi, borghi, infrastrutture storiche.
Nel 2005 promuove la campagna “Cento città per cento centri storici” e nel 2007 avvia i progetti didattici con il MIUR sul valore del territorio.

2011 – L’articolo 9 e la Costituzione “viva”

Italia Nostra celebra i 150 anni dell’Unità d’Italia sottolineando il significato contemporaneo dell’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” La tutela viene interpretata come atto di cittadinanza attiva.

2015 – I 60 anni e la sfida della globalizzazione

L’associazione riflette sulle nuove minacce: consumo di suolo, turismo di massa, grandi opere invasive, perdita di identità dei centri urbani.
Lancia campagne per la salvaguardia delle coste, contro l’abbandono dei borghi e a favore della mobilità sostenibile nei siti UNESCO italiani.

2020–2025 – La crisi climatica e le nuove alleanze

Italia Nostra adatta la sua azione al contesto contemporaneo: sostenibilità, emergenza climatica, rigenerazione urbana e digitale.
Nel 2025, per i 70 anni, promuove la mostra itinerante “Città, Cultura, Natura e Paesaggio” con 37 pannelli che raccontano la sua storia, le battaglie e i protagonisti.
Il messaggio è attuale e universale: difendere il patrimonio significa difendere il futuro.


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I simboli archetipici primitivi di uno dei padri della scultura moderna

Constantin Brâncuși (1876–1957) è considerato uno dei padri della scultura moderna. Nato in Romania e formatosi a Parigi, rivoluzionò l’arte del Novecento con forme essenziali e pure, capaci di catturare l’essenza spirituale dei soggetti. Le sue opere, come Il bacio o Uccello nello spazio, fondono tradizione arcaica e sensibilità moderna in un linguaggio universale di equilibrio e astrazione. De seguito una raccolta di testimonianze sulla sua importante figura d’artista.


I simboli archetipici primitivi del “druido buono” Constantin Brancusi
Brancusi utilizzava simboli archetipici primitivi, sia consapevolmente che inconsapevolmente, nel senso indicato dalla psicologia junghiana. Ecco solo i principali: il simbolo fallico della “Principessa X” (“Testa della Principessa Maria Bonaparte”), la spirale del ritratto di James Joyce e altre spirali forgiate nel ferro, i “romboidi” della Colonna dell’Infinito, la testa della Musa Dormiente, l’uovo del Neonato e de “L’Inizio del Mondo”, i cerchi della Porta del Bacio, della Tavola del Silenzio e del Viale delle Sedie.
Una serie di articoli dimostra che il primitivismo di Brancusi affonda le sue radici nel folklore rumeno e africano. Tuttavia, ce ne sono anche alcuni che emersero brillantemente dal suo subconscio, attraverso l’inconscio collettivo definito dallo psicologo Carl Jung. Pertanto, durante il periodo creativo di Brancusi, le spirali neolitiche erano poco conosciute. Inoltre, Brâncuși non aveva accesso ai rombi che troviamo oggi nei manufatti neolitici o addirittura paleolitici.
Brâncuși incontrò una forte opposizione ai suoi tempi quando espose la Principessa X, ma oggi sappiamo benissimo che il simbolo fallico non aveva alcuna connotazione oscena nella preistoria.
È interessante notare che il dualismo donna-fallo colto da Brâncuși è stato, negli ultimi anni, oggetto di diversi articoli e studi sulle statuette neolitiche di donna-fallo.
Nella seconda parte, senza bibliografia, colgo in Brâncuși non solo un ancoraggio al primitivismo, ma anche una preoccupazione assolutamente unica per le scienze del futuro.
L’Esperienza (Experiences) ha già pubblicato l’articolo “Brâncuși ha nascosto equazioni nel suo Complesso Monumentale” https://www.experiences.it/archives/83516

Erik Satie: “caro buon druido”
Il Museo Nazionale d’Arte espone una ricostruzione del costume da balletto realizzato da Brâncuși per le “Gymnopediae” del musicista Erik Satie.
L’amicizia tra i due artisti è evocata nell’articolo “Nel labirinto con Barbu Brezianu. Brâncuși, musica e danza”, di Virginia Barbu, pubblicato dall’Istituto di Storia dell’Arte dell’Accademia Romena.
https://www.istoria-artei.ro/resources/files/SCIA.AP2011-11-V.%20Barbu-Brezianu-Brancusi.pdf
“L’amicizia tra Satie, di dieci anni più grande, e lo scultore rumeno, documentata tra il 1914 e il 1923, conclusasi con la morte di Satie nel 1925, si basava sull’attrazione magnetica tra due personalità diverse, che trovavano affinità sorprendenti Apparentemente si incontravano in opposti: uno era troppo complicato, sofisticato fino alla mania, avendo raggiunto la semplicità attraverso la disillusione, l’altro era troppo semplice, abbastanza primitivo da accedere alla raffinatezza, Satie aveva un aspetto borghese, con un ombrello, una bombetta, un ombrello e delle ghette, e ostentava una provocatoria umiltà da clown, fraintesa da molti dei suoi contemporanei che vedevano nella sua arte ‘musica semplice con titoli. bizzarri’. Brâncuşi, “a cui Satie, in una lettera con “Cher Bon Druide”, si rivolge a Brâncuși, che vivendo secondo gli antichi costumi rumeni nella sua casa nel centro di Parigi, che potrebbe passare per un laboratorio alchemico, scandalizzando alcuni che vi scorgevano allusioni pornografiche, mentre un Apollinaire trovava le sue opere “tra le più raffinate” (1912), riferisce Virginia Barbu.
Notiamo che il musicista Satie definì il “primitivo” Brâncuși “caro buon druido”.
Brâncuși non nascondeva di trovare ispirazione nella culla dell’umanità.
Esaminiamone alcuni: il simbolo fallico nella “Principessa X” (“Testa della Principessa Maria Bonaparte”), la spirale del ritratto di James Joyce, i “romboidi” della Colonna dell’Infinito, la testa della Musa Dormiente, l’Uovo del Neonato, i cerchi nella Porta del Bacio, la Tavola del Silenzio e il Vicolo delle Sedie. E l’elenco delle opere di Brâncuși I simboli archetipici primitivi rimangono aperti.
Il genio è anche una misura della capacità o della padronanza personale di accedere ai valori fondamentali dell’inconscio collettivo.
Il primitivismo di Brâncuși consiste nell’influenza dell’arte popolare rumena e delle culture ancestrali sulle sue sculture, che si allontanano dal dettaglio accademico a favore di forme essenziali e geometriche e di un’attenzione all’essenza dell’oggetto. Brancusi rifiutò l’accademismo, scelse di lavorare con materiali tradizionali e rimase legato allo stile di vita rurale, anche all’interno dell’avanguardia parigina, il che lo rese un interessante “outsider” nel mondo dell’arte.
È generalmente accettato che Brancusi abbia lasciato lo studio di Rodin per sviluppare un proprio stile, ispirato alle culture considerate “primitive” e alla tradizione popolare rumena.
La vena che sto esplorando è il fatto che, nella sua ricerca di essenze, Brancusi abbia toccato le corde del subconscio, come definito dallo psicologo svizzero Carl Jung.
“Ho levigato il materiale per trovare la linea continua. E quando mi resi conto che non riuscivo a trovarlo, mi fermai; era come se qualcuno invisibile mi avesse toccato le mani”, racconta Brancusi. E la psicoanalisi junghiana consacra l’idea dell’interconnessione tra il subconscio e l’essenza della materia.Così, nel libro “L’uomo e i suoi simboli”, curato da Carl Jung (Casa Editrice Trei), troviamo, a pagina 361, la citazione di Aniela Jaffé: “Spesso (i dipinti astratti) risultano essere, più o meno, immagini della natura stessa, dimostrando una sorprendente somiglianza con la struttura molecolare degli elementi organici e inorganici della natura. Questo è un fatto favoloso. La pura astrazione è diventata un’immagine della natura concreta. Jung può fornirci qui la chiave per la comprensione. ‘Gli strati più profondi della psiche – dice Carl Jung – perdono, con l’aumentare della profondità e dell’oscurità, la loro unicità individuale. <Più in basso>, cioè con l’avvicinamento ai sistemi funzionali autonomi, diventano sempre più collettivi, finché, nella materialità del corpo, cioè nei corpi chimici, diventeranno universali e si estingueranno anch’essi. Il carbonio dell’organismo è semplicemente carbonio. Pertanto, <in fondo> la psiche è semplicemente <mondo>’. Un confronto dei dipinti astratti con microfotografie del mondo atomico mostra che L’astrazione completa dell’arte immaginativa è diventata, in modo sorprendente e inosservato, “naturalistica”, il cui soggetto sono gli elementi della materia.
Un esempio di pittura in stato di trance, che accede quindi al subconscio e molto simile alla micromateria, è quello dell’artista americano Paul Jackson Pollock, morto un anno prima di Brâncuși. Tra l’altro, Aniela Jaffé dedica molta attenzione a questo pittore americano che ha riscosso un immenso successo.
Ovviamente, “levigando alla ricerca della linea continua fino a essere colpito alla mano”, Brâncuși ha praticamente sondato il confine tra arte astratta e materia.
In effetti, il fatto che Brancusi “flirtasse” con il subconscio gli valse il riconoscimento del critico Herbert Read, che lo considerava addirittura superiore al maestro Auguste Rodin. Una citazione attribuita, non so quanto autenticamente, a Herbert Read da diversi siti web rumeni, tra cui il Centro Brancusi, recita quanto segue: “Tre pietre miliari misurano, in Europa, la storia della scultura: Fidia – Michelangelo – Brancusi…”
Herbert Read era un ammiratore di Carl Jung e integrò i concetti junghiani, in particolare gli archetipi e l’inconscio collettivo, nel suo lavoro su arte ed estetica. Mentre Jung si concentrava sulla psicologia, Read, come poeta e critico d’arte, applicò le idee di Jung al campo della creazione artistica, discutendo di come i simboli archetipici appaiano nell’arte e di come l’arte possa essere un percorso per esplorare la psiche. Il libro di Carl Jung “Lo spirito nell’uomo, nell’arte e nella letteratura” è stato curato dallo stesso Herbert Read. “Il materiale con cui lavora Brâncuși è il suo interiore, come il primo mondo dei suoi antenati; le forme provengono dalla meditazione e da un subconscio collettivo, già portato alla luce nell’arte popolare”, scrive Viorica Răduță nel suo articolo “Brâncuși, verso un’arte del tempio (2)”
https://citeste-ma.ro/brancusi-spre-o-arta-a-templuui-2/

“Principessa X” e il simbolo ancestrale del fallo
Almeno attraverso la sua esperienza con il Maharajah di Indore, che gli ordinò di costruire un tempio per lui, Brancusi ebbe certamente contatti con la spiritualità indù.
Ecco una citazione da pagina 113 del libro “L’uomo e i suoi simboli”, curato da Carl Jung (Trei Publishing House): “Il fallo funge da simbolo onnicomprensivo nella religione indù (…) Quando un indù istruito vi parla del lingam (il fallo che rappresenta il dio Shiva nella mitologia indù), sentirete cose che gli occidentali non assocerebbero mai al pene. Il lingam non è certamente un’allusione oscena”.
Pertanto, il fallo è stato un simbolo di fertilità fin dal Paleolitico e dal Neolitico. “Hohle Fels” è un fallo risalente a circa 28 millenni fa, scoperto in Germania nel 2004.
A Sayburc, una città nel sud-est della Turchia, è stato trovato un disegno raffigurante un uomo che regge il pene sotto lo sguardo di due leopardi.
Un altro uomo in posizione eretta è stato disegnato nella grotta di Lascaux, in Francia, accanto a un bisonte sventrato.
Disegni rupestri simili, risalenti a circa 20 millenni fa, sono stati trovati nella grotta di “Los Casares” a Guadalajara e nel rifugio di Laussel in Dordogna, in Francia. Immagini suggestive e altre scoperte sono presentate nell’articolo:
https://eaucongress.uroweb.org/paleolithic-legacy-from-genital-decoration-to-penile-mutilation/
Un aspetto interessante è il carattere fallico di alcune statuette femminili, come è stato riscontrato nelle statuette italiane del “Trasimeno” e del “Cozzo Busonè”, con immagini suggestive, anche provenienti dalla cultura neolitica di Starcevo-Criș, che illustrano i due articoli seguenti pubblicati dall’Associazione “Preistorie in Italia”:
https://www.preistoriainitalia.it/scheda/statuina-del-trasimeno-pg/
https://www.preistoriainitalia.it/scheda/statuine-di-busone-cozzo-busone-ag/
In uno di questi articoli, la stessa Maria Gimbutas viene citata: “… nell’Europa antica, il fallo è ben lungi dall’essere il simbolo osceno che è oggi. Piuttosto, è simile a quello lingam ancora presente in India: un pilastro cosmico sacro ereditato dalla civiltà neolitica della valle dell’Indo. Una delle prime rappresentazioni del genere in Europa è costituita dalla fusione del fallo con il corpo divino della Dea, che compare a partire dal Paleolitico superiore. Alcune dee “Veneri” di questo periodo presentano teste falliche prive di tratti somatici. Sono state rinvenute a Savignano e sul Lago Trasimeno, nell’Italia settentrionale (attribuite al Gravettiano), nella grotta di Weinberg a Mauern, in Baviera (Perigordiano superiore o Gravettiano). Placard, nella regione della Charente, in Francia (Magdaleniano I-II)”.
Nell’articolo seguente troviamo un’immagine di statue della cultura neolitica di Starčevo-Criș intitolata “Statuetta femminile con testa fallica e parte inferiore simile a un testicolo, da Starcevo, Ungheria – Gimbutas 2008” – “Statuetta femminile con testa fallica e parte inferiore simile a un testicolo, da Starcevo, Ungheria – Gimbutas 2008”.
https://www.preistoriainitalia.it/en/scheda/statuine-di-busone-cozzo-busone-ag/
Sorprendentemente, la duplice immagine femminile-fallica nell’articolo sopra presenta una sorprendente somiglianza con le statue della cultura neolitica di Cucuteni intitolate “Il Consiglio delle Dee” provenienti da Poduri – Distretto di Bacău, da Isaiia – Distretto di Iași o da Sabatinovka.
La spirale in Brancusi e nel Neolitico Un altro antico simbolo archetipico è la spirale, presente anche nel ritratto di James Joyce di Brancusi (1929), ma anche in altre due opere. Così, il 30 novembre 2010, sono state vendute le opere di Brancusi intitolate “Grande spirale in ferro” e “Piccola spirale in ferro”, le cui immagini sono ancora disponibili su MutualArt.

Le spirali erano un motivo fondamentale della cultura neolitica di Cucuteni, ma si ritrovano anche su una serie di megaliti neolitici sparsi sul continente e su isole remote. Alcuni esempi: Tarxien (Malta), Newgrange (Irlanda), Piodao/Chaz D’Egua (Portogallo), Pierowall (Scozia), Bardal (Norvegia), Göbekli Tepe (Turchia), La Zarza-La Zarcita (La Palma – Isole Canarie), Castelluccio (Sicilia), Yangshao (Cina), ecc.

Notiamo anche che nella contea di Maramureș sono state scoperte le spirali d’oro dei Daci provenienti da Sarasău. 

I “Romboidi” della Colonna Infinita – primi indizi
Nella campagna di scavi archeologici del 1967-1968, condotta a Cuina Turcului, sulla gola del Danubio, Vasile Boroneanţ e Alexandru Păunescu scoprirono una falange equina, con rombi sovrapposti verticalmente, incisi nell’osso. Analisi più recenti hanno dimostrato che il manufatto risale a 13 millenni fa.
Inoltre, nella cultura neolitica di Cârcea – Gumelnița, è stato rinvenuto un vaso di argilla, anch’esso inciso con rombi allineati.
In seguito, nel distretto di Alba è stato scoperto anche un vaso di Starčevo-Criș con rombi: “Iconografia di un vaso di ceramica di Starčevo-Criș scoperto ad Acmariu (comune di Blandiana, distretto di Alba)”.
https://www.researchgate.net/publication/315727654_Iconografia_unui_vas_ceramic_Starcevo-Cris_descoperit_la_Acmariu_comuna_Blandiana_judetul_Alba
Della cultura neolitica di Cucuteni, presso il Museo Nazionale della Repubblica di Moldavia, troviamo un manufatto raffigurante la “Danza con il cervo” su cui è evidenziata anche una sorta di colonna dell’infinito.
Infine, il Tesoro Daco del distretto di Hînova – Mehedinți è conservato nella Sala del Tesoro del Museo Nazionale di Storia della Romania. Uno dei pezzi più interessanti è una collana composta da 255 grani romboedrici, simile alla Colonna dell’Infinito. Sono stati scritti articoli su questa somiglianza.

La Musa Dormiente e le Teste Preistoriche
Mi dispiace molto di non ricordare in quale sito archeologico al momento ho visto teste molto simili alla Musa Dormiente di Brancusi, ma spero che gli specialisti di preistoria universale capiscano cosa intendo.
Ad ogni modo, segnalo tre esempi di teste piuttosto simili, ovvero quelle di Tell Aswad (Siria), Ain Ghazal (Giordania) e Gerico (Palestina). Dillo ad Aswad – Siria:
https://antiquatedantiquarian.blogspot.com/2014/11/the-colored-skull.html
Ain Ghazal – Giordania:
https://www.google.com/url?sa=i&url=https%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DaujaiAbq9sA&psig=AOvVaw3yLaYng8bo
Gerico – Palestina:
https://www.thinkedco.com/jericho-palestine-archaeology-of-ancient-city-171414

L’uovo del “Neonato” e da “L’Inizio del Mondo” vs. Antiche Uova Cosmiche
Nelle sue opere “Neonato” e “L’Inizio del Mondo”, Brâncuși cattura concetti lontani nel tempo e nello spazio.
Un uovo cosmico di settemila anni è stato trovato a Silves, in Portogallo, con una sorta di colonna infinita più arrotondata incisa su di esso.
Ma il mito dell’uovo cosmico è stato riscontrato in diversi continenti.
Nella mitologia Dogon del Burkina Faso, il dio creatore Amma assume la forma di un uovo.
In Cina, diverse versioni del mito dell’uovo cosmico sono legate al suo creatore, Pangu. Si dice che il cielo e la terra esistessero inizialmente in uno stato informe, come un uovo di gallina. L’uovo si apre e si divide dopo 18.000 anni: la parte leggera si elevò per diventare il cielo, e la parte pesante sprofondò per diventare la terra. In India, in un mito vedico riportato nel Jaiminīya Brāhmaṇa, la fase primordiale del cosmo coinvolge un oceano primordiale da cui emerse un uovo. Una volta che l’uovo si divise, il processo di formazione del cielo (superiore) e della terra (inferiore) iniziò nel corso di cento anni divini.
In Giappone, nel Nihon Shoki, all’inizio vi era uno stato caotico che aveva la forma di un uovo.
Nel Kalevala, il poema epico nazionale finlandese, si trova un mito sulla creazione del mondo da frammenti di un uovo.
Gli antichi Egizi accettavano come validi diversi miti della creazione, tra cui quelli delle teologie Ermopolitana, Eliopolitana e Menfita. Il mito dell’uovo cosmico si trova a Ermopoli.
Idee simili al mito dell’uovo cosmico sono menzionate in due diverse fonti della mitologia greca e romana. Una si trova nell’autore romano Marco Terenzio Varrone, vissuto nel I secolo a.C. Secondo Varrone, il cielo e la terra possono essere paragonati, rispettivamente, a un guscio d’uovo e al suo tuorlo. La seconda menzione si trova nelle Ricognizioni Pseudo-Clementine, sebbene da un punto di vista oppositivo, in quanto Clemente viene presentato come il riassunto di una ridicola credenza cosmologica diffusa tra i pagani: secondo la descrizione fornita, esisterebbe un caos primordiale che, nel tempo, si sarebbe solidificato in un uovo.
Nella cosmografia zoroastriana, i cieli erano considerati sferici, con un confine esterno (chiamato parkān), un’idea che risale probabilmente all’epoca sumera. Anche la terra è sferica ed esiste all’interno dei cieli sferici. Per contribuire a trasmettere questa cosmologia, diversi scrittori antichi, tra cui Empedocle, concepirono l’analogia dell’uovo: il cielo esterno, sferico e delimitato, è come il guscio esterno, mentre la terra è rappresentata dal tuorlo interno rotondo. In Oceania, Ta’aroa era la divinità creatrice suprema di Tahiti, l’autore della vita e della morte, e creò il mondo da un uovo cosmico, creando i cieli e la terra.

Il cerchio come simbolo archetipico
A Brâncuși, il cerchio appare soprattutto nel Complesso Monumentale, che costituisce praticamente un mandala, un axis mundi del cuore della città di Târgu Jiu, con riferimento alla Porta del Bacio, alla Tavola del Silenzio e al Vicolo delle Sedie.
Delle culture neolitiche, si è conservato un suggestivo manufatto della Cultura Cucuteni, con cerchi concentrici, simile al disegno che illustra il Paradiso nel senso di Wikipedia.
A partire da pagina 319 del libro “L’uomo e i suoi simboli”, Aniela Jaffé dedica il sottocapitolo “Il simbolo del cerchio”, iniziando così: “Il cerchio esprime l’intera psiche, con tutti i suoi aspetti, incluso il rapporto tra uomo e natura. Che il simbolo del cerchio appaia nei riti primitivi del culto del sole o nelle religioni moderne, nei miti o nei sogni, nei mandala disegnati dai monaci tibetani, nelle planimetrie fondamentali delle città o nei modelli teorici sferici degli antichi astronomi, esso indica sempre l’aspetto unico e più importante della vita: la sua totalità fondamentale”.
Una possibile preziosa dualità del cerchio si trova nella Porta del Bacio, dove, da un lato, suggerisce un bacio stilizzato, ma dall’altro può indurci a riflettere sull’importanza simbolica della divisione o del taglio del cerchio, come mostra Aniela Jaffé. “Nelle arti visive dell’India e dell’Estremo Oriente, il cerchio diviso in quattro o otto è il modello di immagini religiose solitamente utilizzato come strumento di meditazione”, afferma Aniela Jaffé a pagina 320. Continua nella pagina successiva: “In molti casi, l’aureola di Cristo è divisa in quattro, un’allusione significativa alle sue sofferenze come Figlio dell’Uomo e alla sua morte in croce, che lo rende un simbolo di totalità differenziata. Sulle pareti delle antiche chiese romaniche si possono talvolta vedere figure circolari astratte; queste forme probabilmente derivano da antiche usanze pagane. Nell’arte non cristiana, questi cerchi sono chiamati ‘ruote solari’. Compaiono in incisioni su pietra risalenti al Neolitico, ancor prima dell’invenzione della ruota stessa. Come ha sottolineato Jung, il termine ‘ruota solare’ denota solo l’aspetto esteriore della figura. Ciò che contava davvero era l’esperienza di un’immagine interiore archetipica, che l’uomo dell’età della pietra rendeva nella sua arte, con la stessa fede con cui disegnava tori, gazzelle o cavalli selvaggi”.
Nel contesto, menziono anche la tesi di dottorato “Influenţa sculpturii neolithic în arta contemporană”, di Ana Maria Ceară.
https://unarte.org/wp-content/uploads/2025/10/REZUMAT-Romana-Ana-Maria-Ceara.pdf
Vale quindi la pena evidenziare il sottocapitolo V.3.6. Brâncuşi – La presenza nel mondo e il bacio alle porte della percezione
Il titolo del sottocapitolo fa quindi un chiaro riferimento al libro “Le porte della percezione” di Aldous Huxley, in cui l’autore si sofferma sull’idea di subconscio collettivo, proprio come Carl Jung, anche se in modo ancora più audace. “In questo contesto, l’immagine, il segno e il simbolo rappresentano tre forme fondamentali di comunicazione visiva, essenziali nella trasmissione e nell’interpretazione dei messaggi culturali. Lo studio parte dal presupposto che l’arte neolitica, attraverso il suo linguaggio semiotico e stilistico, comunichi non solo un passato storico, ma anche una dimensione archetipica che trascende il tempo e lo spazio”, afferma Ana Maria Ceară nella sua tesi di dottorato.
Questo è esattamente il messaggio di Carl Jung, secondo cui i simboli archetipici “sopravvivono” fin dalla culla dell’umanità e possono risplendere dalla profonda coscienza di artisti geniali, come Brâncuși.

Il primitivismo di Brancusi dal punto di vista della scultrice Ana Ionescu
Vale la pena leggere il riassunto della tesi “L’altro di Constantin Brancusi: il primitivismo, la porta dei baci e le funzioni dello studio dell’artista emigrante”, scritto dalla scultrice Ana Ionescu.
Eccola: “Questa tesi analizzerà come la scultura primitivista di Constantin Brancusi venga percepita nel contesto della sua “Alterità” nei circoli parigini tra gli anni ’20 e ’40. Brancusi è sia “Alterità” che “L’Altro” in questo contesto: si appropria sia di culture non occidentali sia di un affermato passato etnografico della sua nativa Romania. Attraverso forma, tecnica e soggetto, Brancusi aderisce e trasforma il primitivismo dell’inizio del XX secolo. Sebbene gli studiosi abbiano ampiamente studiato la scultura di Brâncuși, incluso l’uso di fonti e riferimenti subsahariani, nessuna fonte secondaria considera questo in relazione alla sua persona pubblica come “Primitivo” o “Altro” nel contesto dell’avanguardia parigina del periodo tra le due guerre. I dibattiti in corso sull’uso dell’arte popolare rumena o dell’arte africana non hanno tenuto conto, ad esempio, del ruolo sociale dell’artista e del concertato personaggio pubblico a questo proposito. Anche gli studiosi rumeni, angloamericani e francofoni sono discordanti su come analizzare le fonti africanizzanti e folcloristiche. Pertanto, dopo aver riformulato la scultura e il personaggio “primitivi” di Brâncuși confrontando e contrapponendo quelli che rimangono i programmi nazionalisti nella storia dell’arte, mi concentrerò in particolare su una delle opere seminali di Brâncuși, La Porta del Bacio del 1937-1938. Il complesso monumentale di Târgu Jiu, che include la Porta del Bacio, è un caso di studio particolarmente interessante per esaminare la connessione tra le questioni alla base di questa tesi. Commissionata da un’associazione indipendente ma approvata dallo Stato nel 1937, la Romania la espose all’Esposizione Universale del 1937 a Parigi, dove ottenne riconoscimenti sia a livello nazionale che internazionale. Aspetti della sua commissione, esposizione e accoglienza sono il risultato non solo della scultura in sé, ma anche dell'”immagine” accuratamente elaborata che Brâncuși promosse principalmente attraverso visite in studio, come luoghi per promuovere il suo processo creativo e la sua personalità artistica. Lo studio di Brâncuși funzionava come uno spazio ibrido in cui vivere, lavorare, socializzare, esporre e insegnare e, a mio avviso, come un autoritratto, in cui si negoziava la sua eredità rumena e il suo primitivismo africanizzante. Per analizzare attentamente queste strategie, sia materiali che immateriali, le fonti d’archivio provenienti dagli Archivi Kandinsky, dagli Archivi della Galleria Brummer, dal Museo Nazionale d’Arte Contemporanea di Bucarest e dall’Esposizione Universale del 1937 saranno esaminate attraverso una prospettiva storico-artistica decisamente “decolonizzatrice”.

Da Paul Gauguin a Brancusi. Alla ricerca del primitivo (II)
Quale legame esista tra l’arte di Paul Gauguin e quella di Constantin Brancusi, tra il loro modernismo e il loro primitivismo, così come tra Tahiti, l’Africa e Gorj, ci viene spiegato dalla professoressa Roxana Zanea, nella seconda parte di un’analisi esaustiva intitolata “Da Paul Gauguin a Brancusi. Alla ricerca del primitivo (II)” e pubblicata da Matricea Românească. “In Brancusi, il Gallo è in realtà ridotto al suo grido, nel momento chiave in cui si eleva verso il sole. Il pesce, la foca, la tartaruga, la Saggezza della Terra sono tutte primordialità di un’Arca brancusiana, un’Arca di Noè che tende a ricreare il mondo”, afferma Roxana Zanea, portando così in scena un altro concetto mitologico, l’Arca di Noè.
Roxana Zanea sottolinea anche un aspetto importante: “La conclusione dei critici d’arte è ovvia: l’arte di Brâncuși affonda le sue radici nella tradizione ancestrale di artigiani popolari anonimi che, come quelli delle culture africane, sapevano stabilire con il materiale che lavoravano – legno, stoffa, bronzo, ottone, pietra, terracotta – attraverso la loro lavorazione, un forte legame con gli spiriti dei loro antenati o con quelli della natura.”

“Il primitivismo nell’arte del XX secolo: Brancusi”
Un libro di 689 pagine intitolato “Il primitivismo nell’arte del XX secolo: Brancusi” è stato scritto da William Stanley Rubin e William Rubin. I curatori del libro lo hanno riassunto in questo modo: “L’influenza cruciale delle arti tribali, in particolare quelle dell’Africa e dell’Oceania, sui pittori e gli scultori moderni è stata a lungo riconosciuta. Eppure, sorprendentemente, questo libro è il primo trattamento accademico completo dell’argomento nell’ultimo mezzo secolo, e il primo a illustrare e discutere opere tribali collezionate da artisti d’avanguardia. In quest’opera visivamente sbalorditiva e intellettualmente stimolante, diciannove saggi riccamente illustrati di quindici studiosi affrontano complesse questioni estetiche, storico-artistiche e sociologiche sollevate da questo drammatico capitolo della storia dell’arte moderna. Il lungo saggio introduttivo di William Rubin, pur definendo i parametri del primitivismo modernista, delinea la storia degli atteggiamenti occidentali nei confronti dei popoli primitivi e, in particolare, della loro arte, sollevando questioni fondamentali e correggendo diffuse idee sbagliate. I successivi capitoli di approfondimento, scritti da storici dell’arte primitiva, tracciano l’arrivo e la diffusione di africani, oceanici, amerindi ed eschimesi in Occidente. Nel 1906, la scultura tribale fu “scoperta” dagli studiosi del XX secolo. artisti; questi oggetti erano improvvisamente diventati rilevanti a causa dei cambiamenti nella natura stessa dell’arte moderna. Il corpo principale del libro contiene una serie di saggi sul primitivismo nelle opere di Gauguin, dei Fauves, di Picasso, di Brancusi, degli Espressionisti tedeschi, di Lipchitz, di Modigliani, di Klee, di Giacometti, di Moore, dei Surrealisti, degli Espressionisti astratti. Si conclude con una discussione sugli artisti primitivisti contemporanei, inclusi quelli coinvolti in opere sciamaniche e performance ispirate ai rituali. Oltre mille illustrazioni giustappongono sulle pagine di questi volumi opere specifiche del primitivismo con quelle dei maestri modernisti, esplorandone le affinità di fondo e illuminando complesse questioni di influenza e relazione. Le opere tribali illustrate includono non solo una varietà di capolavori pertinenti agli interessi modernisti, ma anche altri oggetti vitali per la storia del primitivismo.
Ad esempio, Paul Klee utilizzava i cerchi nella sua pittura astratto-subconscia, un esempio è il suo dipinto “Limiti della ragione”.
Un’altra citazione essenziale sui simboli arcaici si trova nell’articolo “Incontra Constantin Brancusi: il patriarca della scultura moderna”, dell’archeologa e storica dell’arte Stella Polyzoidou.
“Le due principali fonti di ispirazione per Brancusi furono la cultura popolare rumena e l’arte africana. La prima comprendeva l’intaglio del legno, che Brancusi incorporò nelle sue sculture. Anche i miti popolari rumeni, le storie e i simboli arcaici influenzarono la sua scelta dei soggetti”, afferma Stella Polyzoidou.

“Patrimonio immateriale primitivo”, catturato da Oana Șerban
Dall’introduzione dello studio “Il patrimonio immateriale primitivo dietro le forme tangibili moderniste della cultura di Brâncuși” troviamo il seguente estratto: “L’interesse principale di questa ricerca è piuttosto focalizzato sulla decostruzione del nazionalismo alla base dell’eredità di Brâncuși, sostenendo che può essere in ultima analisi ridotto a una potente miscela di forme di cultura primitive e intangibili, come credenze mistiche, narrazioni folcloristiche, tradizioni contadine e valori della religione ortodossa, riformulate e tradotte in simboli modernisti rappresentati da forme tangibili di cultura, come singole sculture e complessi”.
Una citazione illuminante di atl: “Le creazioni artistiche di Brâncuși possono senza dubbio essere ricondotte alla luce del fascino euroamericano per gli oggetti primitivi, che all’inizio del XX secolo ha caratterizzato il primitivismo come una tendenza etnocentrica di moda nella produzione artistica moderna e contemporanea. Da un lato, tale ‘primitivismo’ dovrebbe essere inteso
come una narrazione visiva sull’origine e il senso di appartenenza che una nazione ritrae attraverso il ricorso a manufatti culturali, simboli ed espressioni tradizionali di principi, valori e stili di vita locali.”


Bibliografia

Ana Ionescu, “L’Altro” di Constantin Brâncuși: il primitivismo, la Porte du Baiser e le funzioni dell’atelier dell’artista emigrato, 2024
https://archive.johncabot.edu/items/123b8fbe-f427-4ede-b5ae-bd90d3674de7

Ana Maria Ceară, “L’influenza della scultura neolitica nell’arte contemporanea”, 2025
https://unarte.org/wp-content/uploads/2025/10/REzumat-Romana-Ana-Maria-Ceara.pdf

Barbara Crescimanno, “Figurine Busonè – Cozzo Busonè (AG)”
https://www.preistoriainitalia.it/it/scheda/statuine-di-busone-cozzo-busone-ag/

Carlo Jung, M.-L. von Franz, Joseph L. Henderson, Jolande Jacobi, Aniela Jaffe “L’uomo e i suoi simboli” (Editura Trei), 2017

Cristinel Fântâneanu, Ioan Alexandru Bărbat, “Iconografia del vaso in ceramica Starčevo-Criş scoperto ad Acmariu (comune di Blandiana, contea di Alba)”, 2015
https://www.researchgate.net/publication/315727654_Iconografia_unui_vas_ceramic_Starcevo-Cris_descoperit_la_Acmariu_comuna_Blandiana_judetul_Alba

Elvira Visciola, “Statuetta del Trasimeno (PG)”
https://www.preistoriainitalia.it/it/scheda/statuina-del-trasimeno-pg/

Javier Angulo, “Eredità paleolitica: dalla decorazione genitale al pene mutilazione”, 2016
https://eaucongress.uroweb.org/paleolithic-legacy-from-genital-decoration-to-penile-mutilation/

Oana Șerban, “L’eredità primitiva immateriale dietro le forme tangibili moderniste della cultura di Brâncuși”, 2018
https://hermeneia.ro/wp-content/uploads/2018/11/11_Serban.pdf

Roxana Zanea, “Da Paul Gauguin a Constantin Brâncuși. Alla ricerca del primitivo (II)”
https://matricea.ro/de-la-paul-gauguin-la-constantin-brancusi-in-cautarea-primitivului-ii/

Stella Polyzoidou, “Conosciamo Constantin Brancusi: patriarca della scultura moderna”, 2021
https://www.thecollector.com/constantin-brancusi-modern-sculpture/

Viorica Răduţă, “Brâncuși, verso un’arte del tempio (2)”, 2023
https://citeste-ma.ro/brancusi-spre-o-arta-a-templuuli-2/

Virginia Barbu, “Nel labirinto con Barbu Brezianu. Brâncuși, musica e danza”
https://www.istoria-artei.ro/resources/files/SCIA.AP2011-11-V.%20Barbu-Brezianu-Brancusi.pdf William Stanley Rubin e William Rubin, Il “primitivismo” nell’arte del XX secolo: Brâncuși, 1984
https://books.google.ro/books/about/Primitivism_in_twentieth-century art   


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Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Il silenzio delle immagini come anima del Mediterraneo

Mimmo Jodice

Le mie fotografie non parlano di Napoli, ma del mio modo di vedere Napoli. Sono un tentativo di raccontare ciò che resta quando tutto il resto è scomparso.
Mimmo Jodice

Il fotografo Mimmo Jodice, nato a Napoli nel 1934 e morto nel 2025, è stato una delle voci più originali e influenti della fotografia italiana contemporanea. Con un percorso che spazia dalla sperimentazione concettuale degli anni Sessanta alla visione metafisica del paesaggio, ha saputo trasformare la realtà in un luogo dell’anima.


«Un’alleanza fra memoria e luce»

Domenico “Mimmo” Jodice nacque il 29 marzo 1934 nel rione Sanità di Napoli. Rimasto orfano del padre in giovane età, dopo la scuola elementare iniziò a lavorare e parallelamente coltivò in proprio l’interesse per il disegno, la pittura, la musica e il teatro. Alla fine degli anni Cinquanta cominciò a fotografare, e all’alba degli anni Sessanta orientò la propria ricerca verso la fotografia come strumento espressivo e non semplicemente documentario.

Il suo debutto espositivo ufficiale risale al 1967, con una mostra personale alla Libreria “La Mandragola” di Napoli, accompagnata dalla prima pubblicazione fotografica sulla rivista Popular Photography.

Un linguaggio in trasformazione

Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, Jodice entrò in contatto con il vivace ambiente dell’avanguardia napoletana, collaborando stabilmente con figure e spazi che animavano il dibattito tra arte visiva e fotografia. In quegli anni sperimentava trattamenti astratti, collage, interventi sulla materia fotografica, alla ricerca di un linguaggio che rompesse con una visione meramente descrittiva.

A partire dagli anni Ottanta il suo sguardo si allargò al paesaggio urbano e mediterraneo: luoghi e città – in particolare Napoli – divennero protagonisti silenziosi di immagini in bianco e nero in cui memoria, archeologia del presente e segno del tempo si intrecciavano.

Napoli, il tempo e la pietra

Napoli non era soltanto la città natale di Jodice: era il punto di osservazione, il laboratorio visivo e metaforico della sua riflessione sulla contemporaneità. Egli stesso lo dichiarò, riflettendo sull’infanzia trascorsa nei luoghi storici: “musei, statue, mosaici erano persone e luoghi con cui potevo conversare”.

Opere come Vedute di Napoli (1980) segnarono una svolta: le immagini mostrano una città sospesa, in bilico tra interno storico e stimolo visivo, tra presenza e assenza. L’elemento-luce assume un ruolo decisivo: non semplice illuminazione, ma sostanza poetica e spirituale, capace di trasformare la materia in orizzonte, il segno in silenzio.

Insegnamento e riconoscimenti

Dal 1970 al 1994 (alcune fonti indicano fino al 1996) Jodice fu titolare della cattedra di fotografia presso la Accademia di Belle Arti di Napoli, contribuendo con la sua didattica alla formazione di nuove generazioni e all’affermazione della fotografia come linguaggio autonomo in Italia.

Numerosi sono stati i riconoscimenti internazionali: tra questi il Premio Antonio Feltrinelli nel 2003. Le sue mostre sono state ospitate in istituzioni di rilievo come la Maison Européenne de la Photographie di Parigi.

L’ultima grande retrospettiva a lui dedicata, intitolata Attesa / Waiting (dal 1960), ha visto la sua città natale ospitare più di cento opere suddivise in sezioni curate dallo stesso artista. Jodice si è spento il 28 ottobre 2025 all’età di 91 anni.

Eredità e provocazione visiva

L’opera di Jodice rappresenta un ponte tra la fotografia documentaria e un’idea della fotografia come esperienza visiva e concettuale. I suoi scatti invitano a «perdersi a guardare» — per citare una delle sue mostre — in quelle immagini in cui il tempo appare sospeso, in cui il paesaggio diventa testo e specchio. In un’epoca in cui l’immagine corre veloce, Jodice ci ricorda la lentezza dello sguardo, la profondità del silenzio e la potenza della pietra e della luce.


Vedute di Napoli (1980)

La città come visione interiore
Realizzata all’inizio degli anni Ottanta, Vedute di Napoli segna una svolta nella ricerca di Mimmo Jodice. Non è una semplice serie urbana: è un viaggio metafisico attraverso la città che l’artista conosceva meglio di chiunque altro. Napoli diventa un corpo sospeso nel tempo, privo di figure umane ma attraversato da presenze invisibili.

Luce e silenzio come materia poetica
Nelle sue inquadrature — scorci di porto, cupole, statue, facciate consumate — la luce non serve a rivelare ma a velare. Le ombre si addensano, i contrasti si ammorbidiscono, e l’immagine si trasforma in una superficie mentale. È il momento in cui Jodice passa dalla fotografia documentaria alla visione poetica, fondendo rigore formale e spiritualità mediterranea.

Un archetipo del Mediterraneo
Napoli, nelle Vedute, diventa simbolo universale del Mediterraneo: luogo di stratificazioni, di memoria e di permanenza. Ogni pietra, ogni scorcio architettonico rimanda a un’origine remota, e il bianco e nero asciutto diventa linguaggio dell’eternità.

Ricezione e influenza
La serie venne esposta e pubblicata in più occasioni, imponendosi come uno dei riferimenti fondamentali della fotografia italiana contemporanea. Molti critici l’hanno definita una “fenomenologia dello sguardo urbano”, capace di fondere classicità e modernità, mito e silenzio.


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Mostri, confini, identità. L’altra faccia dell’umano

Il concetto di “mostro” non appartiene solo al mondo della fantasia: per secoli ha costituito uno strumento culturale per escludere individui e intere comunità dalla “famiglia umana”. L’analisi storica e filosofica di Aeon evidenzia come processi di “mostrificazione” continuino oggi a influenzare diritti, cultura e politica.


Origine e definizione della mostrificazione

L’articolo su Aeon di Surekha Davies — storica della scienza — parte dall’osservazione che il termine “mostro” ha avuto storicamente una duplice funzione: accogliere ciò che appare sovrannaturale e al contempo marcare ciò che viene percepito come altro rispetto all’umano standard.
In quest’ottica, la “mostrificazione” — o “monster-making” — non si limita a individuare esseri fantastici o ibridi, ma rappresenta una vera e propria pratica sociale che stabilisce chi viene riconosciuto come pienamente umano e chi no. Ad esempio, Davies mostra come nell’Europa rinascimentale fossero raccolte in musei-camera le figure umane considerate “anormali”: nani, persone iper-pigmentate, corpi con malformazioni, tutti collocati nella categoria del prodigio o del mostruoso.

Il confine mobile tra umano e “mostro”

La prospettiva storica mette in luce che il confine tra umano e “mostro” è sempre stato fluido, variabile a seconda del contesto culturale, sociale e scientifico. Nel mondo antico, ad esempio, la presenza di un’anomalia fisica poteva essere interpretata come segno divino, manifestazione del caos o del disordine.
Nel corso del Medioevo e della modernità, l’ideale della Great Chain of Being (Grande scala dell’essere) collocava gli esseri umani in una catena che, in basso, sfumava in animali e in creature “inferiori” o “irregolari”. Questo rendeva più agevole il processo di esclusione di chi non rientrava nei canoni normativi di fisicità, comportamento o appartenenza etnica.

Monster-making, razza e potere

La mostra pratica della monstrificazione ha assunto anche forme strutturate e violente: la costruzione di “razze” al di fuori dell’umanità, la segregazione degli “altro”, la giustificazione del colonialismo, della schiavitù e delle discriminazioni. Davies riporta, ad esempio, che l’astronomo e tassonomo Carl Linnaeus, nel suo System of Nature del 1735, introdusse la categoria di Homo monstrosus per alcuni “popoli” che si trovavano al margine dell’umanità secondo i parametri europei del tempo.
Nel XX secolo, queste logiche sono riemerse con maggiore chiarezza nelle teorie razziali, nella propaganda nazista che definì intere comunità come “sub-umane”, e nella costruzione giuridica e culturale di categorie non-umane, da cui derivarono esclusione e violenza.

La contemporaneità: nuovi margini e nuove forme

Davies sottolinea come la monstrificazione non sia un fenomeno relegato al passato, ma attivo e mutevole nel presente. Le soglie del riconoscimento umano vengono continuamente rinegoziate — verso transessuali, persone neurodivergenti, migranti, ibridi uomo-macchina, intelligenze artificiali.
Ad esempio, con lo sviluppo delle tecnologie genetiche, dei cyborg e dell’intelligenza artificiale, si ridefiniscono i confini del corpo, dell’identità e dell’umano: chi è considerato “umano” può cambiare, e con esso chi viene escluso dall’umanità.

Perché è importante riconoscere la monstrificazione

Comprendere la logica della monstrificazione è cruciale per due motivi principali:

  • Permette di individuare come le strutture culturali creino “altro” da sé — e come questa alterità venga stigmatizzata o esclusa.
  • Aiuta a promuovere un’etica della riconoscenza che non si basi sul “normale”, ma sull’inclusione delle differenze. Davies propone la nozione di monstrofuturism: una visione etica che accoglie la pluralità, la transizione, le forme ibride di essere, e rifiuta la gerarchia fra “umani” e “non-umani”.

Implicazioni per arte, cultura e società

Il discorso assume implicazioni dirette nel campo dell’arte, della fotografia, dei media e della cultura visiva: l’immagine del “mostro” è stata da sempre una proiezione simbolica delle paure, delle differenze, del potere. Identificare come si costruiscono queste immagini – e come vengono veicolate nei musei, nei racconti, nei media – diventa un atto di critica estetica e politica.
Nella società contemporanea, le tecnologie digitali, i social network, la realtà aumentata e la biotecnologia creano nuovi “margini” dell’umano e dunque nuove condizioni di esclusione. L’articolo di Davies invita a non restare spettatori, ma a esercitare uno sguardo consapevole verso i modi in cui definiamo l’umanità stessa.

La storia del “mostro”, dunque, rivela che l’umanità non è un dato statico, bensì una conquista culturale e politica che richiede vigilanza e inclusione. Riconoscere e decostruire i processi di monstrificazione significa ridefinire chi è incluso nella “famiglia umana” — e dunque costruire una società più equa e pluralista. Come osserva Davies: la linea tra umano e “mostro” non fissa chi siamo, ma riflette chi scegliamo di escludere.


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La Galleria Campari celebra l’incontro tra cinema, pubblicità e moda

Una mostra alla Galleria Campari di Sesto San Giovanni racconta, attraverso manifesti, fotografie e filmati, come il marchio milanese abbia intrecciato la propria storia con quella del cinema e del divismo del Novecento. Dalle icone del muto al glamour degli anni Sessanta, sessant’anni di pubblicità, moda e sogni in rosso Campari.


C’è un filo rosso che attraversa la storia del Novecento, e non è solo quello del Campari. È il colore di un secolo che ha fatto del sogno e dell’immagine i suoi emblemi, unendo la magia del cinema alla seduzione della pubblicità. La mostra “Red Carpet. Il cinema dei sogni. Campari e l’immaginario del divismo 1900–1960”, ospitata alla Galleria Campari di Sesto San Giovanni dal 23 ottobre 2025 al 2 giugno 2026, riporta alla luce sessant’anni di cultura visiva, intrecciando arte, grafica, cinema e moda in un racconto sul divismo e sull’evoluzione del gusto.

Curata da Giulia Carluccio, la rassegna nasce dall’inesauribile Archivio Storico Campari, un patrimonio che da decenni alimenta nuove narrazioni sulla modernità italiana. Manifesti, fotografie, bozzetti, caroselli e documenti visivi costruiscono un itinerario che riflette i cambiamenti del costume e del modo di comunicare: dal futurismo di Fortunato Depero alle icone del cinema americano, fino all’irruzione del glamour degli anni Sessanta.

La mostra è frutto di una rete di collaborazioni prestigiose: oltre alla Galleria Campari, i materiali provengono dal Museo Nazionale del Cinema di Torino, da Magnum Photos, dall’Archivio Luce Cinecittà, dallo CSAC – Università di Parma, dalle collezioni Bortone Bertagnolli e Dario Cimorelli, da Vogue–Condé Nast, e persino dalla Pinacoteca di Brera e dalla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano. Un mosaico di fonti che restituisce l’immagine di un’epoca in cui l’estetica e la pubblicità si fondevano in un unico linguaggio.

Il fascino del divismo

Il percorso si articola in cinque nuclei tematici. Il primo, “Nel regno della celluloide”, racconta i primi decenni del Novecento, quando il cinema muto si affermava come “fabbrica dei sogni”, e la pubblicità imparava a sfruttarne la potenza visiva. Seguono le “Figure del desiderio”, dedicate alla nascita dello star system e alla costruzione del mito della diva, dal fascino magnetico di Greta Garbo all’eleganza di Marlene Dietrich.

Gli anni Cinquanta e Sessanta introducono le nuove generazioni di attori, influenzate dalla Nouvelle Vague europea e dall’Actors Studio americano, con l’irrompere di personalità più spontanee, meno patinate: Jean-Paul Belmondo, Anna Karina, Marlon Brando. Parallelamente, in casa Campari emergono le grafiche pop di Guido Crepax e Franz Marangolo, segno di un’epoca che guarda con ironia e libertà al mondo dei consumi e del piacere.

Campari e la rivoluzione dell’immagine

L’azienda milanese è stata una delle prime a comprendere il valore culturale della comunicazione visiva. Già dagli anni Dieci sperimentava la relazione tra cinema e pubblicità, producendo filmati promozionali e spot animati, mentre dagli anni Venti affidava la propria immagine a Depero, che coniugò il linguaggio futurista alla forza del marchio, ideando manifesti, arredi e l’inconfondibile bottiglietta del Campari Soda (1932), uno dei primi esempi di design industriale italiano.

Prima ancora, Campari si era affidata al talento di illustratori come Marcello Dudovich, maestro del liberty e del colore, e Ugo Mochi, celebre per le sue silhouette ritagliate, eleganti e sintetiche. Tutto concorreva a creare un universo coerente e riconoscibile, in cui il marchio si trasformava in simbolo di stile e modernità.

Il gesto che libera

Chiude l’esposizione un focus sulle celebri fotografie del newyorkese Philippe Halsman, noto per la sua “jumpology”: ritratti di modelle, artisti e attrici colti nell’atto di saltare. Tra le protagoniste, Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, Grace Kelly, icone di una femminilità nuova, spontanea, senza pose. “Con un salto la maschera cade – diceva Halsman – la persona reale si rivela.” È una metafora perfetta per un’epoca in cui la pubblicità e il cinema cercavano di avvicinare la verità dietro l’immagine, la persona dietro il mito.

Un racconto di modernità

Red Carpet non è solo una mostra di manifesti o fotografie, ma un racconto di modernità italiana e internazionale, in cui il marchio Campari diventa lente d’ingrandimento per osservare il secolo breve. Dalla Milano industriale del primo Novecento alla nascita del consumismo, dal sogno collettivo del cinema al design come linguaggio del quotidiano, tutto concorre a delineare un paesaggio estetico che è ancora oggi parte dell’immaginario collettivo.

Campari, con la sua storia intrecciata all’arte, al cinema e alla comunicazione, continua a dimostrare come un brand possa diventare anche un osservatorio privilegiato sulla cultura visiva del Novecento — e, forse, una chiave per leggere la nostra contemporaneità.


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Cai Guo-Qiang ha acceso il cielo di Parigi

Un’esplosione di arte e luce saluta il Centre Pompidou appena chiuso per restauri. Con Le Dernier Carnaval, l’artista cinese Cai Guo-Qiang trasforma la facciata del Beaubourg in un dipinto di fumo e colore, fondendo l’energia della polvere da sparo con l’intelligenza artificiale.


A un mese esatto dalla chiusura del Centre Pompidou per un lungo restauro, Parigi non rinuncia al suo cuore pulsante d’arte contemporanea. Il 22 ottobre, mentre la capitale vive la settimana di Art Basel Paris, la piazza antistante il Beaubourg ha accolto Le Dernier Carnaval, spettacolo pirotecnico ideato da Cai Guo-Qiang — il più celebre alchimista della polvere da sparo del nostro tempo. Per venti minuti, a partire dalle 17.30, la facciata del museo — chiuso dal 22 settembre per lavori che dureranno fino al 2030 — si è animato di lampi, fumi colorati e bagliori intermittenti. Un evento gratuito, su prenotazione online, che ha trasformato un’assenza in una presenza luminosa, restituendo simbolicamente alla città il suo museo anche a porte chiuse.

Organizzato con il sostegno della galleria White Cube e curato da Jérôme Neutres, Le Dernier Carnaval è stato articolato in tre atti: Le Banquet, L’Aube de l’IA e Le Dernier Carnaval. Una trilogia che evoca il passato, il presente e il futuro del Pompidou, dove la riflessione sull’uomo e la tecnologia prende forma attraverso l’intervento dell’intelligenza artificiale cAI™ — una creatura digitale sviluppata dallo stesso artista nel 2017, capace di generare immagini e idee in dialogo con il suo pensiero visivo.

«Per la prima volta nella sua storia, la facciata del Centre Pompidou è diventato un dipinto monumentale» ha affermato il curatore dell’evento Jérôme Neutres. «Cai ha realizzato la sua opera più profonda e complessa finora, in dialogo sia con l’Intelligenza Artificiale che con il pubblico parigino».

L’opera rientra nella poetica esplosiva che da oltre trent’anni definisce l’arte di Cai Guo-Qiang (nato a Quanzhou nel 1957). Dopo aver studiato all’Accademia Teatrale di Shanghai, l’artista si è trasferito in Giappone negli anni Ottanta, dove ha iniziato a sperimentare la polvere da sparo come mezzo espressivo. Le sue explosion events — tra pittura, performance e rituale — uniscono filosofia taoista, energia naturale e dimensione cosmica, traducendo l’imprevedibilità della deflagrazione in gesto estetico e spirituale.

Premiato con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1999, Cai è stato anche il primo artista cinese a cui il Guggenheim di New York ha dedicato una retrospettiva (I Want to Believe, 2008). Nel 2018 Firenze assistette al suo omaggio a Botticelli: con Flora Comedia, un tripudio di 50.000 fuochi d’artificio dipinse nel cielo sopra Piazzale Michelangelo una “Primavera” di pura luce, fondendo tradizione rinascimentale e poesia pirotecnica.

Nel suo percorso, l’artista ha sempre trasformato il cielo in una tela e la polvere in linguaggio. Dai Fireworks Projects realizzati a Doha, Shanghai o Hiroshima, fino alle installazioni concepite per il MET di New York o per il Museo di Capodimonte, il suo lavoro oscilla tra distruzione e creazione, tra fragilità e immensità.

Con Le Dernier Carnaval, Cai Guo-Qiang ha firmato, dunque, un doppio rito: un addio provvisorio al Beaubourg e una celebrazione del suo spirito innovatore. In un’epoca in cui l’arte si interroga sulla coesistenza tra uomo e algoritmo, la sua esplosione di colori diventa anche un dialogo filosofico: il fuoco ancestrale incontra l’intelligenza artificiale, la materia si fa pixel, e il gesto umano diventa luce effimera, sospesa sopra la città che più di ogni altra ha insegnato al mondo il valore della modernità.


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Il Giappone segreto di “The Missing Post Office”

Sull’isola giapponese di Awashima esiste un luogo dove le lettere perdute trovano rifugio. “The Missing Post Office”, il cortometraggio del regista francese Clément Lefer, racconta con tono poetico e contemplativo l’intimità di questo spazio sospeso nel tempo, dove la parola scritta continua a cercare un destinatario.


In meno di nove minuti, Lefer riesce a trasformare un semplice ufficio postale in un simbolo universale di memoria e nostalgia. Il film, girato sull’isola di Awashima, nel Mare interno di Seto, dà voce a un luogo reale: un vecchio edificio in legno che, dopo la chiusura nel 1991, è rinato come installazione artistica grazie alla giapponese Saya Kubota. L’artista lo ha trasformato nel “Missing Post Office”, parte della Setouchi Triennale 2013, una rassegna dedicata alla rinascita delle isole minori del Giappone attraverso l’arte contemporanea.

All’interno dell’ex ufficio postale di Mitoyo – nella prefettura di Kagawa – cento caselle di metallo, sospese al soffitto da corde di pianoforte, oscillano lentamente, emettendo suoni che ricordano il frangersi del mare. In esse sono custodite migliaia di lettere mai giunte a destinazione: messaggi indirizzati a defunti, amori lontani, sé stessi, persone immaginarie o persino oggetti. Chi visita l’isola può leggere quei frammenti di vita e, se ne trova uno che sente appartenergli, è libero di portarlo con sé.

Kubota, in origine, aveva concepito il progetto come un esperimento sociale e artistico sulla comunicazione e sull’assenza, ma la risposta del pubblico ha superato ogni aspettativa. Nel corso degli anni, il flusso di lettere è cresciuto tanto da ispirare punti di raccolta anche altrove: uno presso l’aeroporto di Takamatsu e persino una filiale temporanea a Londra. Ne è nato un archivio di emozioni collettive, un mosaico di umanità in cui il dolore, la speranza e la memoria convivono.

È in questo contesto che si inserisce il film di Clément Lefer, un giovane regista francese affascinato dal potere silenzioso delle storie dimenticate. “Ho scoperto l’esistenza di questo luogo per caso, leggendo un articolo – racconta – e poche settimane dopo sono partito da solo per filmarlo. Sull’isola ho trovato un ufficio aperto solo tre ore a settimana, invisibile sulla maggior parte delle mappe, e nella sua luce dorata un uomo anziano seduto in silenzio. Da quell’incontro è nato tutto.”

L’uomo è Katsuhisa Nakata, novantunenne ex direttore postale e attuale custode dell’Ufficio delle lettere perdute. È lui a prendersi cura di questo spazio come di un tempio laico della memoria. Nel film, Lefer gli lascia la parola: la sua voce tranquilla e ironica accompagna le immagini come un filo sottile tra passato e presente, mentre alcuni autori leggono le proprie lettere davanti alla cinepresa con pudore e sincerità.

“The Missing Post Office”, presentato in vari festival internazionali, si distingue per la delicatezza con cui racconta la relazione tra la scrittura e il ricordo. Nelle sue immagini si percepisce l’influenza del cinema contemplativo giapponese, da Naomi Kawase a Hirokazu Kore-eda, ma anche la sensibilità francese per il dettaglio emotivo. Il risultato è un ritratto commovente dell’impermanenza, dove il gesto di scrivere diventa un modo per restare vivi nel pensiero di qualcuno.

Il fascino di Awashima ha ispirato anche la letteratura. La scrittrice Laura Imai Messina, nel romanzo Tutti gli indirizzi perduti (2022), ambienta la propria storia proprio tra quelle caselle sospese, evocando l’eco poetica di un mondo in cui la comunicazione non è mai del tutto interrotta. “Chi scrive pensa troppo, e da lì nasce la malinconia”, dice uno dei suoi personaggi. Una frase che sembra racchiudere lo spirito stesso del progetto di Kubota e Lefer: dare voce a chi non può più rispondere, o a chi non ha mai avuto il coraggio di inviare la propria lettera.

Oggi, il Missing Post Office di Awashima continua a funzionare, aperto poche ore a settimana, ma costantemente alimentato da nuove parole provenienti da ogni parte del mondo. È diventato un santuario della memoria epistolare, un luogo in cui si incrociano le vite di sconosciuti e in cui la scrittura, pur privata della sua funzione pratica, ritrova il suo valore più profondo: quello di un gesto umano, fragile e necessario.


La Setouchi Triennale e l’arte che rigenera le isole del Mare Interno

Nata nel 2010 su iniziativa del collezionista e mecenate Soichiro Fukutake, la Setouchi Triennale è una delle più importanti manifestazioni d’arte contemporanea del Giappone. Si svolge ogni tre anni sulle isole del Mare Interno di Seto, un arcipelago punteggiato di villaggi in declino, colpiti da decenni di spopolamento e invecchiamento della popolazione.

L’obiettivo del festival è stato fin dall’inizio quello di rivitalizzare le comunità locali attraverso l’arte, invitando artisti giapponesi e internazionali a creare installazioni permanenti o temporanee in dialogo con il paesaggio naturale e la memoria dei luoghi. Ne sono nate opere site-specific che intrecciano architettura, natura e vita quotidiana, trasformando queste piccole isole in un laboratorio di rigenerazione culturale unico al mondo.

Tra gli interventi più noti si ricordano le opere di Tadao Ando, Yayoi Kusama, Hiroshi Sugimoto, Christian Boltanski, Lee Ufan, Rei Naito e molti altri, distribuiti su isole come Naoshima, Teshima, Inujima e Shodoshima.

È in questo contesto che si inserisce anche il progetto di Saya Kubota: artista e designer nata a Tokyo nel 1982, nota per il suo interesse verso la comunicazione e la relazione tra linguaggio e materia. Nel 2013, per la Triennale di Setouchi, Kubota ha ideato il “Missing Post Office”, allestendo l’antico ufficio postale di Mitoyo come un luogo simbolico dove far confluire i messaggi mai consegnati.

L’opera, ispirata alla poetica dell’ascolto e alla necessità di dare voce alle assenze, è divenuta nel tempo una delle installazioni più amate e visitate della Triennale. La sua forza risiede nella semplicità del gesto: trasformare la scrittura privata in esperienza collettiva, restituendo senso e valore alla comunicazione umana in un’epoca dominata dai messaggi istantanei.

Oggi il Missing Post Office continua a esistere anche al di fuori della manifestazione artistica, come progetto permanente e partecipativo. È diventato un luogo della memoria universale, dove le parole — anche quelle mai lette — possono ancora trovare ascolto.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
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A Chartres le vetrate gotiche diventano interattive

Un capolavoro del Medioevo incontra l’intelligenza artificiale. Nella Cattedrale di Chartres, celebre per le sue vetrate gotiche, un’applicazione innovativa consente oggi di decifrare i racconti biblici e simbolici nascosti nei vetri istoriati, trasformando la visita in un’esperienza interattiva tra luce, arte e tecnologia.


Un’applicazione basata sull’intelligenza artificiale permette oggi di esplorare, attraverso lo smartphone, i segreti delle celebri vetrate della Cattedrale di Chartres: un patrimonio medievale che incontra la tecnologia contemporanea.
Ogni anno oltre un milione di persone varca la soglia della Cattedrale di Notre-Dame de Chartres, capolavoro dell’arte gotica francese e patrimonio mondiale dell’UNESCO dal 1979. Tra le sue navate luminose, 2.600 metri quadrati di vetri istoriati — un tesoro unico al mondo — raccontano in immagini la Bibbia e la vita dei santi, seguendo la tradizione della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Le sue 176 vetrate, risalenti in gran parte al XIII secolo, sono sopravvissute a guerre, incendi e restauri, mantenendo intatta la loro potenza visiva e simbolica.

Oggi, grazie a un progetto del Centre international du Vitrail di Chartres, questo patrimonio millenario si apre a una nuova forma di lettura. Basta puntare la fotocamera del proprio smartphone verso le vetrate: l’app riconosce la scena e restituisce sullo schermo la descrizione completa dell’opera, in alta definizione. Il sistema, ideato da Jean Touchard, responsabile dei progetti digitali del Centro, sfrutta algoritmi simili al riconoscimento facciale per identificare i personaggi e le scene raffigurate, tenendo conto anche delle variazioni di luce che mutano nel corso della giornata e delle stagioni.

L’idea è nata da un’osservazione semplice e disarmante: «Sono belle le tue vetrate, mamma, ma non ci capisco niente», aveva detto una bambina durante la visita. Una frase rimasta impressa a Touchard e divenuta la scintilla di un progetto che ambisce a restituire alle immagini medievali la loro funzione originaria di racconto e insegnamento.

Per costruire il database che alimenta l’applicazione, sono serviti sette anni di lavoro, 3.000 fotografie e la catalogazione di 10.000 medaglioni e 20.000 dettagli iconografici. «Un’enciclopedia tascabile», la definisce Jean-François Lagier, direttore del Centre du Vitrail, frutto di un investimento di circa 270.000 euro, finanziato in gran parte da sponsor privati. L’app non è solo uno strumento turistico, ma anche un supporto didattico per guide, studenti e appassionati.

A ricordare che l’arte gotica è tutt’altro che immediata interviene Félicité Schuler-Lagier, guida della cattedrale e coautrice del progetto: «Le vetrate non sono la “Bibbia dei poveri” come spesso si ripete. Anche nel Medioevo servivano chiavi di lettura. Ogni colore, gesto o piega di un abito aveva un significato preciso. La tecnologia ci aiuta a decifrare un linguaggio dimenticato».

La Cattedrale di Chartres, costruita tra il 1194 e il 1220, è considerata uno degli esempi più puri di architettura gotica. Le sue vetrate, note per l’intensità del celebre “blu di Chartres”, rappresentano un vertice della tecnica medievale e della teologia visiva. Con l’app, il visitatore può scoprire la storia di figure come Noè, Giuseppe, il Buon Samaritano o il Figliol Prodigo, e comprendere il filo narrativo che lega ogni scena all’insieme del programma iconografico.

Il risultato è un dialogo tra passato e futuro: la luce filtrata dalle vetrate, concepita per istruire i fedeli nel Medioevo, viene oggi reinterpretata attraverso la luce digitale degli schermi. Un gesto semplice — inquadrare con lo smartphone — restituisce senso e voce a immagini antiche di otto secoli, permettendo a chiunque di decifrare la complessità simbolica del gotico.

E mentre a Chartres l’applicazione è già in funzione su cinquanta vetrate, il progetto punta a espandersi in altre cattedrali francesi. Perché, come suggerisce Touchard, «la tecnologia, se ben usata, non sostituisce la contemplazione: la approfondisce».


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Storia linguistica e culturale di un’icona italiana

Nato tra i bacari del Veneto e le piazze dell’Impero asburgico, lo spritz è oggi un simbolo globale dell’aperitivo all’italiana. Dietro il suo colore brillante e il suo sapore frizzante si nasconde una storia fatta di contaminazioni linguistiche, mutazioni sociali e rivoluzioni mediatiche che ne hanno fatto un’icona pop del nostro tempo.


In Italia, “bere uno spritz” è diventato un gesto identitario. Dalla prima metà del Novecento il termine si è progressivamente emancipato dal bicchiere per entrare nella lingua viva e nei media, generando una costellazione di derivati: spritzare, spritzzeria, spritz-mania, spritz-dipendente. Dal 2017 compare ufficialmente nel Vocabolario Treccani: «s. m. inv. Aperitivo a base di vino bianco, acqua frizzante o seltz e bitter o vermut».
Non più semplice sostantivo, dunque, ma parola-simbolo che racconta un costume, un modo di stare insieme, una leggerezza collettiva che si è fatta linguaggio.

La sua origine, come spesso accade nei processi culturali italiani, è un racconto di scambi e adattamenti. “Spritz” deriva dal verbo tedesco spritzen, che significa “spruzzare”: una parola importata nel Triveneto durante la dominazione austro-ungarica e adattata alla pronuncia locale. La bevanda che oggi conosciamo è figlia di quell’incontro linguistico, oltre che di una pratica conviviale sedimentata nei secoli.

Dai bacari veneti ai media nazionali

L’aperitivo “spruzzato” nasce probabilmente tra Venezia e Padova nell’Ottocento, dove gli ufficiali austriaci ammorbidivano il vino locale con un po’ d’acqua frizzante. Dopo la Seconda guerra mondiale lo spritz diventa l’abitudine serale dei giovani veneti, bevuto nei bacari e nei bar del centro, preparato con bitter locali come il Select o con liquori più amari come il Cynar.

Il nome inizia a circolare fuori regione negli anni Cinquanta, complice la pubblicità televisiva del Carosello e l’ascesa di marchi come Aperol, fondato a Padova nel 1919. Ma è solo all’inizio del nuovo millennio, con la campagna internazionale dell’“Aperol Spritz”, che la bevanda assume la dimensione di fenomeno globale: il rito dell’aperitivo all’italiana conquista le capitali europee, poi New York e Tokyo.
Da gesto quotidiano diventa segno culturale, e il suo lessico si espande: happy hour, spritz-time, apericena entrano stabilmente nel linguaggio dei media e dei consumi.

Un caso mediatico e politico

A partire dagli anni Duemila lo spritz si trasforma in un cliché giornalistico, usato per descrivere tutto ciò che è giovane, spensierato o mondano. Nel 2004 il Corriere della Sera titola “Padova mette il bavaglio ai ragazzi dello spritz”: è l’inizio di un lessico nazionale. Negli anni successivi proliferano gli articoli sull’“estate spritzzante”, sui “militanti dello spritz”, persino su preti di strada soprannominati “don Spritz”.

La parola si presta a ogni contesto: politico, mondano, economico. Da Draghi che scherza sullo “spritz al Campari” a Giorgia Meloni fotografata “con uno spritz in jeans”, fino al presidente del Veneto Luca Zaia che ne spiega la ricetta in un video virale. Lo spritz diventa un terreno comune, un codice ironico che accomuna piazze e palazzi del potere, simbolo di un’Italia che ama prendersi sul serio solo dopo l’aperitivo.

Letteratura, cinema e costume

La popolarità del termine ha generato un piccolo filone editoriale. Dai romanzi sentimentali (Avrei voluto solo uno spritz di Claudia Profera, Aspettami con uno spritz di Silvia Mazzocchi) ai noir (Uno spritz per il commissario Mezzasalma di Antonio Vasselli), fino a titoli di saggistica che ne ricostruiscono il percorso storico e simbolico.
Il più recente, Storia dello spritz di Gianni Moriani (Cierre Edizioni, 2025), collega la bevanda alla lunga tradizione conviviale che va dai simposi greci ai banchetti romani, fino allo Spritz Day, celebrato dal 2023 ogni 1° agosto.

Il bicchiere arancione diventa così oggetto narrativo, metafora di amicizia e nostalgia, emblema di un’Italia capace di auto-ironizzarsi. Nelle pagine e sullo schermo, lo spritz rappresenta l’istante sospeso tra lavoro e tempo libero, un gesto che ha sostituito l’espresso come simbolo di socialità urbana.

Dalle origini mitteleuropee al rito pop

Se l’etimologia rinvia al mondo germanico, la storia della bevanda attraversa il cuore dell’Europa di metà Ottocento. Nel 1857, in un giornale ungherese pubblicato a Budapest, appare per la prima volta il termine spritzer, riferito a un “vino mescolato con acqua frizzante” servito… a Venezia.
Sessant’anni più tardi, nel 1928, il giornalista Elio Zorzi racconta nelle sue Osterie veneziane di un “bismark o spritz” servito con una scorzetta di limone: una bevanda delicata e “innocente”, di cui già allora si riconosceva la vocazione nobiliare.
Nel 1979, la veneziana Mariù Salvatori de Zuliani ne consegna la ricetta definitiva: vino bianco, bitter, scorza di limone e un tocco di gin per “darghe a sto aperitivo modesto una çerta qual aria de nobiltà”.

Quell’“aria di nobiltà” si è oggi trasformata in un’icona pop: un bicchiere che unisce lingue, territori e generazioni diverse, specchio di un’Italia liquida e colorata, capace di trasformare una spruzzata d’acqua e vino in simbolo universale di convivialità.

Per concludere. Dallo spruzzo di seltz dei soldati austriaci allo skyline di New York, lo spritz ha percorso quasi due secoli di storia, linguaggio e costume. È la dimostrazione che anche un gesto quotidiano può farsi rito collettivo, e che le parole – come le bevande – sanno viaggiare, mutare, reinventarsi. In fondo, dentro ogni calice arancione c’è la leggerezza dell’Italia contemporanea: un Paese che ama raccontarsi con un sorriso, possibilmente al tramonto, davanti a un bicchiere frizzante.


A chiarimento delle problematiche relative al copyright delle immagini.
Le immagini eventualmente riprodotte in pagina sono coperte da copyright (diritto d’autore). Tali immagini non possono essere acquisite in alcun modo, come ad esempio download o screenshot. Qualunque indebito utilizzo è perseguibile ai sensi di Legge, per iniziativa di ogni avente diritto, e pertanto Experiences S.r.l. è sollevata da qualsiasi tipo di responsabilità.

Il Grand Paris Express e la nascita del museo metropolitano

Parigi si prepara a riscrivere la propria geografia sotterranea con il Grand Paris Express, un progetto che unisce ingegneria e arte contemporanea. Le nuove linee della metropolitana non saranno soltanto infrastrutture di trasporto, ma tappe di un museo diffuso che attraversa la città, trasformando il quotidiano in esperienza estetica. Attraverso il programma L’Art du Grand Paris, artisti, architetti e curatori internazionali ridefiniscono il paesaggio urbano del futuro, rendendo ogni stazione un luogo di incontro, memoria e immaginazione collettiva.


Un secolo dopo l’inaugurazione della prima linea della metropolitana parigina, la capitale francese si prepara a vivere una nuova rivoluzione urbana. Il Grand Paris Express non sarà soltanto il più grande progetto infrastrutturale d’Europa, ma anche un laboratorio d’arte contemporanea diffusa, destinato a trasformare ogni stazione in un luogo di incontro, contemplazione e cultura.

Quando nel 1900 la prima linea della Métro di Parigi entrò in funzione per l’Esposizione universale, la città seguiva l’esempio di Londra, Istanbul e Chicago, che avevano già sperimentato il fascino del trasporto sotterraneo. Da allora la rete si è estesa fino a 321 stazioni distribuite su 16 linee, per un totale di 245,6 chilometri. Ma ciò che si profila all’orizzonte è di ben altra portata: con il Grand Paris Express, la rete sarà ampliata di oltre 200 chilometri, grazie a quattro nuove linee e due prolungamenti di tracciati esistenti. I lavori, iniziati nel 2015, dovrebbero concludersi entro il 2030, ridisegnando la geografia quotidiana di milioni di cittadini.

Parallelamente alla costruzione dell’opera, la Société du Grand Paris (SGP) ha varato un vasto programma culturale, “L’Art du Grand Paris”, che coinvolge artisti, architetti e abitanti dei quartieri interessati. Il progetto prevede 70 installazioni permanenti, accanto a interventi temporanei, eventi e collaborazioni locali. L’obiettivo è ambizioso: integrare l’arte contemporanea nella vita di tutti i giorni e fare di ogni fermata non solo un nodo di transito, ma uno spazio di esperienze sensibili e riflessioni estetiche.

«Questa collezione darà vita a un grande museo sotterraneo aperto a tutti, che rafforzerà l’ambizione urbana del progetto», afferma Jean-François Monteils, presidente della SGP, che nel 2010 ha avviato il programma sotto l’egida dello Stato francese.

La direzione artistica è affidata a José-Manuel Gonçalvès, già responsabile del centro culturale Centquatre-Paris, affiancato da un comitato di curatori e direttori di musei di primo piano: Laurent Le Bon (Centre Pompidou), Annabelle Ténèze (Louvre-Lens), Martin Bethenod (Crédac), Fabrice Bousteau (Beaux-Arts Magazine) e Constance Rubini (Musée des Arts décoratifs et du Design di Bordeaux).

Tra gli artisti selezionati figurano nomi di rilievo internazionale come Sophie Calle, JR, Anselm Kiefer, Daniel Buren, Eva Jospin, Otobong Nkanga, Michelangelo Pistoletto, Petrit Halijaj, insieme a giovani talenti della scena contemporanea come Noémie Goudal, Hicham Berrada e Guillaume Bresson.

«È la storia di un incontro tra discipline — spiega Bernard Cathelain, membro del consiglio della SGP — un dialogo senza precedenti tra artisti, architetti e ingegneri».

Ogni stazione diventerà un’opera a sé. A Saint-Denis Pleyel, Prune Nourry e Kengo Kuma realizzeranno un esercito di 108 “Veneri dionisiache” modellate con terre locali; a Bicêtre-Hôpital, Eva Jospin e Jean-Paul Viguier daranno forma a un monumentale rilievo in cemento e bronzo ispirato agli scavi archeologici; la stazione dell’aeroporto di Orly sarà decorata da un grande mosaico di azulejos firmato Vhils; a L’Haÿ-les-Roses, il duo Nonotak installerà “Ocean”, una scultura luminosa e cinetica. Michelangelo Pistoletto realizzerà invece per Champigny Centre un nastro luminoso in sedici lingue, con la scritta “Aimer les différences”, inno poetico alla diversità.

Una visione d’insieme di questa collezione in divenire è stata presentata alla stazione di Saint-Denis Pleyel dal 3 al 10 ottobre, dove plastici, video e installazioni temporanee hanno offerto un’anteprima del museo metropolitano che prenderà forma nei prossimi anni.

Più che un progetto infrastrutturale, il Grand Paris Express rappresenta un manifesto culturale del XXI secolo: una rete sotterranea che unisce ingegneria, arte e vita urbana, trasformando il quotidiano in un’esperienza estetica condivisa.


Il museo metropolitano del futuro

Il progetto
Il Grand Paris Express è il più vasto cantiere infrastrutturale europeo: quattro nuove linee (15, 16, 17 e 18) e due prolungamenti di tracciati già esistenti, per un totale di 200 chilometri aggiuntivi e 68 nuove stazioni. I lavori, avviati nel 2015, dovrebbero concludersi entro il 2030. L’opera mira a collegare le periferie senza passare per il centro, riducendo tempi di percorrenza e impatto ambientale.

L’arte nel sottosuolo
Parallelamente nasce L’Art du Grand Paris, un programma culturale che trasformerà la rete in un museo sotterraneo diffuso. Sono previste 70 installazioni permanenti e numerose opere temporanee. L’obiettivo è radicare l’arte nella vita quotidiana, rendendo ogni fermata un luogo di cultura e riflessione visiva.

La direzione artistica
Il progetto è curato da José-Manuel Gonçalvès, ex direttore del Centquatre-Paris, con un comitato che riunisce figure di rilievo come Laurent Le Bon (Centre Pompidou), Annabelle Ténèze (Louvre-Lens), Martin Bethenod, Fabrice Bousteau (Beaux-Arts Magazine) e Constance Rubini (Musée des Arts décoratifs et du Design de Bordeaux).

Gli artisti coinvolti
Tra i protagonisti: Sophie Calle, JR, Anselm Kiefer, Daniel Buren, Eva Jospin, Otobong Nkanga, Michelangelo Pistoletto, Petrit Halijaj, e le nuove voci Noémie Goudal, Hicham Berrada, Guillaume Bresson.
Tra i progetti già annunciati:
108 Veneri dionisiache di Prune Nourry e Kengo Kuma a Saint-Denis Pleyel
– Rilievo in cemento e bronzo di Eva Jospin e Jean-Paul Viguier a Bicêtre-Hôpital
– Mosaico di azulejos di Vhils a Orly Aéroport
– Installazione luminosa Ocean del duo Nonotak a L’Haÿ-les-Roses
– Nastro luminoso Aimer les différences di Michelangelo Pistoletto a Champigny Centre

Una collezione in progress
L’anteprima pubblica del progetto, allestita a Saint-Denis Pleyel (3–10 ottobre), ha presentato modelli, rendering e installazioni temporanee. Le prime opere definitive saranno visibili con l’apertura delle nuove linee, entro la fine del decennio.


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